San Cono e il giovane paralitico

(miracolo operato a Galatro)

da

Racconti

di Umberto Di Stilo

 

Fra’ Agàpito, giovane converso del convento di S. Elia, quella notte, come in preda ad una strana inquietudine, si girava e rigirava nel suo modesto giaciglio, aspettando con ansia che il sole si alzasse sulla collina di Cubasina per scendere a Galatro.

Non c’era da perdere troppo tempo, per cui ancor prima di iniziare il quotidiano giro per la raccolta delle elemosine doveva attuare l’idea che, forse, la Divina Provvidenza gli aveva improvvisamente fatto balenare in testa.

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          Ora che, solo per qualche giorno, era gradito ospite del convento l’Abate Conone di Naso,[1] delle cui angeliche virtù la fama aveva varcato i mari e poi, di balza in balza, era giunta in tutti i cenobi basiliani, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di fargli vedere Diego, figlio unico del governatore Pompeo Passalia e della moglie Donna Caterina Mancipa, che dal giorno della nascita, nonostante le continue ed amorose cure a cui veniva sottoposto, giaceva paralitico in un lettino di dolore.

Fra’ Agàpito. che sotto la lunga barba scura nascondeva un volto da adolescente, era tipo assai gioviale ed all’interno del cenobio, con le sue battute pronte e col suo carattere allegro riusciva a far sorridere anche quei confratelli assai avanti negli anni e, come tali, abituati ad essere estremamente seri e ad osservare regole monastiche molto rigide.

Nei centri abitati del circondano, ove il giovane frate periodicamente si recava per la raccolta degli oboli in favore del convento, era abbastanza conosciuto. Lo conosceva bene anche Diego, il giovane paralitico, perché il frate, quando gli impegni glielo consentivano, era solito tenergli un po’ di compagnia. Ed erano sicuramente quelle le ore più spensierate per l’ammalato. Fra’ Agàpito si sedeva accanto al letto ed all’attento giovane, accompagnandoli con ampi gesti delle braccia e con una mimica facciale da fare invidia ad un esperto commediante, raccontava, arricchendoli sempre di nuovi particolari, brani del Vangelo oppure episodi di vita del convento tra cui gli scherzi che egli stesso era solito ordire a danno dei confratelli più anziani.

Una volta, forse dimenticando le condizioni fisiche di chi lo stava ad ascoltare e lo seguiva con molta attenzione, Fra’ Agàpito raccontò a Diego di quando Gesù aveva guarito il giovane paralitico di Cafarnao col semplice comando: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”.

Diego, in quella circostanza, scoppiò in un pianto dirotto e tra i singhiozzi chiese al suo amico frate cosa dovesse fare per poter sperare in un miracolo che gli consentisse di abbandonare il letto.

- Io lo prego sempre il nostro buon Dio - disse - ma le mie gambe restano sempre inerti. Quando potrò correre pei campi come un capriolo?...

... Quando potrò venire con te da un paese all’altro ad aiutarti nella raccolta degli oboli?... Quando potrò vedere il volto di mia madre atteggiarsi sinceramente al sorriso?... Quando... -

- Abbi fede - lo interruppe il giovane frate - e quando meno te lo aspetti, il buon Dio, che ci è sempre provvidenzialmente vicino, esaudirà le tue richieste! -

Quelle domande, ingenue e sincere, accompagnate da un pianto drammaticamente disperato, restarono impresse nella mente di Fra’ Agàpito che per alcuni giorni, trovandosi col giovane paralitico, evitò di parlare di miracoli.

La cella, piccola e assai disadorna, nella quale c’era il giaciglio di Fra’ Agàpito, si affacciava, mediante una cadente finestra, sulla valle del Potàme, ruscello assai pescoso e dalle acque limpide e fredde.

Quando i primi raggi del sole, introducendosi attraverso la malridotta imposta, schiarirono il buio della stanza, Fra’ Agàpito saltò dal letto e, dopo aver indossato la ruvida e più volte rattoppata tonaca, cercando di evitare ogni rumore, scese giù, direttamente nella cappella, e inginocchiatosi davanti alla sacra immagine del Santo da cui prendeva nome il convento, recitò la quotidiana preghiera del mattino.

