Racconti

di Umberto
Di Stilo

Fra' Benedetto

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Quando Angela Godano si accorse di aspettare il quinto figlio, non ebbe il coraggio di comunicano al marito. Per alcuni giorni si chiuse in un completo mutismo e, lei che solitamente aveva modi garbati e gentili con tutti, divenne scorbutica ed irascibile. Le dava improvvisamente fastidio anche il rumore del Metramo che, sonnacchioso e lento, scorreva in prossimità della sua abitazione e che, in altre circostanze, le era sembrato la dolce nenia di un eterno innamorato.


Il suo pensiero era fisso al figlio che doveva nascere ed al modo come rendere partecipe il marito di quella nuova maternità.


Sapeva che il suo Filippo, uomo fondamentalmente buono e la cui educazione aveva profonde radici cristiane, non avrebbe fatto drammi alla notizia che la famiglia stava per aumentare e che, anzi, avrebbe atteso il frutto del loro amore come un vero dono di Dio.


Era innegabile, però, che un’altra bocca a cui badare avrebbe accentuato la già precaria situazione economica della famiglia.


Quelli, infatti, erano anni difficili per tutti i galatresi giacché il lavoro era abbastanza scarso e le carestie si succedevano l’una all’altra.


A peggiorare la situazione, inoltre, erano intervenute inique disposizioni del Feudatario il quale, noncurante della crisi economica generale, aveva aumentato il focatico e varie altre gabelle, sicché quei pochi ducati che costituivano il modesto reddito familiare, non erano sufficienti neppure a pagare i vari tributi feudali.


Mastro Filippo Manicà, conciapelle per tradizione familiare, alla vigilia delle sue nozze con Angela, figlia unica del defunto Jacopo Godano, aveva ricevuto in dote dal padre una piccola conceria nella quale le pelli fresche ed appena scorticate dalle capre e dalle mucche, attraverso un primitivo ma efficace sistema di trattamento a base di calce viva e di foglie e bacche di mortella ben essiccate, venivano trasformate in cuoio.


I due figli maggiori, Giacomo - di appena dieci anni - e Andrea, - di sette - aiutavano il genitore nella conduzione artigianale di quella piccola conceria. Non che i bambini potessero e sapessero fare molto, riuscivano, però, a rendersi utili svolgendo tutti quei piccoli lavori per i quali non era richiesta né grande esperienza, né molta abilità.


E, cosa assai più importante, cominciavano ad avviarsi, così, a quel tipo di lavoro che avrebbero poi svolto nella vita, visto che, per antica tradizione, tranne rarissime eccezioni, i figli continuavano sempre il lavoro dei padri.


Per questo di generazione in generazione l’arte della concia fu sempre molto diffusa a Galatro ed il commercio delle pelli conobbe periodi abbastanza fiorenti, tanto è vero che, quando mastro Filippo aveva all’incirca l’età del suo figliolo primogenito e già lavorava nel calcinaio paterno, il Principe Massimiliano II per poter aprire una vera e propria scuola di conceria nella sua Praga, trasferì in quella città una nutrita colonia di artigiani galatresi da tutti ritenuti i più esperti in quell’arte.


Adesso i tempi erano cambiati ed anche se gli artigiani galatresi continuavano a primeggiare in quel mestiere antico e particolare, mancavano le richieste di merce finita, non c’era più la commercializzazione delle pelli e le concerie lavoravano a singhiozzo.


Da qui scaturivano le preoccupazioni economiche della moglie di mastro Filippo che la nascita di un altro figlio faceva accentuare.


Aveva da poco superato i trent’anni ma nonostante le quattro maternità, Angela Godano era ancora fresca come una diciottenne.


Sul volto conservava il roseo verginale messo ben in evidenza dal nero degli occhi e dai corvini capelli pettinati a corona e raccolti sulla nuca.


