Romano, non fare
l'americano
Americanismo
malmasticato nei testi della Convenzione europea. Ecco perché le
radici giudaico-cristiane sono ineludibili e i voti a maggioranza una
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di Casadei Rodolfo Tu vuò fa l’americano… ma si nato in Italy», ha cantato per 45 anni di seguito il compianto Enrico Carosone, ma purtroppo è servito a poco: italiani ed altri europei continuano a scimiottare i cugini transatlantici senza accorgersi del ridicolo, esattamente come il protagonista immortalato dalle strofe e dalle note del cantautore napoletano. E più criticano gli americani, ne contrastano le politiche e proclamano la diversità europea, più il complesso di inferiorità li spinge in realtà ad immedesimarsi nei ruoli e nelle narrazioni di coloro che sono oggetto apparentemente del loro vituperio, in realtà della loro invidia. In una sorta di “furore mimetico” che avrebbe bisogno di dosi massicce dell’antropologia culturale di René Girard per essere illuminato. Le vicende relative alla bozza di nuova “costituzione” europea redatta dalla Convenzione di Bruxelles ne sono un’illustrazione. Il testo reso pubblico dal presidente Valery Giscard D’Estaing la settimana scorsa ha causato reazioni colorite soprattutto in relazione all’esclusione delle “radici giudaico-cristiane” dal patrimonio storico di cui l’Unione europea (Ue) riconosce ufficialmente di essere tributaria e all’intonazione assai poco federalista e molto intergovernativa dei suoi contenuti più propriamente politici. L’equivoco della separazione Stato-Chiesa L’esclusione del cristianesimo dalla “costituzione” europea ha tutta l’aria di un’americanata mal concepita e mal riuscita. L’intento sembra essere quello di riaffermare il principio della separazione fra Stato e Chiesa, principio realizzato negli Stati Uniti ben prima che nell’Europa dove era stato teorizzato. Giacobini e napoleonici in realtà non si erano dedicati a separare, ma a sottomettere: la costituzione civile del clero del 1790, coi sacerdoti obbligati a giurare fedeltà alla Costituzione civile, e le maniere forti di Napoleone con papi e preti, avevano sostituito ai difetti e alle incongruenze dell’alleanza trono-altare quelli ben peggiori di un cesaropapismo fuori tempo massimo. Così oggi i convenzionati europei guardano a vicende come le controversie sulla preghiera nelle scuole pubbliche o la sentenza con cui una Corte americana ha dichiarato (senza alcun effetto pratico) incostituzionale la menzione della frase one nation under God nel “Pledge of Allegiance” (promessa di lealtà) che ogni mattina viene recitato in tutte le scuole degli Usa come conferme e stimoli per la redazione di una costituzione senza Dio. Ma l’effetto finale è comico: come definire diversamente un testo che rinviene le radici tuttora vitali dell’identità europea nelle «civiltà ellenica e romana» e nelle «correnti filosofiche dei Lumi», con un salto cronologico ed un abisso logico di 1.400 anni, durante i quali non sarebbe avvenuto nulla di significativo e degno di essere ereditato? A portare fuori strada è l’impulso mimetico, che impedisce di cogliere decisive differenze: in America si fanno le barricate contro le preghiere nelle scuole statali, ma il discorso religioso ha piena cittadinanza nella vita pubblica (basti pensare alle sue evocazioni da parte di Bush nei suoi discorsi, mai criticate come tali dagli oppositori democratici) in ragione del fatto che gli americani non hanno mai dovuto fare i conti in casa loro con una liberticida alleanza trono-altare o con una liberticida costituzione civile del clero; al contrario: la religione è sempre stata un’alleata della libertà. In Europa, invece, il ricorso al linguaggio religioso nell’agone pubblico è considerato assolutamente osceno e la semplice menzione delle origini cristiane dell’Europa un tabù. Succede così che il Papa, esaltato da larghe maggioranze di europei quando si è impegnativamente pronunciato contro la guerra americana all’Irak, si ritrova dagli stessi snobbato