Il piccolo mondo di Galatro
Giustizia
da di Umberto Di Stilo
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Nei
confronti della giustizia, intesa come apparato preposto alla concreta
applicazione dei precetti di legge e, quindi, della individuazione da
parte degli operatori di giustizia di ciò che è obiettivamente giusto,
i nostri antenati non hanno mai dimostrato di nutrire grande fiducia. |
A tal
proposito, non avevano dubbi nell’affermare che giacché mentre chi fa del bene, anche se lo dimentica, un giorno sarà ricompensato da Dio, chi col suo operato procura il male altrui deve riflettere e pentirsi finché è in tempo, perché quando si troverà davanti al Gran Giudice, possa sperare nel perdono celeste. La mancanza di fiducia nella giustizia amministrata dagli uomini, vien fuori anche dalla massima secondo cui
cu’ mbenta a leggi volendo con ciò significare che lo stesso legislatore trova il modo per organizzare anche l’inganno. Ai nostri antenati non bastava, pertanto, pensare che “fatta la legge, trovato l’inganno”. Essi ritenevano, infatti, che la stessa norma di legge è un inganno. Tutto ciò, in effetti, era frutto della sfiducia della classe subalterna verso quella classe egemone ai cui rappresentanti era demandato legiferare. Questa circostanza faceva nascere sospetti (in verità non del tutto infondati). Infatti la classe egemone (ieri come oggi) ha sempre emanato leggi finalizzate a tutelare principalmente i propri diritti senza tener conto di quelli delle classi più povere giacché a queste, con assoluta mancanza di equità, è stato sempre demandato soltanto il dovere di osservarle. Il concetto di giustizia, poi, come principio di equità, a parere dei nostri antenati, era completamente sconosciuto dai giudici quando un povero apriva una controversia contro un ricco o, comunque, contro un potente. Qualunque fosse il motivo del contendere destinato a soccombere era il più povero, il debole, giacché, secondo un vecchio proverbio serbo: “il diritto del potente mangia tutti gli altri diritti” . Anche per questo non è stato mai considerato prudente aprire controversie contro i potenti e contro i ricchi. Ed il proverbio, a tal proposito, ricorda
cui cu potenta lutta (Catanzaro) o, in maniera più esplicita:
cu’ patri e cu’ patruni (Galatro) in cui le liti con il padre sono state poste allo stesso livello di quelle che spesso si affrontavano con i padroni, vessatori e despoti. Per i poveri e per i deboli, dunque, secondo quanto ci hanno tramandato i nostri antenati, non c’era speranza di giustizia. I poveri , oltre ad essere condannati dalla sorte ad una vita grama e piena di umiliazioni, dovevano subire anche le angherie di una legge che li mortificava quasi che, per il solo fatto di essere poveri, non potessero godere di alcun diritto [1]. Tutte le controversie, insomma, erano palesemente “segnate” dal dubbio della irregolarità dal momento che i potenti potevano intervenire sui giudici perché avevano in mano l’amministrazione della giustizia (basti pensare ai vecchi feudatari) e i ricchi riuscivano a corromperli perché disponevano dei necessari soldi per “ungere le ruote della giustizia”. A dar retta a quanto ci è stato tramandato dai nostri progenitori, dunque, soltanto i ricchi ed i potenti signori non avevano da temere dalla giustizia. Non perché fossero immuni da colpe, ma perché avevano i mezzi per “ammansire” quella “giustizia” per niente obiettiva nelle sentenze. Quanto mai vero, pertanto, il detto secondo il quale
cu’ ha è; che, esaltando il valore dell’ “avere” e facendo dipendere l’ “essere” persona di stima e di rispetto dal “possedere”, sembrerebbe creato in epoca molto più recente e dalla moderna società capitalistica. L’uomo in tanto “è”, in quanto “ha”, dunque. E chi non “ha”? In merito gli antichi non avevano dubbi e, facendo proprio il detto latino secondo il quale “homo sine pecunia est imago mortis”, senza mezzi termini affermavano che l’