Come tutte le donne della sua condizione sociale, vestiva gonna ampia, ricca di sottilissime pieghe, e aderenti corpini i quali, nonostante i vari rattoppi avessero, spesso, alterato le misure originarie, le modellavano, facendolo risaltare in modo assai evidente, un seno dalle forme ancora perfette.


Quella donna, fresca e bella, orgoglio di mastro Filippo che lavorava come un dannato dall’alba al tramonto per cercare di non farle mancare nulla, suscitava invidia nelle giovani dell’intero quartiere le quali, quando la incontravano al fiume impegnata a fare il bucato, piegata davanti ad una delle numerose grosse pietre che, qua e là, emergevano dall’acqua, non mancavano di guardarla con occhi particolarmente curiosi, quasi volessero scoprire il segreto di tanta genuina bellezza.



Una mattina Angela si fece coraggio e, dopo aver riassettato alla buona la sua modesta casetta, con Maria Itria, la figlia di quasi tre anni, in braccio e Nicola, il terzogenito di appena cinque anni, come sempre aggrappato alla gonna, si diresse verso la vicina chiesa di Santa Maria della Valle.


Sentiva che aveva bisogno di aiuto. Doveva assolutamente chiedere consiglio al suo padre spirituale, l’anziano cappuccino fra' Ottavio da Castelvetere.


Percorse le stradine del quartiere in preda ad un’ansia indicibile.


Dalle casette che, appiccicate l’una contro l’altra e realizzate in fila, quasi per vicendevole protezione, delimitavano le viuzze tutte cosparse di pozzanghere, ogni tanto uscivano bambini coperti soltanto da miseri stracci e, non di rado, anche animali domestici.


Qua e là gruppi di galline razzolavano libere lungo la stradina affossando il becco nel fondo tufaceo reso morbido dalle recenti piogge, alla ricerca di vermiciattoli o, più semplicemente, dei rari avanzi di cibo che la sera precedente da qualche famiglia erano stati buttati fuori.


Dopo aver percorso alcune stradine che incrociandosi fra di loro davano origine ad un vero e proprio dedalo, Angela giunse in una piazzetta angusta, dal fondo acciottolato e, in alcune zone, anche tappezzato da fitti ciuffi d’erba.


Su un intero lato della piazza si affacciava la grande chiesa il cui basso porticato, nelle giornate di pioggia, rappresentava il posto ideale per il riparo dei cittadini.


Costruita solo da alcuni decenni, Santa Maria della Valle aveva la struttura di una basilica.


In alto, al centro della facciata, poco sopra il grande rosone realizzato con alcune diecine di colonnine di marmo, in una nicchia era stata sistemata in modo ben visibile una statua benedicente della Madonna.


La facciata, opera di maestranze specializzate appositamente fatte arrivare dalla vicina Messina, era stata costruita in granito e mattoni, provenienti - questi ultimi - dalle fornaci di contrada Ceramidìo, con moltissimi elementi decorativi in marmo bianco.


Accanto, alta e snella, svettava la torre campanaria con in cima tre grossi bronzi.


La giovane mamma, in preda a mille pensieri, varcò l’ampio portale granitico e, dopo aver spinto la pesante e massiccia porta realizzata con spesse tavole di noce e ricca di artistici altorilievi riproducenti scene della passione di Gesù, appena dentro, istintivamente, immerse la punta delle dita della mano destra nell’acqua benedetta dell’acquasantiera a forma di conchiglia fissata su una colonna, e si segnò in fretta.


Era già stata ultimata la serie delle messe, che quotidianamente venivano celebrate davanti ai vari altari dislocati nelle tre navate del tempio o nelle varie cappelle padronali, e la chiesa appariva deserta.


Inoltre, essendo la giornata quanto mai nuvolosa, l’interno del tempio era in totale penombra. Attraverso i vetri policromi degli ampi finestroni, infatti, il sole penetrava soltanto nei giorni luminosi dell’estate, stagione ancora molto lontana.


Sui vari altari le tremule fiammelle delle poche candele rimaste accese creavano aloni di quella fioca luce che è caratteristica delle chiese.