quando avanza la richiesta minimale che il cristianesimo trovi simbolicamente spazio nella “costituzione” europea. Senza cristianesimo niente laicità dello Stato Le buone, laiche ragioni per non dimenticarsi di sottolineare l’origine giudaico-cristiana dell’Europa sono state espresse in sintesi mirabile in un editoriale de Il Foglio del 31 maggio. «I valori specifici dell’Europa vengono definiti come i “diritti dell’uomo”, princìpi universalistici che si vorrebbe veder applicati in ogni parte del mondo. Ma il principio in base al quale è “giusto” che questi diritti vengano estesi a tutti è, appunto, il concetto giudaico-cristiano di persona, inviolabile in quanto portatrice di per sé, e non per concessione o per convenzione, di libertà. Quando i terroristi delle Brigate Rosse, come tutti i terroristi, sostenevano che sparare contro una divisa, una rappresentanza istituzionale, non creava problemi di coscienza, illustravano esattamente il contrario del principio di personalità. (…) L’Europa è nata dalla contaminazione del principio di libertà personale con quella di autonomia dello Stato. La frase evangelica “date a Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare” è la base su cui, a differenza di tutte le altre civiltà, in quella occidentale, cioè europea, lo Stato è considerato il garante delle libertà, non la sua fonte. (…) Maometto non ha incontrato Cesare, i suoi eredi si sono fatti califfi, e ciò ha segnato la differenza della civiltà islamica. Il riferimento alle radici cristiane dell’Europa, proprio per questo, non è affatto clericale. L’autonomia della politica nella sua sfera, che è in sostanza il principio di laicità dello Stato, è infatti uno dei lasciti più importanti di questa eredità. (…) L’altra grande eredità della tradizione giudeo-cristiana è che la libertà appartiene alla persona, non all’individuo. La libertà come pura volontà di potenza, che ha trionfato durante la più tragica vicenda europea, non accetta il limite della libertà altrui, perché nell’altro non riconosce una persona». Avendo tutto questo e altro ancora di cui menar vanto, l’Europa preferisce glissare e far finta di credere che tutto ciò che essa è comincia 250 anni fa circa, cioè più o meno quando sono nati gli Stati Uniti. Se non è cattiva mimesi questa… Sull’altra questione, invece, ha torto Prodi e ha ragione (spiace un po’ dirlo) Giscard D’Estaing: rafforzare gli organi centrali della Ue, la cui natura burocratica non sarà mai superata, sarebbe uno sviluppo nefasto, ancorché avvolto nella benigna etichetta di “federalismo”. Decidere a maggioranza su questioni come la politica estera o addirittura la guerra e la pace sarebbe profondamente antidemocratico. Lo ha spiegato bene l’editoriale de Il Riformista del 2 giugno: «l’unica democrazia che noi conosciamo - spiega il quotidiano di Antonio Polito - è incardinata nello Stato-Nazione, e non riusciamo ad intravederne un’altra di tipo diverso. Lo Stato-Nazione è un’entità in cui unità di demos, lingua, cultura e storia, dopo secoli di fatiche, consentono di realizzare il miracolo della democrazia: io accetto di farmi governare da un altro, perché non è più straniero… è la cultura del consentire: sentire insieme. Non a caso le grandi aggregazioni sovranazionali sono sempre stati imperi, con gradi diversi di dispotismo al vertice. L’unica eccezione nacque a Philadelphia nel 1787. Solo che i coloni americani erano tutti inglesi, parlavano tutti inglese, e stavano anche bene sotto la Corona inglese, non fosse stato per le tasse. Insomma, c’erano demos, lingua, cultura e storia comune. Questa cultura del con-sentire, condizione della democrazia, può essere indebolita da un’Europa federale, nella quale il potere sia centralizzato. Soprattutto oggi che la potenza e la guerra sono tornati ad essere temi cruciali per la vita dell’Occidente». Parole sante, su cui converrà tornare. |
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Europa: «Romano, non fare l'americano», di Casadei Rodolfo, Tempi, Numero: 23 - 5 Giugno 2003 |