Poi. dopo aver salutato Frate Giuseppe, addetto alla cucina. ed il Guardiano Fra’ Antonio da Terranova, -che per assolvere compiutamente alle loro funzioni, come sempre, erano stati solleciti a lasciare le loro rispettive celle - Fra’ Agàpito prese la bisaccia ed il solito robusto bastone che da diversi anni erano diventati compagni inseparabili delle sue lunghe giornate di questua, ed uscì senza poter ascoltare il Padre Guardiano che, incuriosito, gli chiedeva il motivo di tanta fretta.

La vasta contrada in cima alla collina, circondata da fitti boschi. un tempo del tutto abbandonata e quasi completamente sconosciuta, in seguito all’arrivo dei basiliani si era andata sempre più popolando mediante l’afflusso di diverse famiglie di contadini, di pastori e di carbonai giunte da ogni parte della zona perché allettate dalla possibilità di lavorare tranquillamente e serenamente e, di conseguenza, poter vivere una vita meno grama di quella del villaggio o del paesino ove erano alla mercé di padroni senza scrupoli, avari e quanto mai tiranni.

La possibilità di una vita più tranquilla era stata prospettata dai monaci i quali, durante il loro peregrinare da un paese all’altro in cerca degli oboli per il convento, avevano decantato la bellezza della natura e la fertilità del suolo di Cubasina la cui terra, assai adatta ad ogni tipo di coltivazione, era particolarmente indicata a quella dei cereali ed a quella degli olivi.

Inoltre, i fitti boschi di querce e di lecci, che in modo predominante interessavano i terreni digradanti verso valle, assicuravano lavoro ai carbonai ed ai pastori le cui mandrie potevano pascolare tranquillamente in quei prati assai ricchi di tenera e saporita erbetta.

Intorno al convento, quel mattino, tutto era immerso in un profondo silenzio nel quale, di tanto in tanto, trasportato dalla leggera brezza, si riusciva a percepire il rumore sordo che il fiume, giù nella valle, col suo eterno fluire verso il mare, produceva ogni qual volta la sua acqua furiosamente schiaffeggiava le grosse pietre che le ostruivano il passaggio o quando, cadendo da un alto strapiombo, dava origine a pittoresche cascatelle.

Il sentiero, appena inumidito dalla brina, dopo un breve tratto in leggera salita, attraversava la pianura coltivata a frumento.

 

 

Qua e là, sfumati dalla foschia, si intravedevano i modesti pagliai nei quali vivevano le numerose famiglie di contadini e di pastori.

Fra’ Agàpito camminava a passi svelti ed in men che si dica, quasi senza accorgersene, giunse all’inizio della lunga discesa.

La valle era ampia e, vista dall’alto, nel suo verde intenso appena interrotto dallo zigzagare argenteo del fiume, acquistava dimensioni più grandi.

Da lassù il pugno di case disposte in modo quasi parallelo al letto di quel corso d’acqua tanto importante per l’economia del paese, sembrava assai piccolo, ma Fra’ Agàpito, che conosceva bene la dislocazione delle varie capanne e delle assai misere casette degli abitanti, attraverso il fumo che usciva dai comignoli, riusciva a stabilire in quale famiglia era già ripresa la quotidiana attività, ossia la vita.

Il paese era costituito da un modesto gruppo di famiglie: non più di trecento persone che dedite all’agricoltura, alla pastorizia ed alla concia delle pelli, vivevano assai stentatamente.

Tra tutte, però, si distingueva la famiglia del Governatore Passalia il quale, forte dei suoi numerosi e vasti possedimenti, poteva permettersi qualche lusso, a cominciare dal palazzo che, costruito al centro del villaggio, disponeva di diverse stanze, di stalle e di locali riservati alla servitù.

Sotto i timidi raggi del sole, che lentamente si levava alto nel cielo, in fondo alla valle, accanto alla scia argentea del Metramo, Il paese si animava sempre più.

Fra’ Agàpito, quasi di corsa, percorreva il viottolo di campagna che seguendo il crinale della collina scendeva fino a valle.

Saltellava da una pietra all’altra, cercando di non scivolare e Tra tutte, però, si distingueva la famiglia del Governatore, in qualche occasione, riusciva a mantenersi in equilibrio soltanto perché si aiutava col bastone.

