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Sulle famiglie di fatto si è accesa, in
quest'ultimo periodo di tempo, una discussione non poco vivace. A provocarla è
stato il fatto che alcuni Consigli comunali hanno deliberato l'istituzione del
"registro delle unioni civili".
Ma sul problema si devono rilevare, insieme
alla discussione, anche reazioni di diverso genere, che meritano di essere
segnalate. La maggioranza delle persone è rimasta, così pare, piuttosto
indifferente; altre hanno preferito scegliere il silenzio; altre ancora hanno
manifestato una specie di "fastidio" di fronte ad una questione che rischia di
aggravare tensioni e contrapposizioni che già appesantiscono il clima sociale e
politico di oggi.
In realtà, la prima reazione legittima e doverosa per tutti
è quella di lasciarsi interrogare da questo problema e, pertanto,
di affrontarlo da persone che non possono abdicare alla loro razionalità e
responsabilità, quindi in spirito di grande saggezza e di vera libertà.
In
tale prospettiva, raccolgo e offro, cercando di ordinarli, alcuni spunti di
riflessione.
1. Un problema insieme soggettivo e
oggettivo
Di fronte al fenomeno
delle unioni di fatto non si può tralasciare la considerazione dell'aspetto
soggettivo: siamo di fronte a singole persone, alla loro visione della vita,
alle loro intenzionalità, in una parola alla loro "storia". In tal senso, noi
possiamo, anzi dobbiamo, anche prendere atto e rispettare la libertà individuale
di scelta di queste stesse persone.
Ma nelle unioni di fatto che chiedono il
riconoscimento pubblico non è in questione soltanto la libertà privata (ciascuno
è libero di comportarsi privatamente come meglio o peggio gli aggrada); è in
questione anche e specificatamente il riconoscimento pubblico di questa scelta
privata.
Si rende necessario, allora, un approccio propriamente sociale al
problema: l'individuo, infatti, è persona ed è persona perché è un essere
relazionale, che sta in relazione con gli altri. Ciò esige che ci sia un
"terreno comune", nel quale le persone si possono ritrovare, confrontarsi,
dialogare a partire e in riferimento a un qualcosa di "condiviso", ossia a
valori e ad esigenze accettati da tutti.
Questo terreno comune equivale a un
criterio oggettivo, a una verità che è al di sopra di tutti e, insieme, è
per il bene di tutti. Stare a questo criterio, a questa verità, è condizione sia
per l'autentica libertà e maturità della persona sia per lo sviluppo di una
convivenza sociale ordinata e feconda.
Un'attenzione esclusiva al soggetto e
alle sue intenzioni e scelte, senza un adeguato riferimento alla dimensione
sociale e quindi al dato oggettivo, è frutto di un individualismo arbitrario
inaccettabile, anzi controproducente per la dignità della persona e per l'ordine
della società.
2. Un
problema non confessionale ma "laico"
La discussione sulle
famiglie di fatto ha manifestato, ancora una volta, come sia forte la tendenza a
ideologicizzare, anzi a "confessionalizzare" ogni problema, ossia a ritenere che
la sua soluzione non possa avere se non risposte diverse e contrapposte, a
seconda della fede professata, se cattolica o laica.
Certamente il cristiano
ha una visione del matrimonio e della famiglia che discende dalla parola di Dio
e dall'insegnamento della Chiesa e che lo porta a riconoscere nel matrimonio dei
battezzati un sacramento, un segno e un luogo della salvezza di Gesù Cristo. Ma
il cristiano, sempre alla luce della parola di Dio e dell'insegnamento della
Chiesa, sa che il sacramento non è una realtà successiva ed estrinseca al dato
naturale, ma è questo stesso dato naturale che viene assunto a segno e mezzo di
salvezza. Su questo dato naturale, e quindi profondamente umano, il credente
interviene con la luce e con la forza della sua ragione. Il problema delle
unioni di fatto, dunque, può e deve essere affrontato con la ragione:
non è
questione di fede cristiana, ma di razionalità.
