F A M I G L I A |
“Cultura
della vita
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L’uomo di
oggi, come quello di ieri e del domani, appartiene al
Mistero che lo ha fatto attraverso le innumerevoli
appartenenze, favorite e consapevolmente attuate o
inconsapevolmente subite. La parola che Dio ha dato
all’uomo come luce che giudicasse il suo agire al livello
più profondo, dove l’agire nasce, nella Bibbia è
disponibile per la comprensione di tutto. La cultura
della vita si oppone alla cultura della morte già nelle
pagine del Libro della Sapienza. «Dio non
ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature
del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né
gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è
immortale» (Sap 1,13-15). Questa è
la promessa con cui Dio ci ha creati: e questa è la
giustizia. Eppure,
continua il Libro della Sapienza: «Gli empi invocano su di
sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si
consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché
son degni di appartenerle. Dicono fra loro sragionando:
“La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio,
quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi
dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non
fossimo stati. È un fumo il soffio delle nostre narici, il
pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una
volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo
spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà
dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle
nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una
nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del
sole e disciolta dal calore. La nostra esistenza è il
passare di un’ombra e non c’è ritorno dalla nostra
morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna
indietro”» (Sap 1,16; 2,1-5). Come sempre
il testo biblico è una grande profezia gettata sulla vita
dell’uomo. E forse mai come a questo nostro tragico tempo
si adattano le parole che abbiamo letto. Nella sua
enciclica dedicata al Vangelo della vita Giovanni Paolo II
scrive: «Il Vangelo della vita, risuonato al principio con
la creazione dell’uomo a immagine di Dio per un destino di
vita piena e perfetta, viene contraddetto dall’esperienza
lacerante della morte che entra nel mondo e getta l’ombra
del non senso sull’intera esistenza dell’uomo. La morte
vi entra a causa dell’invidia del diavolo e del peccato
dei progenitori. E vi entra in modo violento» (Evangelium
vitae, 1819). Per gli
uomini della nostra epoca la realtà - cose, persone,
desideri e progetti - acquistano così il carattere di
apparenza spaventosa descritto dalla Sapienza. Tutto sembra
avere il niente come nome comune. E tutto pare essere
trascinato in questo vortice che fa dire: «La nostra
esistenza è il passare di un’ombra». Che terribile una
posizione umana che accusi il colpo di una negatività
assoluta, totale, senza possibilità di rimedio! Ma questo
atteggiamento non è secondo la natura dell’uomo, è
piuttosto l’esito di una slealtà, frutto
dell’insinuarsi di un fattore estraneo nella vita umana
così come Dio l’ha pensata e creata. L’uomo, infatti,
non nasce come negatività, ma come promessa positiva. Il
bambino che esce dal ventre di sua madre fin dal primo
istante grida il desiderio di vita che è la stoffa della
sua identità e solo il tempo di un’educazione scorretta
può indebolire questa struttura originale introducendo il
dubbio che tutto sia privo di senso. Il dubbio come punto di
partenza sulla realtà non può fondare un’esistenza
personale, anche perché non corrisponde a nulla di reale. Le parole
del Libro della Sapienza mi pare aiutino a comprendere il
tema che ci è stato assegnato - “Cultura della vita e
cultura della morte” -, poiché sono un giudizio sulla
mentalità che oggi governa - consapevolmente o meno - la
vita del popolo, tante volte anche di coloro che si dicono
cristiani. La morte
domina il sentimento comune, su tutto stendendo il velo
dell’apparenza che dura un istante e poi svanisce come
neve al sole. E questa negatività porta a esaltare
l’attimo fuggente di una soddisfazione momentanea, tutto
il resto non avendo speranza di durata. Per questo
la Sapienza prosegue descrivendo l’atteggiamento di uomini
così ridotti nella loro umanità: «Su, godiamoci i beni
presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile!
Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci
sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli
di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla
nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni delle nostra
gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte.
Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove,
nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio.