Quando, in fondo alla stradina, giunse a Potàme, proprio alla confluenza tra questo ruscello ed il Metramo, il giovane frate si fermò un istante, quasi per riprendere fiato, e dopo aver sistemato alla buona la tonaca provvedendo a togliere la polvere che si era appiccicata sopra, reggendosi al robusto bastone, la cui estremità affondava nell’acqua del ruscello, passò sui tre tronchi di pioppo che, accostati l’uno all’altro dai contadini del paese, fungevano da ponte.

Sull’altra sponda costeggiò per un buon tratto il letto del Metramo spostandosi poi verso l’interno della campagna ed imboccando il viottolo che conduceva al piccolo centro abitato, ormai tanto vicino da consentirgli di percepire abbastanza nitidamente gli strilli dei bambini svegliati di soprassalto dai loro solleciti genitori che, di buon’ora, si preparavano ad andare a lavoro.

Fra’ Agàpito allungò il passo.

Poi, dopo aver attraversato alcuni vicoli sui quali si affacciavano le modeste casette realizzate in blocchi d’argilla cruda impastata con paglia ed asciugati al sole, - le “breste” -  si trovò in un piazzale dominato dal palazzo del Governatore.

Nelle stanze del piano terra, quelle nelle quali abitavano le famiglie della servitù, c’era già un po' d’animazione.

Da parte sua anche il vecchio Masi, stalliere della famiglia Passalia, era già intento a strigliare la puledra con la quale, più tardi, il Governatore avrebbe dovuto compiere il solito giro per i suoi possedimenti che dallo spumeggiante e pittoresco Fermàno, per migliaia di tomolate, si estendevano fino al torrente Eia, da una parte, e, più a valle, fino all’impetuoso Jarapotamo.

L’ingresso principale del palazzo era ancora chiuso. Il giovane frate afferrò con la mano destra il picchiotto ferreo, riproducente la testa di un leone ruggente, e con forza lo fece battere più volte sul robusto legno della porta.

All’interno echeggiarono altrettanti colpi cupi che, giunti distintamente fin nelle stanze del piano superiore, fecero sobbalzare il padrone di casa il quale, raggiunta in fretta una finestra ed apertone lo sportello, si sporse per sapere cosa fosse accaduto.

Visto l’amico frate: - che è successo?... Che cerchi a quest’ora?... - gli chiese con voce assai imperiosa.

 

 

E l’altro, alzando la testa e guardando verso la finestra: - Avrei da dirvi una cosa con tutta urgenza... Se avete la bontà di comandare che mi aprano... -

Qualche minuto più tardi Fra’ Agàpito varcava la grande porta e dopo aver attraversato il cortile e salita un’ampia scala in pietra, poteva sedersi su una delle panche della stanza di ricevimento.

L’attesa fu breve. Dopo soltanto qualche minuto, infatti, attraverso una porta interna, Don Pompeo, vestito alla buona, coi capelli arruffati, con gli occhi cisposi e ancora pieni di sonno, fu davanti a lui e con tono preoccupato gli chiese cosa ci fosse di tanto urgente da permettersi di svegliano all’alba.

- Ieri pomeriggio, pellegrino d’amore, è arrivato tra di noi, su, nella nostra casa di Cubasina, un frate siciliano che pare sia dotato di particolari virtù taumaturgiche - disse timidamente il converso del S. Elia.

Poi, continuando a parlare a bassa voce, riprese:

- Sapete, è di ritorno dalla Terra Santa ove, vivendo e ripercorrendo le tappe della vita terrena di Gesù, pare abbia beneficato molti fedeli che si sono rivolti a Lui per aiuti. Prima di rientrare nel suo monastero è voluto passare da Galatro per sostare in preghiera sulla tomba che racchiude i resti mortali del nostro grande Sant’Elia di Enna, suo conterraneo.

Si fermerà in mezzo a noi soltanto per qualche giorno.

Ho pensato, e mi permetto di suggerirvelo, pertanto, che sarebbe opportuno che anche lui vedesse il vostro Diego.. . Chissà che il buon Dio non accolga le sue preghiere. . . Chissà che lui non riesca a trovare il giusto rimedio.. .Perché non tentate?.. .Perché non andate da lui stamattina stessa e, senza perdere tempo, lo invitate a casa vostra?... -

Man mano che il giovane frate completava timidamente il suo discorso, il volto del Governatore cambiava espressione: accigliato prima, poi sorpreso, infine interessato

- Ti ringrazio per il suggerimento...  Ne parlo a mia moglie e poi, come da tuo consiglio, andrò a Cubasina nella speranza di riuscire ad incontrare il frate di cui tu mi parli. Speriamo, però, che ci metta una buona parola anche il Padre Guardiano... -  disse Don Pompeo.