Davanti all’altare maggiore, un
trittico marmoreo di raffinata bellezza ove, in mezzo a quelle di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista, era posta la statua della Madonna della Valle, pendevano accese anche le due lampade votive ad olio alla fornitura del quale, per antica tradizione, dovevano provvedere gli abitanti del quartiere.


Il tempio, dopo i canti e le laudi che qualche ora prima erano stati innalzati al Creatore, era piombato nel più assoluto silenzio. Un silenzio che invitava al raccoglimento.


Un anziano sacerdote era inginocchiato innanzi all’altare del Santissimo.


Non fu necessario che la donna lo chiamasse. Il piccolo Nicola, infatti, correndo da una parte all’altra della chiesa aveva rotto quell’atmosfera di profonda pace attirando la sua attenzione.


- Padre Ottavio, devo parlarvi. - Disse Angela Godano, stringendo la figlioletta al petto, quando gli fu vicina. E poi: - Consigliatemi, Vi prego... -


- Vieni, figliola, apri il tuo cuore a Dio. Dimmi: cos’è che ti turba? - Chiese il cappuccino con voce suadente e serena.


- Padre, aspetto il quinto figlio e coi tempi tristi che stiamo vivendo ed il pochissimo lavoro che c’è, non so se comunicare la cosa a mio marito con sconforto oppure se conviene dirglielo con la gioia che comporta la nascita di un altro figlio...


- Certo che questo quinto figlio non lo vorrei proprio... Siamo già in troppi!... -


- Sia Benedetto il frutto del tuo seno... - Recitò il padre cappuccino con voce decisa e chiara, quasi per interrompere quel dissennato discorso che stava per fargli Angela. Poi aggiunse: - Va’, torna a casa, figliola, e stasera, quando il tuo sposo rientra dal lavoro, accoglilo con un sorriso sulle labbra e digli che nella vostra famiglia il Padre Celeste ha voluto aggiungere ancora un frutto del vostro amore. Va’, figliola, e ricordati che per ogni figlio che nasce la Provvidenza è sempre più concretamente vicina. Va' - concluse fra’ Ottavio - e che tuo figlio sia Benedetto! -


Adesso ad Angela sembrava di percepire un lontano ma melodioso coro d'angeli. Dalle canne dell’organo, infatti, quasi come per miracolo, il delicato motivo di un canto gregoriano si spandeva per tutta la chiesa contribuendo a rendere più sereno l’animo della giovane madre che, tenendo i figli per mano, assai distesa, lasciava il tempio per tornare a casa.


I mesi della gravidanza passarono in fretta.


Ai multicolori e delicati fiori della primavera fecero seguito gli abbondanti e saporiti frutti dell’estate e, poi, anche quelli dell’autunno.


In quest’ultimo periodo le donne del quartiere Santa Maria aiutavano di buon grado Angela nelle fatiche domestiche.


Giunse anche il freddo dicembre e man mano che si avvicinava il giorno del parto la giovane donna era sempre più al centro delle attenzioni delle sue vicine di casa. Queste, infatti, sapendo che Angela da qualche anno aveva perduto la madre e che in tutta la sua parentela non c’era una sola donna che potesse starle vicino per aiutarla in quei momenti di trepidante attesa, face vano a gara, nell’ammirevole intento di potersi rendere utili ed evitarle tutti i lavori pesanti che, quasi quotidianamente, doveva affrontare nell’ambito della famiglia.


Sicché c’era chi provvedeva al bucato e chi, a turno, non si sottraeva all'incombenza di andare al mulino a macinare il grano per poi procedere alla panificazione della farina ottenuta.


Mastro Filippo, da parte sua, trascorreva in casa quasi l’intera giornata, seduto accanto al focolare in compagnia dei figli e della moglie per la quale aveva mille premure ed alla quale si sostituiva volentieri anche nell’assistenza dei cibi in cottura.