La nostra forza sia regola della giustizia, perché la
debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché
ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci
rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le
mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. Proclama di
possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del
Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri
sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la
sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto
diverse sono le sue strade. Moneta falsa siam da lui
considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze.
Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per
padre. Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che
gli accadrà alla fine» (Sap 2,6-17). Qui sta
tutto il mondo come lo conosciamo almeno da alcuni secoli:
una esaltazione dell’apparenza delle cose come unica
ragione del vivere; una ostilità conclamata verso chi in
qualche modo dice che altra è la consistenza delle cose e
diversa è la realtà che si rende evidente
nell’esperienza. Come il
giusto del racconto biblico, anche noi oggi siamo stati
chiamati a vivere una responsabilità verso i fratelli
uomini che sono come investiti da una sorta di nube tossica
che fa sragionare e ottunde la vista. E la prima vittima di
questa intossicazione generale è la famiglia, quel livello
elementare di amicizia tra un uomo e una donna che ha un
compito particolare assegnato: la collaborazione con Dio al
dilatarsi della vita sulla Terra attraverso la procreazione
dei figli. Ora, a
quale livello si colloca il problema di una cultura della
vita? Per aiutarci a rispondere dobbiamo guardare alla
nostra esperienza elementare cui la Chiesa risponde con
l’annuncio di Cristo morto e risorto, e quindi vivo per
tutto il tempo della storia fino all’eternità. 2.
Il punto di partenza per il costituirsi di una cultura della
vita è il riconoscimento della vita come missione. Gesù
dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano
in abbondanza» (Gv 10,10). Lo scopo della vita che Dio dà
è qualcosa che sembra essere annullato dalla morte. Noi
abbiamo la vocazione cristiana. E questo viene molto prima
che l’essere uomo o donna: «Quanti siete stati battezzati
in Cristo - dice san Paolo -, vi siete rivestiti di Cristo.
Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né
libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi
siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27-28). C’è un
principio profondo che dà ben altro significato allo spunto
sia pur grazioso e almeno inizialmente così affascinante
come il rapporto affettivo uomo-donna, un principio che,
unico, può garantire la continuità e la fedeltà nel
tempo. Questo è letteralmente vero: senza la coscienza
espressa da san Paolo, la mentalità mondana - possiamo dire
anche moderna -, il guardare le cose secondo gli occhi della
carne, il vedere le cose come le vedono tutti con gli occhi
naturali, non può non avere nel divorzio, per esempio, il
suo ideale di umanità, di compassione, perché è veramente
impossibile altrimenti la verità del rapporto. Infatti ciò
che rende possibile la continuità non è l’amore
dell’uomo e della donna, ma l’amore dell’uomo e della
donna che è reso possibile da un’altra cosa. Noi siamo
stati toccati nel nostro essere da questo seme profondo: si
chiama Battesimo questo gesto, questo segno altrimenti così
insignificante, con il quale Cristo ci ha voluti, ci ha
toccati e ci ha eletti. A
che cosa ci ha eletti e perché? Perché siamo più coerenti
e migliori degli altri? No. «Come il Padre ha mandato me,
così io mando voi». La vita come missione è l’unica
definizione esauriente della vita secondo Gesù, perciò la
coscienza della vita come missione esaurisce la coscienza di
sé e il valore di tutto ciò che nasce da noi. Se non si
parte da questo, mettiamo in primo piano qualche altra cosa
mutuata dal sentimento mondano dell’esistenza: la
riuscita, la cura materiale dei figli, l’ospitalità. Ma
questo anche i pagani lo fanno, non ci sarebbe bisogno di
essere cristiani per ottenere queste pratiche. Qual
è la missione? Per che cosa ci ha mandati quel Mistero a
cui apparteniamo? Ce lo ricorda Giovanni Paolo II: «Presentando
il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù
dice: “Io sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)» (Evangelium
vitae, 1801). E il capitolo XVII del Vangelo di Giovanni
specifica: «Questa è la vita eterna: che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv
17,3). Perché «tutto è vostro, il passato, il
presente, il futuro, il tempo e lo spazio, la vita e la
morte, ma voi siete di Cristo» (1Cor 3,21-23).