Diego aveva ormai quasi quindici anni.

Atteso e voluto per molto tempo dal ricco quanto nobile e giovane Governatore del paese e dalla sua bella consorte, il bambino venne ad allietare la coppia ed a riempire di gioia i cuori ormai delusi e sfiduciati dei genitori che si erano già rassegnati all’idea di rimanere senza eredi.

Il giorno natale di Diego fu festa grande per tutta la comunità galatrese che, spontaneamente, in massa, volle andare a palazzo per felicitarsi coi genitori.

Commosso da simile manifestazione d’affetto, il Governatore, per alcuni giorni, consentì che gli uomini del paese a volontà bevessero il vino delle sue cantine e volle che nei suoi granai si recassero tutte le mamme del luogo per ritirare il moggio di frumento che, per festeggiare la nascita del figlio, aveva deciso di regalare ad ogni famiglia.

Man mano che il tempo passava, però, in casa del Governatore la gioia e la felicità dovettero cedere il passo alla disperazione più amara.

Per un crudele scherzo del destino, infatti, le gambe del bambino diventavano sempre più flaccide, sempre più inerti.

Attorno al letto del ragazzo si erano avvicendati gli esperti della zona e furono preparati mille diversi intrugli ed altrettanti impacchi a base di erbe o di lino ben macerato che avrebbe dovuto svegliare l’apparato muscolare di quelle gambe.

Ma tutto risultò inutile, per cui alla speranza di una possibile guarigione, col trascorrere del tempo, e man mano che Diego dall’infanzia passava all’adolescenza, nei componenti la famiglia del Governatore subentrava lo scoramento di fronte alla totale impossibilità di trovare un giusto rimedio alla immobilità del giovane.

Inoltre alla rabbia si aggiungeva anche la disperazione di sapere che il ragazzo sarebbe rimasto figlio unico.

Nella stanza di Diego, a rendergli meno tristi le ore della giornata, si alternavano giocolieri e saltimbanchi i quali, se non erano di passaggio, spesso venivano appositamente scritturati dal Governatore.

Era, questo, un tentativo per far dimenticare al giovane il suo grave stato di menomazione.

Nonostante la presenza dei giocolieri, però, dal volto del giovane traspariva in modo quanto mai chiaro un senso di indifferenza per tutto e per tutti unito ad un senso di tristezza che sul piano psicologico lo prostrava sempre più profondamente.

La giornata di fine settembre era assai limpida.

Nel cielo, di un azzurro quanto mai luminoso, alto era già il sole allorché, col cuore in gola ed animato dalla speranza che in lui trovava profonde motivazioni nella fede cristiana, il Governatore, in sella alla sua giumenta baia, imboccò la strada che portava ai piani di Cubasina là dove, poco. più di un secolo prima, un gruppo di frati basiliani, per scampare alla furia devastatrice dei saraceni, abbandonato il cenobio di Taureana e spintosi fin nell’interno, aveva pensato di costruire il convento di Sant’Elia, da cui, successivamente, prese nome la contrada circostante.

Percorse le poche miglia di strada distratto dall’idea, che ormai da anni gli rodeva il cervello, di una possibile guarigione del figlio.

Ed era cosi immerso nei suoi pensieri che non si avvide neppure degli inchini e dei saluti, quasi sempre accompagnati da rispettosi scoprimenti del capo, che gli indirizzavano gruppi di contadini qua e là, nelle varie contrade, impegnati nei lavori dei campi.

Con lo sguardo fisso nel vuoto gli sembrava di vedere il suo Diego correre felice per i prati, saltare lungo i sentieri, cavalcare a pelo la puledrina, immergersi nell’acqua gelida del Metramo nella speranza di riuscire a catturare una trota, un’anguilla...

Tutte cose che anche lui aveva fatte da adolescente e che il destino aveva voluto che fossero impedite al suo giovane figlio.

L’imponente fabbricato del convento, realizzato su un terreno in leggero declivio, che quasi improvvisamente si trovò davanti, fece tornare alla realtà Don Pompeo Passalia.