D’altra parte, in quel periodo, le continue piogge gli impedivano di lavorare nel calcinaio giacché essendo esso all’aperto, come la maggior parte di quelli esistenti alla periferia del paese, lungo la riva sinistra del Metramo, era impossibile procedere alla calcinazione delle pelli.


Nella chiesa di Santa Maria della Valle ed in quella parrocchiale di San Nicola, - così come in tutte le altre chiese del villaggio - già da alcuni giorni erano stati celebrati i sacri riti del Natale allorché in un pomeriggio in cui la furia degli elementi sembrava volesse lasciare, ancora una volta, il suo segno sulle povere abitazioni del paese, Angela informò il marito che il momento era giunto.


Mastro Filippo con scuse assai banali accompagnò in casa di vicini i suoi quattro figli e, subito dopo, chiamò quelle due donne che da tempo si erano dichiarate disposte a prestare l’aiuto e l’assistenza necessaria alla partoriente.


Il vento fischiava tra gli olivi che maestosi si ergevano sulla bianca collina di Orbellico e piegava i rami spogli dei gelsi che numerosi e fitti crescevano negli orti lungo il letto del Metramo e del Fermano torrenti che, avendo aumentato a vista d’occhio la loro portata d’acqua, costituivano una seria minaccia per tutti.


A tratti, inoltre, al vento si univano violenti rovesci di pioggia che facevano peggiorare la già precaria situazione dei fiumiciattoli che, più o meno pericolosamente, scorrevano tutti nei pressi dei vari quartieri in cui era diviso Galatro.


In quel pomeriggio di fine dicembre, Angela, nel mettere al mondo la sua quinta creatura - nonostante il trambusto creato da comare Ortensia e da comare Serafina, le due vicine di casa che erano andate ad assisterla e ad aiutare Donna Ofelia, l’ostetrica del paese - riusciva a percepire nettamente il rumore cupo dell’acqua del Metramo che veloce, e più minaccioso che mai, fluiva verso il mare. Ed aveva paura.


Non tanto per sé, quanto per il figlio che, sempre più prepotentemente, sentiva nascere dalle sue visceri.


- Gesù mio - pensava tra un dolore e l’altro del travaglio - aiutami a mettere al mondo questa creatura e preservala da ogni male. -


Il rombo assordante di un tuono impedì a mastro Filippo che, trepidante, nella stanza accanto a quella della moglie, provvedeva a mantenere vivo il fuoco su cui bolliva un pentolone d’acqua, di percepire il primo vagito, subito sfociato in pianto, della sua creatura a cui la madre, ricordando le parole che circa nove mesi prima aveva pronunciate l’anziano fra’ Ottavio, volle che le venisse imposto il nome di Benedetto.


                                        
               * * *


Per i componenti la famiglia Manicà non era cosa insolita, dopo il tramonto, dover andare a trovare Benedetto che lungo le viuzze del rione si attardava a giocare insieme con un ben assortito gruppo di suoi coetanei o, cosa assai più probabile, andarlo a chiamare nella chiesa del convento ove, spesso, si recava ad assistere alle sacre funzioni dei vespri per poi intrattenersi ad ascoltare l’anziano Padre cappuccino che, insieme ad altri frati, nell’angusta ma ordinata sacrestia raccontava ai piccoli fedeli le parabole di Gesù e vari episodi del vecchio e del nuovo testamento.



Benedetto, più di ogni altro componente il ben assortito gruppetto, subiva il fascino di quei racconti e, seduto su una panca, coi gomiti poggiati sulle ginocchia e le guance tra le palme delle mani, ascoltando attentamente, non staccava lo sguardo dal serafico ed espressivo volto del Padre Guardiano.


Benedetto era un bambino assetato di sapere per cui voleva conoscere tutto fin nei più piccoli particolari chiedendo sempre e non stancandosi mai di ascoltare

Stava in silenzio, attento a quel racconto, finché il padre, stufo di aspettare che rientrasse a casa, andava a cercarlo e, irrompendo in sacrestia, troncava bruscamente quei momenti di completo interesse del ragazzo per le sacre scritture e per la storia dei santi e di San Francesco in particolare.