omu senza dinari con la variante:
chini ‘on ha casa e uortu E doveva essere cosa assai triste considerare un uomo socialmente morto soltanto perché, non disponendo di soldi e di proprietà terriere (anche se di limitatissima estensione, trattandosi di un “uortu”), non aveva alcun peso nella società del tempo. Anzi: era considerato “corpo morto”, cioè cadavere. Diversa la considerazione che avevano dei “benestanti”. I ricchi, infatti, erano stimati ed ossequiati come persone di grande prestigio. Molto probabilmente perché nelle piccole comunità rurali a loro è stata data sempre la possibilità di interferire nelle decisioni giudiziali, condizionando le sentenze. A dar credito alle massime, ai proverbi e ai detti che ci sono stati tramandati, a quei tempi, per spuntarla in una controversia giudiziaria, bisognava disporre della somma necessaria per corrompere i giudici e gli avvocati o una consolidata amicizia con qualche notabile “galantuomo” del paese attraverso il quale era possibile intervenire per cambiare il corso della causa. Dobbiamo ritenere, comunque, che dall’ esperienza diretta, è scaturita la massima secondo la quale
cu i sordi e
l’amicizia con la leggera variante:
cu’ dinari ed’amicizzia (Galatro) che, di fatto, conferma come l’amministrazione della giustizia fosse nelle mani di pochi ricchi e come la vittoria di una controversia sovente dipendesse dalle interessate valutazioni di pochi privilegiati signorotti o benestanti. Da questo diffuso convincimento sono nate molte altre massime; tra queste:
aundi nc’è forza e dinari (Galatro) dal momento che, come abbiamo fin qui evidenziato, non c’è ragione che possa spuntarla contro la prepotenza o, peggio, contro la forza del denaro. Il concetto è ripreso anche dal proverbio secondo il quale
‘a leggi è uguali pe’ tutti (Galatro) Insomma il “Dio denaro”, secondo i nostri antenati, riusciva ad operare tutti i miracoli. Anche quelli apparentemente “impossibili” quale, appunto, il sovvertimento del risultato di un processo. Da qui la mancanza di credibilità nella “legge uguale per tutti” e, quindi, nella giustizia in genere. Certo, se è vero che i proverbi, le massime ed i detti dei nostri progenitori sono lo specchio della società che li ha generati, allora dobbiamo dedurre che l’amministrazione della giustizia, in passato, non è stata esemplare e che sovente la bilancia è stata fatta pendere in maniera troppo evidente da una parte anziché dall’altra e, comunque, dalla parte sbagliata. Si trattava di una giustizia che lasciava a desiderare, che non rispondeva alle esigenze della collettività, che non ispirava fiducia e che era delegittimata dai comportamenti di giudici attratti dal giallo dell’oro o che si dimostravano troppo deboli di fronte alle pressanti richieste dei “notabili” paesani. Simile comportamento non è sfuggito ai nostri progenitori i quali in maniera lapidaria hanno sentenziato che:
aundi ‘u giudici pendi o, come nella variante:
quannu vilanza penna Insomma l’imparzialità (e la credibilità) della giustizia è stata fatta derivare sempre dall’equilibrio del giudice del quale, a conferma di quanto è stato detto prima, si diceva ‘u giudici faci ‘a leggi comu voli. La sfiducia nel giudice era anche sfiducia nelle istituzioni e, soprattutto, sfiducia nello Stato, spesso rappresentato nei piccoli agglomerati rurali da corrotti signorotti sempre pronti a barattare la sentenza di un processo e ad applicare pesanti gabelle ai cittadini. Tale senso di sfiducia, insieme al convincimento che con una indovinata, decisa ed autorevole spinta si potesse cambiare il corso di un processo, era assai diffuso nella nostra civiltà contadina. Nelle vecchie comunità, infatti, era comune la persuasione che la legge è elastica come la pelle, per cui dalla parte che si tira essa viene. Sicché, con immagine assai bella, i nostri antichi progenitori ammonivano che