Poi, giunto davanti all’ingresso principale, scese da cavallo e legate le briglie ad uno dei grossi anelli di ferro appositamente murati ai lati della porta, tirò la funicella che fuoriusciva da un buco del portone facendo suonare più volte la campanella che, appesa all’interno, serviva per richiamare l’attenzione dei frati sulla presenza di visitatori che avevano necessità di entrare nel cenobio.

Un anziano frate, dai capelli e dalla lunga barba bianca, aprì la porta ed il Governatore si introdusse chiedendo di poter avere un colloquio urgente col Padre Guardiano.

Seduti uno di fronte all’altro ed appoggiati al robusto tavolo della biblioteca sul quale, arrotolate, si trovavano diverse pergamene, i due discussero da buoni amici e vecchi conoscenti e alla fine convennero sul modo di chiedere l’intervento dell’Abate siciliano in favore di Diego. Le ore pomeridiane in casa del Governatore trascorrevano in modo assai convulso tra i frenetici preparativi della servitù impegnata a mettere tutto in ordine e la naturale intima trepidazione di Donna Caterina, a cui le preoccupazioni e le continue notti insonni, trascorse accanto al figlio ammalato, avevano più volte solcato il volto con rughe profonde; la donna, comunque, pur dimostrando più dei suoi quarant’anni, conservava lineamenti così delicati che era possibile risalire a tutta la sua luminosa, sana e prorompente bellezza giovanile.

Adesso, nel cuore stanco della donna, era improvvisamente tornata ad alimentarsi la fiammella della speranza.

Erano bastate poche parole del marito: - Caterina, più tardi verrà da noi un monaco forestiero che pare abbia già operato diversi prodigi. E’ dotato di particolari qualità... Vedrà il nostro Diego. Preghiamo Iddio che si compiaccia di farci la grazia... -

Ed il discorso si era fermato perché il Governatore, che pure sembrava assai burbero e difficilmente portato alla commozione, improvviso sentì salirgli un nodo alla gola.

Diego, ignaro di tutto, se ne stava a sonnecchiare in quel letto che dal giorno della nascita aveva lasciato solo in rarissime occasioni e sempre per pochi minuti. Non si accorgeva che intorno a lui c’era una insolita animazione.

In quell’ampia e luminosa stanza era racchiuso tutto il mondo dell’adolescente ammalato. Li si avvicendavano, principalmente per impedirgli che la solitudine lo portasse nel vortice della disperazione, due precettori ed una pazientissima balia.

Ma Diego pretendeva che la mamma fosse quasi costantemente presente, che gli tenesse la mano nella mano, che non si spostasse dal suo fianco.

E Donna Caterina, per non dispiacere alla sua creatura, stava consumando i suoi giorni ed il suo bel fisico con la stessa inesorabile lentezza con la quale si consuma una candela accesa davanti all’altare del Santissimo.

Il letto era in un angolo, addossato ad una parete bianca di calce, sistemato in modo che Diego, stando coricato, attraverso l’ampia finestra che gli veniva di fronte, potesse osservare un discreto scorcio panoramico del paese ed una grande fetta di cielo...

Era quasi l’imbrunire.

Dalla vicina chiesa di San Sebastiano giungevano nitidi i rintocchi che invitavano i fedeli alla recita dei Vespri allorché in casa del Governatore, avvolti nelle loro assai modeste tonache ricavate da ruvida tela di juta, facevano il loro ingresso quattro frati: fra’ Antonio, guardiano del convento Sant’Elia, fra’ Gesualdo, l’Abate Conone di Naso e, buon ultimo, fra’ Agàpito, il più giovane della comitiva.

Non avevano ancora attraversato il cortile interno del palazzo allorché furono fermati da Donna Caterina che, presto raggiunta ed imitata dal marito, andò loro incontro prostrandosi davanti al frate forestiero.