E mentre il Padre Guardiano ed i suoi confratelli assecondavano quell’interesse, mastro Filippo ripeteva ogni sera, con tono monotono e palesemente canzonatorio: - Mi raccomando, istruitemelo bene il giovanotto, cosi da grande lo faremo Vescovo! -


- Non dipende, certo, né da me tantomeno da voi. - Replicava il cappuccino.


Poi, alzando lo sguardo al cielo ed allargando le braccia: - Ma se questo è il volere del nostro Padre Celeste, sia fatta la Sua volontà...! -


-         Si... si... Vescovo e Papa... - borbottava mastro Filippo che, intanto, preso il figlio per mano, guadagnava l’uscita seguito, subito dopo, da tutti gli altri ragazzi, suoi vicini di casa.


Benedetto, contrariamente ai suoi fratelli, non era nato per fare il conciapelle. Il calcinaio del padre, grazie anche alla solerte ed esperta collaborazione dei fratelli Giacomo ed Andrea, ormai adulti, si era ingrandito di parecchio e le vasche per la concia si erano moltiplicate.


D’altra parte, in vista dei matrimoni dei propri figli, mastro Filippo, secondo una ormai secolare tradizione, aveva dovuto pensare alla dote da dare ad ognuno di loro. Benedetto, però, non voleva saperne della concia delle pelli e la mattina quando il padre ed i fratelli, dopo averlo tirato a forza giù dal letto, cercavano di indurlo ad andare con loro in contrada “Cocinara” per aiutarli nel lavoro, trovava mille scuse per restare a casa e, spesso, si rincantucciava in un angolo e scoppiava in un pianto dirotto affermando che non andava ad aiutarli e ad apprendere il mestiere perché lo strano e nauseabondo odore emanato dalle pelli gli faceva venire il voltastomaco.


E piangeva fino a quando la mamma, mossa a compassione, interveniva per convincere il marito ed i figli a lasciarlo con lei.


A casa, però, restava ben poco.


Appena, infatti, si accorgeva che il padre ed i suoi fratelli, svoltato l’angolo, scomparivano in fondo alla stradina della piazza, salutava la mamma e, cosi come ormai puntualmente si ripeteva da diversi mesi, si dirigeva al di là del Metramo ove, nel quartiere di San Nicola, più a monte della chiesa parrocchiale omonima, in una zona ricca di verde e soprastante l’intero abitato, da poco meno di un decennio i padri cappuccini, col contributo di tutti i cittadini e con le elemosine raccolte nei paesi della zona, su un terreno che gli stessi galatresi avevano appositamente acquistato da Don Robino Minniti, da mastro Petruccio Ritorto e dalla signora Giulia Giuliano, avevano costruito il convento della “Sanità”. [1]


A quel tempo i monaci presenti a Galatro non erano in numero sufficiente ad occupare le sedici celle realizzate nel nuovo monastero.


C’era, però, un Padre Guardiano, Fra’ Carlo da Nao, che ben coadiuvato da tre confratelli sacerdoti e da altrettanti laici professi, era riuscito a creare attorno al nuovo convento un alone di interesse, di simpatia e di profonda spiritualità da richiamare quotidianamente, nell'annessa chiesetta dedicata a Santa Maria della Sanità, un gran numero di fedeli, per la maggior parte giovani e ragazzi. Tra questi Benedetto Manicà era il più assiduo. Frequentando il convento ben presto apprese a leggere ed a scrivere e, sotto la guida paziente, saggia ed illuminata del Padre Guardiano, poté accostarsi con profitto anche allo studio delle lettere ed alle prime nozioni di teologia. Il ragazzo, dotato di viva intelligenza e spinto da un interesse sempre crescente, apprendeva in fretta.


Man mano che andava avanti nello studio, inoltre, nel suo animo prendeva sempre più consistenza la determinazione di intraprendere la via del sacerdozio. Questa sua decisione ben presto dovette parteciparla al padre che, per quanto credente, inizialmente rifiutava l’idea che suo figlio assecondando una sincera vocazione, potesse avviarsi alla vita ecclesiastica o, peggio, monastica.


