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di
Umberto Di Stilo
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Secondo
l’art. 769 del C.C.,
“la
donazione è il contratto col quale, per
spirito di
liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a
favore di questa un suo diritto o assumendo verso la stessa
una obbligazione”.
Sin dai tempi antichi le donazioni più frequenti
si sono concretizzate tra genitori e figli o,
comunque, tra parenti discendenti e collaterali.
Nella
nostra società contadina, però,
per una assai diffusa forma scaramantica oltre che
per un innato senso di egoismo e di avarizia, le donazioni
erano poche giacché, come abbiamo già visto, esse si
limitavano all’assegnazione dei semplici “beni
dotali”. Per la maggior parte, infatti, erano successioni,
che - com’è ovvio- oltre ad essere ben altra cosa
avvenivano “post mortem”
del genitore o, comunque, del
proprietario dell’immobile che cadeva in
“successione”.
Per
la particolare filosofia di vita, all’epoca, accettata e
condivisa da tutti i “paterfamilias”,
nessuno si sognava di dividere il proprio asse ereditario ai
figli finchè le forze lo aiutavano a provvedere
direttamente alla conduzione agricola delle terre ed
all’amministrazione della famiglia.
Era una forma indiretta
di autotutela e di protezione suggerita da quel morboso
attaccamento alla
“roba”
che sembrava aver infettato
tutti. C’era il convincimento, infatti,
che
cu
sparti ricchizza
resta ‘m povertà
(Galatro)
giacché,
essendo le famiglie costituite da numerosi figli, procedendo
alla divisione del latifondo per effettuare l’assegnazione
delle varie parti agli aventi diritto, il proprietario-capo
famiglia di fatto veniva a trovarsi improvvisamente
“povero”.
Proprio
per questo, con commiserazione, si
diceva, anche:
amaru
cu’ duna ‘a rrobba ‘n vita
quasi
che, così operando, si sarebbero aperte sicuramente le vie
alla povertà ed alla vita grama.
Sullo
stesso principio si basa la massima secondo la quale
‘a
rrobba si dassa,
no’ si duna.
Niente
divisione ed assegnazione ereditaria in vita, dunque, se,
come asserisce la massima, bisogna “lasciare”, piuttosto
che “dare”. Il detto non rappresenta una voce isolata.
Parecchie, infatti, sono le testimonianze in proposito. Qui
ne vogliamo ricordare un’altra che, con evidente
allegoria, per rafforzare il principio sosteneva
che
‘a
gajina si spinna doppu morta
quasi
che il genitore-testatore fosse veramente un pollo da
spennare. Certo, da questo detto, non si può dire che i
nostri antenati avessero grande stima dei loro genitori.
Forse contribuiva moltissimo il comportamento taccagno degli
adulti, di chi, cioè, poteva procedere alle donazioni e non
le faceva per paura di disperdere e frammentare il suo
patrimonio. Ma se solo per un attimo, mentalmente,
riuscissimo a fare un tuffo indietro nel tempo e cercassimo
di vedere il modo di vivere dei nostri antenati, forse
giustificheremmo chi riteneva che il genitore era da
spennare, quasi per
fargli scontare, tutto in una volta, il modo di vivere
troppo chiuso e la sua eccessiva sete di danaro.
Era,
addirittura, considerato degno di commiserazione
il genitore che, in vita, divideva i suoi averi per
assegnarli ai figli-eredi:
amaru
chiju patri
chi si spogghja ‘n
vivenza.
In
netta contraddizione con quanto
suggerito dalle massime appena citate, è il proverbio
che più volte abbiamo sentito ripetere ad un anziano “massaru”
che viveva a Salice, contrada
montana di Galatro. Come suggerimento ai suoi congiunti, il
buon “Massaru Brunu”,[1]
con la saggezza degli esperti ripeteva spesso, infatti, che
s’avi
a ffari testamentu e dunaziuni
quandu
si mangianu sotizzi e maccarruni.
Non
più divisione ereditaria dopo la morte o quando il fisico e
la mente hanno perduto il loro smalto, dunque, ma
quando si sta bene in salute e si è pienamente convinti
dell’importanza dell’atto che si sta per compiere.
Il
proverbio trae
origine dalle antiche consuetudini germaniche. Presso quelle
popolazioni, infatti, prima di disporre dei suoi averi, il testatore, per dimostrare la propria integrità
fisica ed intellettiva
doveva attraversare
a cavallo un corso d’acqua armato di scudo e di lancia.
Qui, da noi, non era richiesta alcuna prova particolare, ma
chi procedeva alla divisione dell’asse ereditario era
consigliabile che godesse di quella buona salute che
consente di mangiare con appetito, e senza problemi di
digestione, “sotizzi e
maccarruni”.
Comunque, quale che fosse il periodo in cui veniva
effettuata l’assegnazione dei beni ereditari, era
convincimento generale che bisognasse tener presente il
principio secondo il quale
l’anima
a Ddio
e ‘a rrobba a cu’ tocca
quasi
che, come l’anima spetta al Creatore, allo stesso modo, in
ossequio al principio di equità divina, nessuna preferenza
doveva essere operata in sede di divisione e di assegnazione
dei beni. Tutto ciò anche se una massima suggeriva:
ccu’ la
rrobba tua fa’ chiju chi bboi
quasi
che, più che obblighi morali, il testatore potesse seguire un
suo personale “libero
arbitrio”.