‘a leggi è ‘na pellicchia: o, in modo più specifico:
‘a leggi è comu ‘a peji d’i cugghiuna, Conseguenza logica: bisognava affrontare i problemi di giustizia con buona determinazione ricorrendo sempre all’aiuto di quanti più amici influenti fosse stato possibile. Non suoni sacrilego, comunque, l’accostamento alla preghiera, ma la massima, coniata da persone religiosissime e rispettosissime, evidenzia che così come l’esito di una invocazione di grazia è ascoltata ed esaudita dai santi se viene posta con vera e profonda fede, allo stesso modo per ottenere successi davanti alla corte bisogna sapersi aiutare e, magari, trovare le giuste intercessioni. Ed allora :
ai santi comu l’aduri con la variante
cu’ i santi comu ‘i preghi Comunque durante lo svolgimento di un processo, gli interessati dovevano attenersi ad alcune norme dettate dall’esperienza. Intanto dovevano avere la capacità di muoversi e di camminare per cercare appoggi; dovevano parlare il meno possibile per non rivelare anzitempo la linea processuale che intendevano portare avanti e mantenere il segreto per evitare di mettere sull’avviso l’avversario; infine, cosa più importante, dovevano avere a disposizione molti soldi da spendere. Secondo il proverbio, infatti:
ntra li causi ‘nci voli gamba leggia, L’ideale sarebbe riuscire ad evitare le liti e ogni tipo di controversia davanti al giudice, giacché qualunque possa essere l’esito suggellato da una sentenza, essa provocherà incolmabili solchi di inimicizie ed incomprensioni tra le parti e comporterà la spesa di capitali che potevano essere impiegati in modo redditizio e più proficuo per la famiglia. Qualunque sia l’esito della vertenza, essa sarà costata tante preoccupazioni e tantissimo tempo. Sarà costata, soprattutto, tantissime apprensioni e tanto nervosismo. Proprio per questo i nostri antenati suggerivano di preferire anche una svantaggiosa transazione ad un continuo litigio. Anche quando si era convinti di avere la ragione dalla propria parte. Sostenevano, infatti, gli antichi saggi:
Megghiu ‘nu tristu accordu o, come nella variante:
Megghiu ‘nu tristu aggiustamentu che, in sostanza, ribadisce il convincimento secondo cui è da preferire un insoddisfacente “aggiustamento” piuttosto che un giusto litigio che comporti preoccupazioni, inimicizie e ingenti spese. E sembra sentire ancora la voce del vecchio saggio che si alza e dall’alto della sua esperienza suggerisce:
genti, sentiti a mia, ca sugnu
vecchiu: Quanta verità è contenuta in questa massima! Verità che è il frutto dell’esperienza. Non per niente il saggio faceva appello alla sua avanzata età, ai suoi capelli bianchi. Il litigio non conviene a nessuno dei contendenti. Chi perde resta rammaricato, deluso, amareggiato. Chi vince, in pratica, spesso, si trova a stringere un pugno di mosche. Ha la soddisfazione della vittoria, si, ma essa gli è costata così tanto da costringerlo a rimanere proprietario della sola camicia che indossa. Magra soddisfazione, non c’è che dire! Lo stesso concetto, in fondo, sia pure in forma diversa, è espresso nel detto:
