Il piccolo mondo di Galatro

 

Un altro gioiello dello scrittore galatrese:

'U ventu sparti

 

di Michele Scozzarra

 

 

"Secondo me è meglio rinunciare a qualcuna delle serate che, solitamente, si organizzano nel mese di agosto per allietare la presenza dei nostri emigrati, piuttosto che lasciare chiuso in un cassetto il minuzioso lavoro dell’amico giornalista Umberto Di Stilo”. Sono parole, scritte da Don Peppino Scopacasa nella premessa all’ultimo libro di Umberto Di Stilo, che rappresentano una proposta ed un richiamo, per chi sente l’esigenza di ritrovare una cultura ed una identità umana che ha lasciato un segno nei secoli e nella vita dei nostri avi: un mondo di valori, usanze, di tradizioni che sta scomparendo... ma che è possibile recuperare perché non scompaia anche dalla memoria.

In questo senso è da ritenere miracoloso il lavoro che da anni, con competenza, rigore e pazienza certosina sta portando avanti l’amico Umberto Di Stilo.

Il titolo del libro è “’U ventu sparti”, il sottotitolo “Norme giuridiche della civiltà contadina contenute nei detti e nei proverbi calabresi”... Ultimo gioiello del Di Stilo che, a mio modesto parere, viene a rappresentare un ulteriore tassello di un unico mosaico, realizzato dagli altri lavori già pubblicati, uniti a quelli che lo saranno in futuro.

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Questi “tasselli” rappresentano per i più anziani delle realtà ancora pulsanti nella memoria. Per i più giovani qualcosa di affascinante, anche se confinato definitivamente, per fortuna non irrimediabilmente, nel nostro passato.

Il libro raccoglie, per come dice il sottotitolo, norme giuridiche della civiltà contadina contenute nei detti e nei proverbi calabresi. Sono massime che appartengono, in modo molto stretto, alla nostra storia, e sono state pensate per accompagnare, giorno per giorno, i gesti, le parole, i ritmi del tempo, la forma dei rapporti, l’accadere di determinati fatti.

Sono elementi questi che danno al volume un interessante aspetto storico. Sono infatti riportati, detti che si sono spesso sentiti citati, ma sui quali non esiste praticamente alcuno scritto. Quindi il libro, o per meglio dire “i libri”, di Umberto Di Stilo ci danno la possibilità di scoprire e conoscere la nostra storia, anche se vissuta attraverso i detti popolari.

E qui sta un ulteriore merito dell’Autore: quello di aver fatto “rivivere”, dando dignità culturale a tutte quelle espressioni, sinteticamente definite “tradizioni popolari”, che non trovando ospitalità sui media ufficiali, rischiavano di non esistere più. Aver fatto rivivere una storia spesso non scritta, e perciò comunicata al di fuori dei tradizionali canali, legata a ciò che hanno pensato, creduto e vissuto uomini che non hanno lasciato alcuna traccia.

Sono pochi gli studiosi che si sono addentrati in una così delicata e paziente opera di “ricognizione” storica capace di offrire uno “spaccato” di vita ormai scomparso.

Non un mondo idilliaco né la ricerca del tempo perduto, ma la memoria di una tradizione, ancora capace di suscitare interesse e meraviglia.

Le ragioni dell’interesse al lavoro del Di Stilo sono indubbiamente varie ma, tra di esse, non va sottovalutata quella attenzione posta alla valorizzazione degli insegnamenti tramandati sotto forma di detti e proverbi. In questa prospettiva non solo gli storici ma, più ampiamente, anche le persone culturalmente più sensibili desiderano conoscere le forme e le espressioni nelle quali, nel corso dei secoli, si è venuta delineando la fisionomia del nostro popolo.

In questo senso si comprende, quindi, come tutta la lunga e travagliata fatica di Umberto Di Stilo, assuma una singolare importanza ed attualità.

Tuttavia, nell’opera del Di Stilo non si intravede certamente la riesumazione di qualcosa di morto, ma la memoria di un patrimonio vivente, anche se sommerso... un patrimonio che mette in evidenza l’incontro con la vita quotidiana di un popolo, intessuta di usi e credenze, riti e superstizioni, pietà popolare e miracoli, lotte di sopravvivenza e feste dell’anno e delle stagioni, lavoro duro della terra e gusto di un serio e laborioso artigianato...

E, per ultimo, parlando di tradizioni popolari intese come patrimonio di esperienze e di memorie che hanno determinato e guidato la vita della nostra gente, il Di Stilo ha incastonato mirabilmente anche quell’insieme di consuetudini giuridiche per cui i contadini potevano far legna nei boschi, usare il pascolo, servirsi di una strada, raccogliere i frutti, ecc.

“Siamo di fronte – scrive il Di Stilo – alle antiche norme... alla “sacralità della parola” quando gli accordi erano siglati da patti verbali e da un’amichevole stretta di mano”. Non a caso, nel diritto romano, la parola data dal “pater familias” veniva definita “sacramentum”. Altri tempi...

A questo punto mi resta poco da aggiungere... E quel poco si può sintetizzare in questo. Conosco da anni Umberto Di Stilo, ho seguito il suo lavoro attraverso i suoi libri e, buona parte, degli articoli pubblicati.

Dovrei aggiungere, a questo punto, che invidio Umberto Di Stilo. Ma affinché la mia dichiarazione non sia fraintesa, voglio precisare che si sono due tipi di invidia. C’è l’invidia “rosa”: vedi uno più bravo, più competente, più studioso di te e ti capita di pensare che staresti bene al suo posto, o che comunque ti piacerebbe riuscire a realizzare quello che ha fatto lui. Punto e basta!

Poi c’è l’invidia “gialla”, anzi tendente pericolosamente al verde pisello (o al verde bile): è il sentimento di chi si rode nell’ombra e si augura che agli altri non capitino cose belle e buone. Questa è l’invida di chi, in realtà, soffre della fortuna, della bravura, della competenza degli altri.

Di quest’invidia turpe il sottoscritto è, grazie a Dio, del tutto immune. La mia invidia per Umberto Di Stilo è di un bel rosa solare... a lui auguro che trovi ancora il tempo, e le condizioni, di poter realizzare e pubblicare i lavori che da anni, a prezzo di sacrifici e di sudore, porta avanti.

Io gli posso solo augurare: “Buon lavoro”...  Il tempo gli renderà gli innegabili meriti...

 

N O T E

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Proposte n. 11 del luglio-agosto 1995

 

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