È inaccettabile questa
tendenza, così diffusa e radicata, quasi istintiva, a contrapporre cattolici e
laici! Quanto dice l'Enciclica Evangelium vitae circa il problema
dell'aborto può dirsi analogamente per il nostro problema: "Il Vangelo della
vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e
della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani…" (n.
101).
Che debba avvenire anche in questo campo quanto è avvenuto e avviene in
altri campi, che sia cioè la Chiesa a difendere la validità della ragione e
l'umanità dell'uomo?
3. Un
problema di grande serietà
Un altro rischio -
comune e diffuso - va denunciato: quello di banalizzare la portata del
problema in gioco. Si dice, infatti, che non ci sarebbe da preoccuparsi
eccessivamente, considerato il numero relativamente ridotto delle coppie di
fatto rispetto alla quasi totalità del popolo italiano che è per la famiglia
fondata sul matrimonio. In realtà, il problema non è tanto quantitativo, quanto
qualitativo: riguarda la verità e la giustizia, ossia i valori e le esigenze che
vi sono coinvolti. Piuttosto la scarsa rilevanza numerica del problema dovrebbe
far sorgere qualche dubbio sulla stessa opportunità di adoperarsi per interventi
amministrativo-legislativi riguardanti le coppie di fatto, mentre non sempre
pare di poter registrare un adeguato impegno per la promozione di autentiche
politiche familiari.
Una forma ancora più inquietante e deleteria di
banalizzazione del problema sta nell'esaltazione (apparente e falsa) della
libertà di scelta degli individui. Ma è proprio questa impostazione del tutto
privatistica del matrimonio e della famiglia che esige di essere considerata
con estrema serietà. Non siamo di fronte a un qualsiasi tipo di rapporto di vita
tra le persone, ma a un tipo di rapporto che ha una dimensione sociale unica
rispetto a tutte le altre; è unica quella della famiglia per la sua natura
di nucleo sociale di base, in quanto con la procreazione si pone come seminarium civitatis
(come principio "genetico" della società) e con l'educazione si configura come luogo primario di trasmissione e
coltivazione dei valori e, quindi, come principio di cultura.
Per le ragioni
ora dette si deve concludere che il "modello" di matrimonio e di famiglia non è
affatto qualcosa di secondario o di marginale per la configurazione strutturale
della società, è qualcosa di determinante e qualificante la società stessa:
quale è la famiglia, tale è la società!
4. Per una valutazione veramente razionale
Come per ogni altro problema umano, così anche
per quello delle unioni di fatto, si deve intervenire con la ragione, più
precisamente con la "retta ragione". Con questa classica precisazione
terminologica, si intende fare riferimento alla lettura e al giudizio di una
ragione che sa essere oggettiva, libera quindi dai più diversi condizionamenti,
come l'emotività o la facile compassione per singole situazioni penose, gli
eventuali pregiudizi ideologici, la pressione sociale e culturale, i rigidi
schieramenti delle forze e dei partiti politici.
In particolare, la "retta
ragione" deve difendersi da talune spinte culturali, di stampo radicale, che
hanno come obiettivo più o meno palese la distruzione dell'istituto familiare.
Il Santo Padre è stato oltremodo chiaro al riguardo nel suo discorso al Forum
delle Associazioni familiari cattoliche d'Italia: "Ancora più preoccupante è
l'attacco diretto all'istituto familiare che si sta sviluppando sia a livello
culturale che nell'ambito politico, legislativo e amministrativo... È chiara
infatti la tendenza ad equiparare alla famiglia altre e ben diverse forme di
convivenza, prescindendo da fondamentali considerazioni di ordine etico e
antropologico" (27 giugno 1998, n. 2).
Sono queste fondamentali
considerazioni di ordine etico e antropologico l'oggetto specifico proprio di
una retta riflessione razionale. E questa, secondo un ideale cammino logico,
procede anzitutto a definire l'identità propria della famiglia fondata sul
matrimonio e l'identità propria delle altre forme di convivenza, per operare poi
un confronto tra le due identità e poter concludere, così, sulla possibile o
impossibile "equiparazione" tra famiglia e unioni di fatto.