causa decisa: Qui, ricorrendo alla solita iperbole, l’anonimo autore del detto riesce a dar chiara l’idea della situazione economica dei due contendenti reduci da una vertenza legale davanti ai giudici: il perdente, che ha investito il suo patrimonio per imbastire una difesa sicura, oltre a sconfitto si ritrova in miseria, e, quindi, letteralmente " ‘a nuda"; il vincitore non è proprio in miseria, ma si rende conto che la soddisfazione della vittoria è ben poca cosa, rispetto a quello che ha speso ed a quello che, forse, sperava. Insomma i nostri antenati, in maniera convinta, sconsigliavano le liti e se proprio non se ne poteva fare a meno, - in considerazione dello spirito litigioso che è caratteristica di tutti i meridionali - suggerivano di cercare di evitare ogni conflitto coi poveri, giacché con loro, si sapeva in partenza, che non ci sarebbe stato nulla da guadagnare, e coi potenti perché, soprattutto grazie ai mezzi ed alle amicizie di cui potevano disporre, sarebbe equivalso a cozzare contro un muro. Per questo suggerivano:
no’ liticàri cu’ i pezzenti Insomma contro i potenti non c’era proprio nulla da fare. Anche per via delle interferenze dei notabili e ricchi, spesso, i risultati dei procedimenti giudiziari si concludevano con sentenze che davano risultati completamente opposti a quelli che, secondo la “logica” popolare, sarebbero stati più giusti e più equi. E poiché, ogni processo, spesso riservava sorprese, sulle labbra dei nostri antenati circolava un detto che, nella sua brevità e con la sua sottile ironia, bollava il provvedimento della corte. Per sottolineare il macroscopico errore giudiziario frutto di spinte e di pressioni e, quindi, per ribadire la sfiducia nella giustizia, si soleva dire, infatti, che:
‘u latru è boia volendo con ciò evidenziare che i soldi avevano determinato l’inversione dei ruoli al punto che chi aveva ragione aveva subito la condanna e, nella fattispecie, il ladro, paradossalmente, era diventato boia del derubato, condannato alla forca. Ed ancora, sempre per sottolineare questa inversione dei ruoli, c’era anche chi ricorreva alla massima secondo la quale, stranamente: ‘u latru assecuta ‘u sbirru (Catanzaro, Melicuccà) cioè che il ladro insegue il carabiniere (per catturarlo, ovviamente!). A discreditare la giustizia, oltre alla temuta imparzialità dei giudici, contribuivano, non poco, le lungaggini che, purtroppo, anche nei secoli scorsi hanno caratterizzato i procedimenti giudiziari. Ed allora, molto genericamente, si diceva che ‘a Curti [5] è longa. E poiché davanti al collegio giudicante si doveva tornare più volte, prima di giungere ad una conclusione, si diceva pure che
‘a
Curti pigghia e lassa Come spesso abbiamo avuto modo di riscontrare, nei loro proverbi i nostri antenati sono riusciti ad esprimere in maniera chiara il loro concetto accostando due immagini in contrasto tra loro. Qui, alla lentezza della Corte che esamina e rinvia (“pigghia e lassa”) viene contrapposta la rapidità del fuoco che accende, brucia e va avanti (“pigghia e passa”). Alla lentezza dell’iter giuridico, oltre che alle difficoltà ad esso collegate, fa riferimento la massima che ha il sapore di una vera e propria sfida:
fabbrica e liti con la variante:
fabbrica e liti In effetti solo l’esperienza può insegnare quanto tempo, quanti sacrifici, rinunce e denaro costa realizzare una casa o portare avanti un procedimento giudiziario. Non è semplice ne l’una ne l’altra cosa; per convincersene è necessario provare. Già, provare per credere. La seconda “versione” del proverbio pone l’accento sui lunghi tempi del processo e su quelli necessari per ultimare una costruzione. Sia nel caso del processo che in quello della costruzione d’una casa, l’antico saggio, forte della sua esperienza, ha centrato il bersaglio ed ha messo sull’avviso gli sprovveduti. Perché un procedimento si protraesse sempre più e ad esso fossero destinate diverse udienze, era interesse dell’avvocato. Secondo l’opinione comune, infatti, il professionista sapeva che