Continua l’enciclica papale: «È proprio l’annuncio di
Gesù ad essere annuncio della vita. Egli, infatti, è il
“Verbo della vita” (1Gv 1,1). In lui “la vita
si è fatta visibile” (1Gv 1,2); anzi lui stesso è
“la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa
visibile a noi”… Questo Vangelo della vita si identifica
con Gesù stesso» (Evangelium vitae, 2067). Perciò
il punto di partenza è la conversione del singolo a Cristo,
la liberazione del singolo, per cui la vita è vissuta come
dovere d’annuncio sempre più maturamente e
coscientemente. Lo dice anche la liturgia del matrimonio:
Dio concede i figli perché abbiano a rigenerarsi
(testualmente, secondo l’antica formula evangelica). Ecco,
dunque, il punto di partenza: la vita come missione. Il
cuore di ciascuno fa sgorgare tutto il resto da questo, ma
non in modo automatico, perché c’è di mezzo sempre e
comunque la libertà, che è la modalità con cui Dio ha
voluto il rapporto con l’uomo creatura. In ogni caso, da
questo inizio prende corpo la possibilità di una cultura
della vita che investe ogni aspetto dell’esistenza e della
società. La famiglia è per un uomo e una donna il
quotidiano e continuo inizio della società nuova. Essa è
la struttura di rapporto che più umanamente testimonia che
cosa ci abilita alla missione: il sacramento del Battesimo.
Ogni altro sacramento è abilitazione ulteriore a questo. Il
matrimonio ha questo preciso senso: determinare il volto
completo del mio soggetto missionario. E la prima missione
è con la moglie e con il marito, anzi, meglio, la prima
missione è con se stessi. Un errore in cui siamo caduti
tutti è quello di pensare che la pura convivenza generi
comunione, mentre è il mistero di Cristo in noi che genera
comunione. 3.
La famiglia realizza la sua vocazione attraverso
l’educazione dei figli, perché lo scopo non è il
semplice procreare, ma l’educazione al senso della vita.
L’inizio del nostro movimento ha subito formulato un
canto, espressivo di questo: «Povera voce di un uomo che
non c’è, la nostra voce se non ha più un perché…
tutta la vita chiede l’eternità». Frutto
e sintomo della coscienza missionaria, e perciò anche della
comunione che unisce l’uomo e la donna, è l’educazione
dei figli. I bambini crescono osservando come viviamo noi
grandi. Perciò educare i figli significa farli partecipare
alla realtà della comunione dell’uomo e della donna che
hanno dato loro la vita. «È
soprattutto attraverso l’educazione dei figli che la
famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo
della vita. Con la parola e con l’esempio, nella
quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e
segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà
autentica, che si realizza nel dono sincero di sé.