Prioritaria,
pertanto, si pone la definizione dell'identità propria della famiglia in se
stessa e in rapporto alla società. A questa identità appartiene, oltre a
quanto già detto, il valore e l'esigenza della stabilità del rapporto
matrimoniale tra l'uomo e la donna: è una stabilità che trova espressione e
conferma nel rapporto di procreazione dei figli e che si pone al loro servizio
educativo-culturale e, in tal senso, diviene anche un fattore di ulteriori
rapporti del tessuto sociale nel segno della coesione.
Si deve, inoltre,
precisare che la stabilità propriamente matrimoniale e familiare non è affidata
esclusivamente all'intenzione e alla buona volontà delle singole persone
coinvolte, ma riveste un carattere istituzionale, in seguito alla
pubblicizzazione, ossia al riconoscimento giuridico da parte dello Stato
della scelta di vita coniugale. Una simile stabilità è sì nell'interesse di
tutti, ma torna a particolare vantaggio dei più deboli, cioè dei figli. In tal
senso non può non colpire il pratico silenzio che sul problema dei figli che
nascono nelle coppie di fatto caratterizza l'attuale dibattito
sull'equiparazione tra famiglia e unioni di fatto.
Se ora, dall'identità
della famiglia passiamo a quella delle altre forme di convivenza, dobbiamo
immediatamente rilevare la forte eterogeneità delle unioni di fatto: si pensi
anche solo alla diversità tra quelle eterosessuali e quelle omosessuali. Una
simile eterogeneità rende più articolato e diversificato il confronto tra la
famiglia e queste convivenze. Da tale confronto emerge come e sin dove queste
ultime si allontanino, anzi finiscano per alterare radicalmente il "modello"
naturale della famiglia fondata sul matrimonio. Non prendiamo in considerazione
qui, per ragioni di spazio, la problematica delle coppie omosessuali, che
evidentemente solleva interrogativi più inquietanti, anche se il rifiuto
all'equiparazione, in tale caso, è ancora più categorico.
Una pretesa
equiparazione tra famiglia e unioni di fatto da parte della società e della
legge civile deve dirsi falsa e falsificante, perché va contro la verità delle
cose, annullando delle differenze sostanziali, introducendo "modelli" di
famiglia per nulla confrontabili tra di loro e che si risolvono, in ogni caso,
in uno screditamento ingiusto di quell'unica famiglia che la storia dell'umanità
di tutti i tempi ha sempre visto non come una generica relazione, ma come realtà
originata da un matrimonio, ovvero dal patto, variamente stipulato e
manifestato, tra persone di sesso diverso, operato a partire da una reciproca e
libera scelta e comprendente, almeno come progetto, una relazione
generativa.
5.
L'intervento della società e della legge civile
È legittimo, anzi
necessario, l'intervento della società e della legge civile nell'ambito della
famiglia e anche delle unioni di fatto: la ragione sta nell'essenziale
dimensione sociale del matrimonio, che si esprime nel rapporto reciproco che va
dal matrimonio alla società e dalla società al matrimonio.
Ma come
intervenire? Nel rispetto della verità e della giustizia.
Ciò
significa che va osservata, anzitutto, la vigente Costituzione repubblicana del
nostro Paese, oltremodo chiara sia nella lettera sia nello spirito. Questa
"riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio" (art. 29) e, dunque, - mentre solo a "questa" famiglia riserva e
assicura una specifica tutela e una via preferenziale agli interventi sociali e
di solidarietà - propone "questa" famiglia come "unico" modello adatto ad
assicurare nel tessuto sociale la certezza del diritto e l'adempimento dei
compiti previsti dalla legge.