cchiù pendi per cui operava in maniera tale da portare alle lunghe la vertenza giudiziaria sapendo che, così facendo, avrebbe guadagnato sicuramente molto di più sia in soldi che in prodotti della terra. Anticamente, (e sicuramente fino ai primi anni sessanta) infatti, i nostri contadini ogni qualvolta andavano dall’avvocato, per antica consuetudine e per accattivare le sue simpatie e le sue attenzioni, dovevano “bussare coi piedi”, giacché le mani erano quasi sempre impegnate a reggere un pollo ruspante o un capretto o, nella peggiore delle ipotesi, una forma di formaggio avvolta in un tovagliolo di bucato e un paniere di frutta fresca; oltre all’immancabile “tafareja” con le uova per i bambini e ad ogni altro ben di Dio. Ognuna delle parti in causa, è evidente, sperava di avere la ragione dalla sua parte e, quindi, di poter vincere la lite. Quando le cose cominciavano a mettersi male e l’esito della controversia appariva incerto, c’era chi -quasi per incoraggiare l’amico od il parente in giudizio- gli suggeriva:
si vincìri no’
poi, quasi che dipendesse solo dalla sua volontà riuscire a strappare almeno un “pari” alla Corte. Sarebbe stato meno mortificante ed il “prestigio” non sarebbe stato intaccato. Non tutti, però, erano condizionati dall’idea che il prestigio dovesse essere salvato ad ogni costo. C’era chi, infatti, guardando più alla sostanza che all’apparenza, metteva da parte i vuoti principi e, mirando più ai contenuti pratici, diceva:
dammi tortu Nessuno, in un procedimento giudiziario, ha mai ammesso le proprie colpe. E’ compito precipuo della corte giudicare e stabilire a quale, tra le parti contendenti, deve essere addebitata la responsabilità dei fatti che hanno dato origine alla controversia. Il principio della certezza del diritto, i nostri antenati lo hanno espresso nel lapidario detto: cu’ perdi havi tortu che in alcune zone diventa cu’ perdi havi sempi tortu quasi che con quel “sempre” si voglia escludere ogni possibilità di errore giudiziario. Questa categorica affermazione, in verità, è in netta contraddizione con quanto i nostri progenitori hanno affermato con altri proverbi e con altre massime. Ma, non è certo una novità che nel vasto campo della paremiologia spesso si incontrano massime, proverbi e detti in chiara contraddizione tra loro. Abbiamo già visto come e perché tra le classi subalterne calabresi fosse assai diffuso il senso di sfiducia nella giustizia. Nella massima appena esaminata, invece, siamo su posizioni completamente opposte: c’è la certezza nel diritto e, per conseguenza, c’è fiducia anche in chi applica il diritto, cioè nei giudici. Meno certezza, invece, ci sembra di cogliere nella massima secondo cui ‘u tortu è sempi d’u mortu. Si è sempre pensato, infatti, che l’attribuzione della responsabilità a chi non è più in grado di “fornire la sua versione dei fatti” in concreto costituisca il modo con il quale si può “aiutare” il “vivo”. Attenzione, però, perché proprio in questi casi
‘u mortu grida
minditta. Questa massima, da sempre, è alla base di quelle faide [7] che in Calabria (ma anche in altre regioni del Sud), come in un lento stillicidio che si protrae nel tempo, hanno sterminato intere famiglie ed hanno insanguinato le strade di moltissimi paesi. Il principio della “legge del taglione”, da cui hanno origine le faide, nelle nostre classi subalterne trova riscontro nel proverbio
fa comu t’ha fattu mediante il quale (anche indirettamente) i giovani venivano educati alla vendetta. In verità già Cicerone aveva sostenuto che “ vim vi repellere licet ” (è lecito respingere la violenza con la violenza), ma non per questo il principio era da accettare e da diffondere come sacrosanto diritto-dovere di ogni persona offesa.