L’opera educativa dei genitori cristiani deve farsi
servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto perché
adempiano la vocazione ricevuta da Dio» (Evangelium
vitae, 2108). Non
è così ovvio come potrebbe sembrare che il fatto educativo
sia preso sul serio in una famiglia che viva il clima
sociale attuale. Il teologo Jungmann definiva l’educazione
come l’aiuto a entrare dentro tutta la realtà, ma questo
esige una ricchezza di preoccupazioni che il clima odierno
tende a sconsigliare affinché la vita degli adulti possa
essere il più possibile quieta. Inoltre il clima attuale ha
un’attitudine a giustificare tranquillamente tutto,
eliminando anche la distinzione tra bene e male. Perciò
se, da un lato, sembra evidente che la famiglia sia il primo
ambito educativo (essa, infatti, è la prima struttura
dinamica in cui la natura realizza la sua capacità di
generazione e di sviluppo), dall’altro, non è così
scontato che sia la preoccupazione educativa a guidare la
presenza e l’operato dei genitori. Nella confusione dei
valori che caratterizza il mondo attuale il come “vengano
su” i figli dal punto di vista umano è diventato
secondario rispetto ad altre preoccupazioni: la salute, la
preparazione ad acquisire un buon posto nel lavoro e quindi
nella società. Bisogna
però dire che qualunque clima, in qualunque momento della
storia non potrà mai eludere quello che per natura l’uomo
porta dentro, e quindi non potrà mai sopprimere le ansie e
le esigenze con cui la natura creata da Dio fa vibrare il
cuore dell’uomo. La cosa più importante, la cosa
necessaria per educare è anche la prima cosa che oggi si
perde; una volta il clima sociale la faceva rimanere anche
in modo inconsapevole, oggi invece ce la strappa via. Per
capire che cos’è questa cosa così necessaria per educare
immaginiamo una mamma che la mattina entra nella cameretta
per svegliare il suo bambino. Supponete che sia un momento
umanamente così fortunato che si fermi a due metri dal
letto e guardi dormire quella creatura, che è uscita da
lei, che prima non c’era e quasi prescindendo dal fatto
che è sua, pensasse: «Chissà che cosa l’aspetta dalla
vita, chissà che cosa incontrerà» e poi, ancora: «Ma
questa creatura ha un destino, altrimenti sarebbe stato
ingiusto e inutile farla nascere, perché farla nascere
significa esporla alla possibilità dei più gravi dolori».
È un sentimento umano che quel bambino è tuo, madre, ma
non è tuo. Ha talmente un suo destino! In termini cristiani
si dice, con un termine molto pregnante, che ha una sua
vocazione, cioè è stato chiamato da Qualcosa che non sei
tu e questo Qualcosa lo chiama a un traguardo, a un fine che
non sei tu, padre e madre. Qui si attesta la possibilità di
una cultura della vita, cioè di uno sviluppo positivo di
una promessa con cui siamo stati tratti all’esistenza. Credo
che la prima condizione per potere educare una creatura
umana - i figli primavera della famiglia e della società -
è che ci sia questo senso di distacco, di rispetto, questo
senso di timore e tremore per il Mistero che è dentro
quella creatura, che è così tua eppure non è tua. Senza
questo un padre o una madre come fa a rispettare e ad
aiutare i passi di un cammino che nessuno può fissare,
neanche il soggetto stesso? Padre e madre finiscono
inevitabilmente per compiere la terribile profezia del Libro
della Sapienza in un possesso del figlio che, mentre lo
stringe a sé, lo soffoca. Al
contrario il distacco di cui stiamo parlando è come il
sentimento di non potere esaurire il rapporto col figlio
stringendolo tra le braccia, prendendolo per mano o
ingiungendogli quello che a noi adulti sembra più giusto,
più vero e più adatto a lui. È un reale distacco, ma non
esiste alcuna unità col proprio figlio più profonda di
quella vissuta dal padre e dalla madre che cercano di
guidare la loro creatura avendo sempre davanti agli occhi
questa cosa tremenda e misteriosa che è il suo destino;
avendo sempre davanti questo pensiero: che è un essere in
rapporto con Qualcosa di molto più grande di noi, a cui io
lo debbo accompagnare e verso cui lui andrà utilizzando,
ora per ora, delle cose, degli avvenimenti in cui si
imbatterà. Perciò io lo debbo aiutare a usare le cose, a
fargli prendere la vita il più possibile in modo tale che
il suo cammino, istante per istante, sia teso al suo
destino; altrimenti sarebbe inutile e ingiusto che
l’avessi generato, perché, allora sì, sarebbe inutile
vivere! Avrebbero ragione gli “empi” del racconto
biblico. Si
educa un uomo se si favorisce il dilatarsi in lui di un
ideale, intendendo per ideale qualcosa di ultimo, di più
grande di sé, per cui tutto quello che si fa non lo si fa
per se stessi. Questa è l’abolizione dell’egoismo e
l’inizio di una difesa della vita come cammino verso il
destino preparato da Dio per ciascuno di noi. 4.