Quasi in coro, i due afflitti coniugi, con la voce strozzata dal pianto:

- Buon servo di Dio - gli dissero - grazie per essere venuto da noi. E certamente la divina volontà che vi manda... Salvate, per carità, il nostro unico figlio che, paralizzato dalla nascita, lentamente si sta spegnendo in un letto di dolore! -

L’Abate Conone si commosse di fronte a tal sincero dolore e - Figli cari - rispose - confidate in Dio! Pregate... pregate Lui perché vi consoli! Ecco, avete sentito le campane suonare? Correte in chiesa ad ascoltare con profonda e vera fede la Sua parola e per cantare in Suo onore inni di Gloria. Andate a pregare perché soltanto così e mediante il Santissimo Sacrificio dell’Altare, voi potrete ottenere dalla Misericordia di Dio le grazie più elette ed i prodigi più splendidi. -

Il Governatore e sua moglie, senza accusare neppure un attimo di comprensibile titubanza, in modo quanto mai deciso, si alzarono e, con massima sollecitudine e con l’animo pervaso da una nuova speranza, seguiti subito dopo dagli amici frati del Sant’Elia, uscirono per andare in chiesa.

Rimasto solo l’Abate di Naso, come se guidato dalla luce divina, salì l’ampia scala e quando fu sul pianerottolo aprì la porta che immetteva nella stanza di Diego.

Il giovane paralitico giaceva sul letto. Gli si avvicinò e con tono assai suadente gli chiese:

- Giovanotto, perché non ti alzi? Perché non vai anche tu in chiesa a lodare il Signore? I tuoi genitori sono già andati! Vai a raggiungerli! Essi sicuramente proveranno una gioia immensa nel vederti in chiesa. -

Poi, vedendo stupito il giovane:

- Ed allora, cosa aspetti ancora? Alzati, Va! -

Il povero ammalato, a sentir quelle parole pronunziate da quel frate sconosciuto ma dal volto serafico ed assai radioso, avvertiva in cuore un gran turbinio di sentimenti mai provati fin’allora.

Trovò, però, la forza di rispondere timidamente ed in modo assai confuso:

- Non posso muovermi.-  Poi, istintivamente, quasi a conferma di quanto diceva, con repentino gesto, afferrò con la mano destra il lembo del lenzuolo che gli copriva gli arti inferiori e tiratolo di scatto verso il basso, - Vedete - disse -  come sono inerti le mie gambe? Per questo giaccio immobile su questo letto sin dal giorno della mia nascita! -

Il buon servo di Dio, Conone di Naso, alzò gli occhi al cielo e poggiò lentamente le mani su quelle gambe rattrappite dal male. Poi con voce decisa comandò ancora al giovane:

- In nome di Dio Onnipossente e Misericordioso, alzati! - Diego, a quelle parole, sentì uno strano formicolio invadergli tutto il corpo. Poi, animato dalle insistenze del frate che gli ripeteva: - Alzati!..., Alzati!... -, compiendo un grande sforzo spinse le gambe verso l’esterno del letto e dopo aver poggiato i piedi a terra, riuscì a drizzarsi ed a muoversi nella stanza.

L’Abate Conone di Naso rimase immobile, raccolto ancora nella preghiera.

Nel frattempo, quasi a rendere partecipi del miracolo i suoi genitori, Diego, correndo con una sicurezza tale da far pensare che le sue gambe non avessero mai accusato alcun malessere, raggiunse la chiesa satura di incenso, di odore di cera e di quello acre del fumo.

I fedeli, raccolti in preghiera, salmodiavano i vespri.

Il primo ad andargli incontro e ad abbracciano, con le guance rigate di lacrime e col cuore gonfio di felicità, fu Fra’ Agàpito.

E da quel giorno, il buon converso, poté aggiungere alla serie dei suoi racconti anche questo del miracolo che il confratello Abate Conone di Naso, di passaggio da Galatro, si benignò di operare a beneficio del giovane Diego Passalia, paralitico dalla nascita.

E precisava, con malcelato orgoglio, che aveva conosciuto Conone di Naso e che il miracolato era un suo grande amico.



 

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"San Cono e il giovane paralitico (miracolo operato a Galatro)" è tratto dal libro "Racconti" di Umberto Di Stilo, Edizioni Bieffe, 1987

[1]

Conone Novacita - poi semplicemente San Cono - nacque a Naso (Messina) nell’anno 1139 dal conte Anselmo, gentiluomo normanno arrivato in Sicilia ai tempi del Conte Ruggero con la carica di Governatore della città, e dalla no­bildonna Apollonia (o Claudia) Santapau.

Monaco basiliano, già in vita fu autore di numerosi prodigi ed operò guarigioni impossibili. Passò da Galatro attorno al 1220. Si spense -  alla veneranda età di 97 anni!-  nel pomeriggio di Venerdì Santo del 1236.

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