Spesso,
nonostante l’equità e l’imparzialità del genitore, la donazione (ma, non di rado, anche la divisione
testamentaria) creava dissapori e generava liti tra i
coeredi. Di fronte agli interessi
economici, infatti, anche il vincolo di sangue passa
in second’ordine . Per questo l’antico saggio ricordava
che
‘u
sangu jungi
e
l’interessi sparti.
Al
legame di sangue si riferisce anche il proverbio
‘a
rrobba è parenti allu sangu
che
serviva a ricordare (ed a giustificare, forse,) il
vincolo quasi parentale che legava i beni immobiliari al
loro legittimo proprietario. Un legame così morboso da
superare in intensità quello derivante dalla parentela. Secondo altra interpretazione la massima, invece,
si citava per ricordare che “per rispetto al vincolo di
sangue, i beni devono essere lasciati ai figli o, in
mancanza, ai parenti più intimi. Tuttavia per la posizione
di assoluta preferenza che la filiazione legittima aveva nei
confronti di quella naturale (non si dimentichi che i figli
naturali erano generalmente qualificati “muli”) i figli
illegittimi erano di solito completamente trascurati dal
testatore”.[2]
Mentre
i figli naturali avevano possibilità di “accesso” alla
successione ereditaria,[3]
nei confronti dei figliastri, ossia i figli che l’altro
coniuge ha avuto da un precedente matrimonio, i nostri
antenati non dimostravano di avere alcuna considerazione.
Essi suggerivano, infatti:
allu
figliastru ‘on fara beni
perché sarebbe stato sprecato e non avrebbe generato alcuna
riconoscenza.
Anche
per questo si sosteneva che il figliastro (così come gli
altri parenti “acquisiti”)
‘ntra casa chi ‘un c’è natu
‘on ci ha da stara
e
che, pertanto, la casa di famiglia doveva essere assegnata
ai figli legittimi o a qualcuno dei parenti consanguinei.
Tornando
alla divisione per “successione”
dell’asse ereditario, solitamente essa veniva
effettuata dopo il trigesimo della morte del genitore. Per
antica tradizione il primogenito aveva il privilegio di provvedere a fare le “parti”.
In
pratica era, quello, il primo atto ufficiale che l’erede
compiva dopo il decesso del genitore. L’affidamento del
delicato compito di procedere alla ripartizione dei beni
costituiva, di fatto oltre che di diritto, il momento in cui al
primogenito veniva data la tacita “investitura” di
capofamiglia.
Non
tutti, però, avevano l’onestà di dividere equamente i
beni ereditati. C’era, infatti, chi, approfittando del
nuovo ruolo assunto in seno alla famiglia, pur sapendo di
danneggiare i suoi fratelli,
lasciava per sé le parti migliori, le zone più
produttive; insomma, le più consistenti fette.
A
tal proposito un proverbio ricorda che
cu’ sparti
pigghia ‘a megghiu
parti
(Galatro)
anche
perché
cu
sparta e non tena
mala festa mû nci vena
(Catanzaro)
Ma,
si sa, ogni paese, ogni comunità -grande o piccola che sia-
ha sempre avuto le sue norme, le sue consuetudini.
Mentre
in alcune zone, infatti, era il primogenito ad avere il
ruolo del protagonista assoluto, del padrone indiscusso; in
altre pur riconoscendogli il diritto di procedere alla
divisione dei beni, effettuando
arbitrari e sommari frazionamenti delle proprietà, di fatto
gli negavano il diritto ed il
privilegio di effettuare per primo la scelta. Per dimostrare,
pertanto, che
tutto si faceva nella maniera più equa, appena il
primogenito finiva di effettuare la ripartizione delle varie
quote parti, il privilegio di procedere per primo alla
scelta era riservato al più giovane degli eredi. Sulla
scorta di una vecchia massima latina, che testualmente
recita
“maiori dividit / minor eligit“, i nostri antenati,
infatti, sostenevano
che
‘u
grandi faci ‘i parti
e ‘u picciulu pigghia
(Galatro)
o,
come nella variante:
‘u
grandi faci ‘i parti
e ‘u picciuli si pigghia a megghiu
parti
(Galatro)
oppure,
ancora:
‘u
ranna facia i parti
‘u
picciottu scegghia.
In
altre zone, in base al dettato di questa massima,
l’assegnazione delle quote parti veniva effettuata per
sorteggio ed al più piccolo degli eredi era concesso il
privilegio di avviare l’ operazione.
Se,
comunque, nella scelta e nell’assegnazione delle quote di
eredità il ruolo del primogenito e quello del più giovane degli
eredi variavano da paese a paese e da zona a zona, generale
era, invece, il convincimento che la donazione è tutelata
dal principio della irrevocabilità e nessun ripensamento,
con conseguente richiesta di restituzione è ammesso, come,
con toni oscuri e drammatici, ricorda la massima:
cosa
data e cosa pigghiata
vai a lu ‘Mpernu ‘ncatinatu.
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