Fa partecipe della cultura della vita non la famiglia da
sola, ma insieme ad altre. Il raccogliersi in unità di esse
e il loro dilatarsi costituisce il flusso del popolo
cristiano. Abbiamo
detto che la famiglia è fondamentale come fattore
educativo. Occorre a questo punto aggiungere, però, che la
sua potenza è breve e soprattutto fragile nel tempo. Essa
è come una casa, come una stanza continuamente trapassata
da fulmini. La famiglia è ormai tutta investita da forze
sociali che non può, in nessun caso, salvare la propria
capacità educativa da sola. In verità ciò non vale solo
per l’oggi. Ricordo il romanzo Il giardino dei Finzi
Contini: l’ideale di quella famiglia era quello di vivere
salvaguardata dalle mura del grande parco, così
autosufficiente da sembrare autonoma, ma un fortuito
cambiamento della storia la travolge. Non
è intelligente né sincero volere educare solo attraverso
lo strumento della famiglia. Questo è stato vero sempre, ma
nel nostro tempo questo assume un valore di eccezionale
importanza, così che se una volta la resistenza della
famiglia o il suo influsso sui bambini poteva essere
valutato al 70% adesso può essere valutato al 5%. Ma
che cosa fa la famiglia di fronte a tutta la forza di una
società che ha in mano tutta l’area della famiglia
attraverso la televisione? Che cosa fa di fronte alla
scuola, in cui l’insegnante può fare tutto ciò che gli
pare e piace, manomettendo la coscienza del bambino come gli
pare e piace e questa azione è sistematica? Che cosa fa di
fronte alla pubblicità? Una famiglia non può resistere da
sola. Perciò
la preoccupazione educativa di una famiglia è intelligente
e umana nella misura in cui si rassegna ad uscire da un
comodo, anche meritato, per stabilire rapporti che creino
una trama sociale che si opponga alla trama sociale
dominante. Questo ha come luogo proprio la comunione della
Chiesa. Nella sua enciclica Mater et magistra
Giovanni XXIII indicava la libertà di associazione come uno
dei dieci diritti fondamentali dell’uomo. Scrive ancora
Giovanni Paolo II: «Siamo mandati come popolo. L’impegno
a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno» (Evangelium
vitae, 2064). L’avere
dei figli da educare è la più grande occasione che Dio dà
per risvegliare la fede in noi. C’è un momento della vita
in cui, magari attraverso l’esempio di altri, o mobilitati
dal senso di impotenza di fronte al dovere di un certo
comportamento, la fede appare come qualcosa di interessante
non solo per l’eternità, ma anche per questa vita. Così
che sorge sull’orizzonte della nostra vita come l’alba
di un giorno nuovo. «Il
Vangelo della vita è per la città degli uomini. Agire a
favore della vita è contribuire al rinnovamento della
società mediante l’edificazione del bene comune» (Evangelium
vitae, 2137). Si comincia a percepire un senso del
vivere, un gusto del vivere, un’utilità del vivere che
per ciò stesso che definisce l’io di ciascuno insinua una
prospettiva nuova dentro il contesto mondano che sembra
inevitabilmente destinato alla morte, cioè al nulla. Ma «Dio
non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza» (Sap
1,13-14). Questa è la grande promessa che l’annuncio
cristiano realizza definitivamente e sicuramente, per
l’energia di Cristo risorto che ha vinto e vince il mondo. «Il
Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche
originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto
un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a
provocare significativi cambiamenti nella società; tanto
meno è un’illusoria promessa di un futuro migliore. Il
Vangelo della vita è una realtà concreta e personale,
perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù»
(Evangelium vitae, 1896). Così
che il Vangelo della vita diventa cultura della vita,
secondo l’espressione di Giovanni Paolo II: «Una fede che
non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non
intensamente pensata, non fedelmente vissuta» (Congresso
M.E.I.C., 16 gennaio 1982). |