Non così, invece, la madre che, dimostrando forte tempra e facendo propria una spicciola filosofia paesana, quasi meccanicamente andava ripetendo che quanto è stabilito da Dio non può essere ostacolato dalla volontà dell’uomo.


Aveva circa diciotto anni Benedetto quando, già novizio, per completare gli studi di teologia, su indicazione dei cappuccini galatresi che, a detta di loro stessi, avevano ormai ben poco da insegnargli, varcò il portone del seminario vescovile di Mileto.


Dalla lettera di credenziali redatta dal padre guardiano del convento e sottoscritta dal parroco, il vescovo mons. Giovan Mario De Alessandris, uomo assai dotto, apprese che il giovane Benedetto aveva fatto dell’obbedienza, nonché dell'osservanza delle Regole e degli Statuti claustrali, il suo fondamento di vita.


Negli anni di Mileto, Benedetto fu sempre esempio per tutti i seminaristi e quando, nel maggio del 1590, dopo che mons. Marco Antonio del Tufo gli impresse il sacramento dell'ordine sacerdotale ritornò nella sua Galatro, per il seminario fu una grande perdita.


Andò subito ad aiutare, nella delicata quanto difficile opera di apostolato, i cappuccini e, dopo una breve permanenza tra i confratelli che sull’altipiano di Cubasina da diversi decenni abitavano il vecchio ed ormai cadente “Sant’ Elia” già per secoli cenobio basiliano, prese parte alla vita monastica del convento della “Sanità”.


La presenza di Fra’ Benedetto diede subito lustro ed importanza al convento galatrese. Inoltre le spiccate qualità umane, la disponibilità verso gli altri, la dolcezza nei modi, ben presto fecero di Lui il monaco più conosciuto e più apprezzato dell’intera provincia cappuccina.


Alto come una pertica e di fisico assai asciutto, appariva ancora più magro quando, smesso il saio, in compagnia di alcuni confratelli ed in osservanza al principio del “prega e lavora”, scendeva nell’orto limitrofo al Fermano per effettuare umili lavori di campagna. Quando si spostava da un quartiere all’altro del paese era sempre attorniato da frotte vocianti di ragazzi che lo seguivano volentieri e per i quali il buon Benedetto aveva sempre una raccomandazione da fare o una parabola da raccontare.


Incarnava in modo assai completo lo spirito di fraternità e di povertà di San Francesco ed era sempre accanto al letto dell’ammalato, al capezzale del morente, a chi avesse bisogno di un aiuto materiale, oltre che spirituale.


Sapeva di medicina, di astronomia e di scienze e non di rado, preparando e somministrando decotti e tisane a base di erbe, riusciva a curare ammalati gravi ed a frenare violente emorragie. Era dotato, insomma, di qualità e di capacità che non sono prerogativa degli esseri umani.


Predicatore forbito, tenne più volte il pulpito della cattedrale di Mileto ed al Capitolo di Nicotera andò ad illustrare alcuni importanti trattati teologici.


Come predicatore fu invitato anche nei piccoli paesi in occasione della Quaresima, della festa del Santo Patrono o dei Santissimi Apostoli.


Usava un linguaggio facile perché tutti capissero il suo discorso.


A tal proposito spesso ricordava che suo padre, nel giorno della festa, quando dopo la solenne cerimonia di mezzogiorno tornava a casa, era solito sottolineare, quasi sempre brontolando, che a causa delle troppe frasi latine con le quali era stato arricchito il discorso del predicatore, non tutto quello che aveva ascoltato era stato per lui accessibile e, quindi, di facile comprensione.


La permanenza di Fra’ Benedetto nel convento galatrese si protrasse per diversi anni; in questo periodo fu sempre vicino ai bisognosi, ai poveri ed ai bambini e personalmente somministrò il viatico ai suoi genitori.