Ora, la certezza del diritto viene compromessa
dalle unioni di fatto che, per definizione, rifuggono da ogni forma di
regolamentazione sociale. Così pure l'adempimento dei compiti viene lasciato
alla totale arbitrarietà dei conviventi. Ciò nonostante, con l'istituzione del
"registro delle unioni civili", si riconosce uno speciale status giuridico di famiglia a persone che liberamente hanno rifiutato e rifiutano
proprio lo status di famiglia, con tutti i correlativi diritti e doveri:
in tal modo è lo stesso soggetto pubblico (il Comune) a cadere in una palese e
intollerabile contraddizione. Si aggiunga poi che il soggetto pubblico pone un
atto giuridico a senso unico: mentre si assume delle obbligazioni nei confronti
dei conviventi, questi non si assumono nessuna obbligazione. In tale
prospettiva, è paradossale che sia lo stesso soggetto pubblico a farsi
responsabile del rifiuto della dimensione sociale della convivenza familiare e
del riconoscimento dell'individualismo più marcato: con l'equiparazione
famiglia-unioni di fatto, il soggetto pubblico accetta un'ingiusta e deleteria
"dissociazione" tra diritti e doveri: ai conviventi riconosce i diritti, ma da
essi non esige i doveri.
Come si vede, l'equiparazione - mediante
l'iscrizione a registro - delle unioni di fatto alla famiglia è contraria a ogni
coerente articolazione dei rapporti tra diritti e doveri e, proprio per questo,
sovverte alla radice il vivere sociale, oltre ad essere un vero e proprio
vulnus alla Costituzione vigente. In tal senso, dobbiamo chiederci quale
possa essere la "legittimità" di simili deliberazioni dei Comuni, dal momento
che a questi non sono attribuite competenze propriamente legislative (almeno in
questo campo), ma, al più, compiti solo amministrativi; per questo si deve
almeno dubitare della rilevanza giuridica di questi pronunciamenti
comunali.
A sostegno di una legge civile di riconoscimento delle unioni di
fatto si invoca la distinzione tra legge morale e legge civile. Certamente tra
le due c'è distinzione, ma la distinzione non è sinonimo né di separazione né,
tanto meno, di contraddizione. È noto, al riguardo, il limpido insegnamento di
san Tommaso, per il quale "ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di
legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in
contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge ma corruzione della
legge" (Summa Theologiae I-II, 95, 2).
Nel caso specifico del
riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, essendo in questione un modello
di famiglia che contraddice alla legge naturale e per di più con forti
conseguenze negative sul tessuto sociale, la legge civile non può essere
difforme dalla legge naturale. Se lo pretendesse, perderebbe la sua identità di
legge, come scrive sant'Agostino; "Non videtur esse lex, quae iusta non
fuerit"
(De libero arbitrio I, 5, 11).
Si deve ricordare, inoltre, un
compito ineliminabile della stessa legge civile: quello educativo. Certamente la
legge non ha il compito di fare santi tutti i cittadini, e in tal senso può e
deve prendere atto di certe situazioni esistenti nella società, giungendo
persino a forme di tolleranza: "secus deteriora mala
prorumperent", direbbe san
Tommaso. Ma non può neppure limitarsi a registrare le situazioni in atto e a
consacrarle col crisma della legalità. Ha pur sempre un compito
educativo-culturale. Non può essere indifferente ai valori culturali ed etici e
deve - certo contrastando forti correnti che lo vorrebbero azzerare - assolvere
a un compito pedagogico e assumere un ruolo di promozione morale e
culturale.
6.
Un'organica politica familiare
Se la
responsabilità nei riguardi della famiglia, attesa la sua tipica valenza
sociale, è di tutti i membri della società, questa responsabilità vede come
soggetto privilegiato quanti sono impegnati in politica.
Costoro, per primi,
devono essere coscienti della serietà del problema dell'equiparazione delle
unioni di fatto alla famiglia: banalizzarlo significherebbe non riconoscere il
peso sociale, unico e determinante, che il modello di famiglia fondata sul
matrimonio ha nei riguardi di alcuni fondamentali valori per la convivenza
umana, quali la vita, l'educazione, la stabilità dei rapporti affettivi, e così
via.
