di
Umberto Di Stilo Secondo
una consuetudine antica, il lavoro che il bracciante “giornaliero”
era tenuto a compiere alle dipendenze del proprietario terriero,
doveva protrarsi per tutto il giorno; cioè dall’alba al tramonto.
Tale
norma era “ufficializzata”
dai pubblici bandi che in marzo ed in agosto venivano
regolarmente affissi alle porte di tutte le chiese.
Sulla
consuetudine di lavorare “de
area ad aream”
o, come si diceva dalle nostre parti, “di
jornu a jornu”,
c’è stato un fiorire di detti.
E’
il caso di ricordare:
a vintun’ura
‘a jornata scura
(Galatro)
con
cui si sanciva che solo al tramontar del sole si concludeva la
giornata lavorativa.
Lo
stesso concetto, con bella immagine poetica, è messo in bocca
alle anziane raccoglitrici d’olive le quali, al calar della
sera, per smettere di lavorare ripetevano, anche sotto forma di
incitamento:
a la gatta nci lucinu l’occhi
jamuncindi cotrari, ch’è notti
(Galatro)
con
la variante:
e lu suli è sup’a li petti
jamuncindi figghioli schetti.
Il
tramonto del sole, comunque, oltre a coincidere con la fine
delle attività lavorative rasserenava psicologicamente i
braccianti (i “jornatari”)
dal momento che, solo allora, acquisivano la certezza di aver
maturato il diritto al pagamento del lavoro effettuato. Secondo
la massima, infatti, soltanto
a’ vint’ura
‘a jornata è sicura.
(Galatro)
e,
come conseguenza concreta, l’operaio poteva portare a casa
quel modestissimo salario che gli avrebbe consentito di
garantire a tutti i componenti la sua (spesso) numerosa famiglia
il necessario per vivere. Ciò perchè, unanime era l’opinione
che:
lavuru fattu
dinari aspetta,
(Galatro)
o,
come sostengono altri:
‘u lavuru è fattu:
i dinari aspetta.
Mentre
il tramonto ai braccianti, ed ai lavoratori in genere, portava
la fine delle attività lavorative, al proprietario terriero,
quanto mai egoista, arrecava insoddisfazione e tristezza. Il
proverbio antico, infatti, a tal proposito ricorda che
quandu ‘u suli si fa’ russu
‘u patruni allonga ‘u mussu.[1]
(Galatro)
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