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di
Ernesto Galli Della Loggia
In fondo non era scontato che da parte della cultura laico-progressista
italiana (la cultura dei politici, ma anche quella degli intellettuali) non
vi fosse alcuna levata di scudi di fronte alla singolare omissione del
Cristianesimo tra le radici storiche dell’Europa decretata dagli autori del
progetto di Costituzione europea. Non solo invece, come si sa, non c’è stata
alcuna levata di scudi, ma, se non sbaglio, c’è stato di più: un generale
silenzio, quasi che una questione di tal fatta (totalmente diversa, sia
chiaro, dall’invocazione a Dio che alcuni avrebbero desiderato ma a cui
sarei stato personalmente contrario), che una questione di tal fatta,
dicevo, che tira in ballo la storia, il passato e la memoria, non meritasse
qualche parola almeno di riflessione. Quel silenzio si spiega in un modo
solo: come sintomo ulteriore della difficoltà crescente della cultura di cui
sto dicendo a prendere atto delle gigantesche novità dei tempi, del fatto
che sta nascendo un mondo del tutto fuori dai suoi schemi. Un mondo, in
particolare, che tende a porre in una luce irrimediabilmente ambigua proprio
la categoria di progresso che della cultura laico-progressista è ovviamente
il cardine. In che senso, per esempio, può dirsi un progresso che nascano
bambini non più concepiti da un padre e da una madre? In che senso è un
progresso che in molte regioni dell’Africa non vi sia un potere diverso da
quello di molte sciagurate élite locali? In che senso è un progresso che più
della metà degli adolescenti italiani non sappiano capire di che tratta un
quadro di argomento religioso?
Ammettere la sopraggiunta radicale ambiguità del progresso vuol dire
accettare il fatto che ormai, in Occidente, l’Illuminismo è finito. È finito
non solo in quanto promessa di emancipazione totale dell’uomo o in quanto
possibile orizzonte dell’intera umanità (cinesi o islamici illuministi ci
appaiono oggi alquanto improbabili), ma è finito altresì l’Illuminismo come
effettivo fronte di battaglia dentro di noi e dentro le nostre società tra
Ragione e Superstizione, tra Libertà e Asservimento. Di conseguenza ha perso
senso anche l’obbligatorio tabù antireligioso e in specie anticattolico che
era un aspetto centrale dell’Illuminismo progressista ma che, sono convinto,
è il vero motivo dell’inspiegabile silenzio con cui la cultura di quell’orientamento
ha oggi accolto il famoso preambolo.
La quale cultura non si avvede, tra l’altro, che l’Illuminismo è finito
anche perché dovunque poteva, e fino al limite che era giusto e possibile,
esso ha in realtà ormai vinto. Ha riportato grandi vittorie proprio sul suo
avversario più aspro: sul Cattolicesimo, obbligato da tempo ad accettare la
libertà di coscienza, i diritti dell’uomo, la piena laicità delle
istituzioni secolari. Cattolicesimo che forse proprio per questo si mostra
consapevole - come indicano le richieste di perdono da parte del Papa -
della necessità di aprire se stesso ai tanti ripensamenti che i tempi
chiedono, condizione indispensabile, questa, per riuscire ad ascoltare anche
la voce di nuove profezie.
Come risponde a tutto ciò la cultura laico-progressista italiana (cultura
politica ma non solo)? L’ho detto: con la paura di rompere il suo piccolo
tabù illuministico-antireligioso e assumendo le vesti di un distratto,
svagato osservatore di fronte alle pur clamorose falsificazioni storiche dei
signori della Convenzione europea. La cultura laico-progressista risponde
mostrandosi apparentemente indifferente di fronte ai grandi problemi del
nostro passato e della nostra identità, di ciò che siamo e che, è
augurabile, vogliamo continuare a essere; dando quasi a credere che di
passato, alla fin fine, gliene interessa davvero soltanto uno: il suo e
basta.
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