Se anche per i politici parliamo, in relazione al nostro problema, del
rischio della banalizzazione, non è certo per una minore stima nei loro
confronti, ma perché comunemente e ripetutamente l'azione politica tende a
seguire la linea del pragmatismo e del cosiddetto "equilibrio". Interessano le
cose concrete e interessa non rompere, solo per questioni di principio,
l'assetto armonico delle forze politiche o le già precarie alleanze o coalizioni
tra le stesse. Ma non è forse da un pragmatismo non supportato da una
lungimirante e robusta progettualità (che per sua natura esige un non piccolo
impegno a riflettere sui grandi valori antropologici ed etici che decidono di
una cultura - di un costume e di una mentalità e, quindi, di una serie di
decisioni, scelte, azioni, istituzioni - veramente rispettosa e promotrice della
dignità personale di tutti e di ciascun uomo), che derivano i non pochi mali di
cui soffre la politica del nostro Paese? Non sono forse questi valori le cose
più concrete di cui la società ha bisogno? E l'equilibrio delle forze politiche
- con l'eventuale stabilità di governo - non dev'essere forse costruito e
mantenuto su basi di chiarezza e di fedeltà ai valori?
Ci sono ancora tanti
passi da compiere per una politica che non tema di pensare e di "pensare in
grande" e, quindi, per una politica che non tema di rifiutare l'indifferenza e
il relativismo nei riguardi della verità e dei valori, indifferenza e
relativismo spesso visti come sinonimi di libertà e di democrazia. È vero
piuttosto il contrario, come ricorda il Papa nell'enciclica Centesimus
annus, riproponendoci l'ammonizione che viene dalla stessa storia: "Se non esiste
nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee
e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere.
Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto
oppure subdolo come dimostra la storia" (n. 46).
Si sa che rientra nella
responsabilità politica il compito legislativo: in tale senso, spetta al
politici vigilare - in sede non solo di principio, ma anche di applicazione -
sul giusto rapporto tra legge morale e legge civile e difendere la valenza
educativo-culturale dell'ordinamento giuridico.
Rileviamo, ancora, che il
modo più vero ed efficace di non cedere all'equiparazione tra famiglia e unioni
di fatto, e insieme di "contenere" il diffondersi di queste ultime, è di
promuovere con energia e sistematicità un'organica politica familiare, intesa
per altro come centro e motore di tutte le politiche sociali. Questa
prospettiva, ad alcuni, potrebbe sembrare esagerata. In realtà, corrisponde alla
verità del fondamentale, originale e insostituibile rapporto tra famiglia e
società. La sua applicazione coerente conduce a interventi ben precisi che
coprono l'intero arco dei "diritti" della famiglia come tale e che si
riferiscono, tra l'altro, alla casa, al lavoro, alla scuola, alla sanità, al
fisco. Senza dire che, con simili interventi, la politica risponde a un
elementare senso di giustizia, riconoscendo con i fatti che la famiglia nel
nostro Paese si configura come primo, più diffuso e più efficace "ammortizzatore
sociale": sono le famiglie che cercano di ovviare alle inadempienze e alle
incapacità dello Stato, che si vorrebbe "sociale", ma che troppo spesso riesce
solo a essere "assistenziale".
Nel promuovere con maggiore impegno un'organica politica familiare, sarà pure necessario rispettare un prerequisito
essenziale e irrinunciabile, che consiste nel riconoscere, tutelare, valorizzare
e promuovere l'identità della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio, tracciando una linea di demarcazione il più possibile netta tra la
famiglia propriamente intesa e le altre convivenze, che della famiglia, per loro
natura, non possono meritare né il nome né lo statuto. Nel fare ciò, i cristiani
che si impegnano in politica, a qualunque forza appartengano, dovranno essere
coraggiosamente capaci di trovare - tra di loro e con quanti, pur di fede
diversa, sono seriamente preoccupati del bene comune - linee comuni e
convergenti di intervento e di azione.
Nello stesso tempo, non si dovrà
temere di affrontare le problematiche che riguardano altre forme di convivenza,
quali le unioni di fatto. Anche tali problematiche, infatti, dovranno essere
prese in considerazione, soprattutto se vanno assumendo una reale rilevanza a
livello sociale. Ma ciò deve avvenire facendo riferimento ad altri criteri che,
ultimamente, hanno a che fare con i diritti e i doveri delle persone e di altre
particolari tipologie sociali, ma non con i diritti e doveri della famiglia in
quanto tale.