Tra le più diffuse consuetudini calabresi, in molti centri è ancora in uso il principio del risarcimento dei danni materiali, anche se involontariamente causati. Recita il proverbio:
cu’ ruppi paga, con la variante:
chine fa lu dannu E’ chiaro che il proverbio si riferisce a danni di natura patrimoniale e, in modo particolare, ai danni che involontariamente (o volontariamente) venivano arrecati a cose ed oggetti altrui. Non si spiegherebbe diversamente quel “cu’ ruppi paga” (chi rompe paga) cioè indennizza per l’esatto valore del danno, ma, soprattutto, non sapremmo come intendere in maniera diversa quel “cu’ guasta acconza” cioè chi rompe è tenuto a riparare. E’ chiaro che tutti i riferimenti vadano in direzione dei numerosi oggetti ed utensili in uso nella civiltà contadina che, spesso, venivano prestati ad amici e parenti che ne erano sprovvisti. Un impegno morale imponeva che venissero restituiti funzionanti come erano stati presi in prestito. Dunque: in caso di eventuale danno esso doveva essere risarcito. Il principio del “cu’ ruppi paga e cu’ guasta acconza” è stato esteso a tutto il mondo contadino e le classi subalterne lo hanno sempre applicato come norma di vita comunitaria. Ma non è mancato il caso in cui, per un errore involontario,
paga ‘u giustu p’
'o peccaturi Questo proverbio, in verità, ancora oggi viene usato ogniqualvolta si vuol sottolineare una ingiustizia determinata da un errore madornale o da una condanna o pena inflitta ingiustamente.
Nella zona di Campo Calabro e Fiumara di Muro, ai giovani litigiosi che erano sempre pronti a menare le mani o, per un nonnulla, a sporgere querele, gli anziani del loro stesso nucleo familiare o gli amici intimi, forti dell’esperienza fatta nel corso degli anni e ricordando alcuni precisi episodi paesani, suggerivano:
megghiu m'hai a
cchi ffari Con il “brigante”, infatti, era possibile giungere ad una pacifica transazione, ma la presunzione e l’arroganza che, spesso, caratterizzavano l’ignorante, erano ostacoli difficili da superare. Nella stessa zona, poi, per sottolineare la tensione e la paura che si impadroniva dei cittadini, allorché per le vie del paese si vedeva gironzolare qualche personaggio prepotente, con immagine assai bella, si diceva che
quandu passa
‘u malandrinu, Per non dover patire guai, da sempre l’uomo ha ceduto alla forza ed alla prepotenza del suo simile che non avendo nulla da perdere vive di espedienti cercando di sottomettere gli altri al suo strapotere. Ciò perché i “malandrini”, i prepotenti “‘ndranghitisti”, ci sono sempre stati a seminar paura tra la gente laboriosa e buona e tra le persone oneste delle classi subalterne. Ed allora, non certo per eccesso di viltà ma esclusivamente per amore di tranquillità e serenità, i nostri progenitori erano soliti suggerire:
quandu tira ventu oppure:
abbasciati juncu con la variante:
calati, juncu, che è sempre un esplicito invito a sottomettersi al più forte. Sia nella prima che nella secondo massima, (così come nella variante di quest’ultima) come spesso accade nei proverbi coniati dai contadini calabresi, troviamo immagini che ci riportano all’umile ambiente ed ai semplici interessi del mondo rurale ed arcaico dei nostri antenati. Sicché troviamo la modesta canna che si piega al minimo alitar del vento ma troviamo, soprattutto, la presenza del giunco, particolare e molto diffusa pianta acquatica che, grazie al suo stelo pieghevolissimo, è, essa stessa, simbolo di umiltà, di arrendevolezza e di ubbidienza cieca. Sia la canna, docile al soffiar del vento, che il giunco, pronto a piegarsi al passaggio dell’acqua, sono usati come simboli della sottomissione, della disponibilità a “sopportare” pazientemente le altrui prepotenze. In questi due proverbi, così come in moltissimi altri, è assai evidente la funzione didascalica sottintesa dalle poche parole che li compongono e dalle immagini rurali che esse evocano. L’umiltà, comunque, non doveva essere scambiata per totale arrendevolezza e per passiva sottomissione. Pertanto bisognava ricordarsi che
a muru vasciu e che, pertanto, ad essere troppo umili si correva il rischio di rimanere schiacciati dall’altrui prepotenza e sopraffazione. Vero è, però, che il proverbio, nella sua sinteticità, racchiude una precisa norma che, come moltissime altre, è stata successivamente fatta propria dal Codice Civile. Recita, infatti, il secondo comma dell’art. 878 del c.c. che il muro di cinta “quando è posto sul confine può essere reso comune (secondo quanto previsto dall’art. 874) anche a scopo d’appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore a tre metri”. Ancora un proverbio ambivalente, dunque, giacché oltre a dettare precise regole comportamentali esso veniva usato per incitare le persone a non essere deboli per evitare di essere sfruttate e mortificate dai più forti e dai soliti, immancabili, prepotenti. *** |
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N O T E
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<<Giustizia>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995 |
A tal proposito recita un proverbio slavo che: il diritto dei poveri è solo il pianto, che, in verità, la dice abbastanza lunga su come la pensassero in quella terra sulla uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini. Vedi: Piano, Enciclopedia dei proverbi, Milano, 1962. |
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Lo stesso proverbio è presente un po' in tutte le regioni italiane. In Toscana: chi ha denari ed amicizia si beffa della giustizia; in Veneto: coi bezzi e la malizia se orba la justizia; in Campania: denare e amicizia fanno cecà a giustizia; in Sicilia: cu’ havi denari e amicizia pocu stima la giustizia; ecc.. |
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Zurruni: sacchetto di pelle (solitamente di gatto) fatto apposta per conservare il denaro. Il termine deriva dallo spagnolo “zurrón” nel significato di “tascapane”. |
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La massima è riportata dal Marzano (vedi Opera . Citata, pag. 271,) con la variante che all’ultimo verso ha riportato “si vinci, resta cu a sula cammisa” mentre a Galatro, dalla voce della signora Gorina Pilè, alcuni anni addietro, abbiamo registrato “si vinci, resta sulu cu ‘a cammisa”. Abbiamo optato per questa versione anche perché poeticamente è molto più bella e più scorrevole. |
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Col
termine “Curti
“, molto genericamente si indicava il collegio giudicante.
In molti paesi della Calabria, pertanto, l’espressione
“chiamari ‘a curti “ significava “convenire in giudizio”.
Col termine "curti randi" si indicava la Pretura, col
termine "curti picciula"
si indicava, invece, la Conciliazione. C’erano poi il
Tribunale e l’Assise che venivano chiamati col loro nome. |
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Il proverbio, nelle due versioni, è stato registrato da G.B. Marzano per il circondario di Laureana. (Vedi: Opera Citata, pag. 171 e 172) |
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La
faida
è la vendetta privata che, secondo il diritto germanico
antico, l’offeso aveva il dovere di compiere contro
l’offensore. E’ stata riconosciuta e regolata nella
legislazione barbarica dalla
legge
detta
“del taglione”
basata sul principio
“occhio per
occhio, dente per dente ”.
La faida come “legge del taglione” fu mandata in disuso
grazie all’influsso esercitato sui barbari dalla civiltà
romano-cristiana. |
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Il vocabolo “malandrinu” non è registrato dal Rohlfs nel suo “Nuovo dizionario dialettale della Calabria” ma è riportato in altri vocabolari (vedi: Marzano, Misitano, ecc.). Qui è usato nel significato di malvivente. In sostanza col termine “malandrinu “ inizialmente fu definito il semplice e povero ladruncolo di paese e, in qualche caso, ma solo in senso traslato, l’uomo furbo e il donnaiolo (vedi Marzano, ad vocem). Successivamente si volle indicare il giovane “di rispetto” e, quindi, chi, successivamente, sarà definito “ ‘ndrànghitista”. Per l’ origine del termine “ ‘ndrànghita” rimando all’interessante e completo studio storico-glottologico di Paolo Martino. (vedi : P. Martino: Per la storia della ‘ndrànghita, Roma, Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche del Dipartimento di studi glottoantropologici dell’Università “La Sapienza”, 1988). |