7. L'azione pastorale della comunità
cristiana
Anche la comunità cristiana deve lasciarsi
interrogare dal fenomeno delle unioni di fatto e, in particolare, dai tentativi
in atto per la loro equiparazione giuridica alla famiglia: lasciarsi interrogare
nel senso di mettere in atto la sua missione specifica, che discende dalla sua
natura di Ecclesia Mater et Magistra e dunque in rapporto al suo
compito di evangelizzazione e di testimonianza di carità.
I cristiani, non
solo per la luce della ragione ma anche per quello "splendore della
verità" che
viene loro donato dalla fede, sono impegnati a chiamare le cose col proprio
nome: il bene bene e il male male. In un contesto culturale fortemente
relativistico, disposto ad annullare tutte le differenze - anche quelle
sostanziali - tra famiglia e unioni di fatto, occorrono una più lucida saggezza
e una libertà più coraggiosa per non prestarsi né all'equivoco né al
compromesso, nella convinzione che la "crisi più pericolosa che può affliggere
l'uomo" è "la confusione del bene e del male, che rende impossibile costruire e
conservare l'ordine morale dei singoli e delle comunità" (Veritatis
splendor, n. 93). L'enciclica ora citata riporta la parola dell'antico profeta:
"Guai
a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in
luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro"
(Is 5, 20).
È legittima, anzi doverosa, la comprensione - e, a volte,
la compassione per determinate situazioni difficili e penose - nei riguardi
delle persone che vivono in una unione di fatto. Ma la comprensione non equivale
alla giustificazione. Si deve piuttosto rilevare che la verità costituisce un
bene essenziale della persona e della sua autentica libertà, sicché non è motivo
di offesa ma di aiuto reale alle persone l'affermazione della verità.
Significative al riguardo sono le parole di Paolo VI: "Non sminuire in nulla la
salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime"
(Humanae vitae, n. 29).
Lo stesso Paolo VI prosegue mettendo in luce
l'altro fondamentale aspetto dell'azione pastorale della Chiesa: "Ma ciò deve
sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato
l'esempio nel trattare con gli uomini".
Ciò significa che i cristiani sono
chiamati a cercare di capire le molteplici ragioni personali, sociali e
culturali del diffondersi delle unioni di fatto. Anche le persone che si trovano
in queste situazioni devono rientrare nella cura pastorale ordinaria della comunità ecclesiale, una cura che comporta vicinanza, attenzione ai
problemi e alle difficoltà, dialogo paziente, aiuto concreto specialmente in
riferimento ai figli e ai loro diritti etico-sociali e patrimoniali. Una
pastorale intelligente e discreta può, alcune volte, favorire il ricupero di
queste unioni alla necessaria "pubblicizzazione".
Anche in questo campo,
l'impegno pastorale prioritario consiste nella prevenzione, che comporta
un servizio sistematico e capillare ai giovani e alla loro preparazione al
matrimonio. E con la prevenzione, l'impegno a promuovere un'abituale e costante
pastorale familiare, destinata a fare delle famiglie le protagoniste di
un'azione rivolta alla crescita umana e cristiana delle famiglie stesse. In
questo ambito, rientra, non certo come secondaria, la testimonianza di vita che
le famiglie cristiane devono dare sulla bellezza di un'unione stabile, anzi
indissolubile.
È, ancora, compito della comunità cristiana sollecitare e,
nello stesso tempo, collaborare perché si realizzi nella comunità civile
una
vera politica familiare. Ciò comporterà, tra altro, che, nell'ottica del
progetto culturale che vede coinvolta la Chiesa in Italia, ci si abbia a
impegnare in una complessiva e profonda azione culturale, volta alla promozione
di una mentalità e di un costume nei quali, con buone ragioni ed esempi
trainanti, si sia convinti dell'importanza della famiglia fondata sul matrimonio
per l'intera collettività. Nello stesso tempo, seguendo le indicazioni del
Direttorio di pastorale familiare (n. 113):
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