Prima in quello di Galatro e poi in altri conventi, fu maestro dei novizi, incarico che svolse con assoluta dedizione ed altrettanta umiltà prodigandosi a dimostrare coi fatti, prima ancora che con le parole, come l’obbedienza, per chi ama e vuole servire fedelmente Dio, sia la più importante delle qualità.


Nel 1608 fu nominato Guardiano del convento di Grotteria e in tutta quella zona acquistò ben presto fama di essere dotato di poteri soprannaturali per cui i fedeli guardavano a lui come ad un nuovo Poverello di Assisi.


Tra un prodigio e l’altro il tempo volava e le sue primavere, fra’ Benedetto, cominciava a mostrarle tutte. Già qualche pelo della fluente barba era diventato bianco ed anche in testa mostrava qua e là spruzzi di candida neve.


Quel che colpiva maggiormente, della figura del frate galatrese, però, era lo sguardo dolce e penetrante ad un tempo. Così penetrante da riuscire a leggere nelle coscienze delle persone che gli si trovavano davanti. Leggeva nell’animo dei fedeli che lo avvicinavano e prim'ancora che essi avessero esposto i loro problemi, egli dava la più rassicurante delle soluzioni, sempre accompagnata da un sorriso e, non di rado, anche da una paterna pacca sulle spalle.


Per potergli parlare da tutti i villaggi della valle del Torbido, quotidianamente, giungevano al convento diecine di fedeli, molti dei quali, su modeste cavalcature, portavano ammalati da fargli visitare o, più semplicemente, venivano a pregarlo di intercedere per loro presso il feudatario del luogo che li immiseriva sempre più col continuo aumento dei pesi sul macinato.


Grazie al suo carattere dolce ed alla sua completa disponibilità verso il prossimo, il cappuccino galatrese ben presto divenne il punto di riferimento per tutti i credenti della zona.


Ovunque si parlava di lui per cui ben presto i Marchesi di Grotteria chiesero ed ottennero, da Roma, che fosse proprio lui il loro confessore ordinario.


E fra’ Benedetto accettò quel nuovo incarico con la sua solita umiltà.


Sicché in più d’una circostanza, sentendosi sempre indissolubilmente legato ai più bisognosi, approfittò di quell’incarico di fiducia che gli apriva le porte dell’abitazione marchesale, prim'ancora che l’animo dei suoi nobili proprietari, e con opportuni consigli ed ammonizioni, riuscì ad intercedere concretamente in favore della popolazione le cui difficoltà di vita erano completamente sconosciute all’interno di quel palazzo nel quale, per contro, il benessere si toccava a piene mani.


I discorsi pacati e convincenti dell’umile cappuccino galatrese riuscivano a smuovere principalmente il cuore della marchesa la quale, in più d’una occasione, ordinò ai suoi domestici che provvedessero ad effettuare della beneficenza distribuendo alle famiglie del villaggio abbondanti razioni del frumento e dei cereali che annualmente venivano ammonticchiati nei granai del palazzo.


Altre volte Fra’ Benedetto corse a sedare le lotte tra famiglie, riuscendo ad evitare che quegli atti di violenza potessero avere serie e luttuose conseguenze.


Svolgeva la sua cristiana missione di amore tra le famiglie di Grotteria, villaggio che, abbarbicato su un costone di montagna, era abitato quasi interamente da contadini e da pastori. Umile gente che aveva trovato nello smilzo cappuccino il sincero amico, il medico appassionato e scrupoloso nonché il paziente confessore.


                                            * * *


Il caldo afoso appiccicava addosso ai contadini, impegnati nei duri lavori stagionali, i loro laceri e miseri indumenti; le cicale frinivano sugli olivi e sui fichi delle vaste campagne circostanti il villaggio; le rondini, come impazzite dal sole cocente, volavano basse sfiorando le cime degli alberi e disegnando sui tetti delle abitazioni complicati ghirigori, poi, garrendo come non mai, in cerca di refrigerio si allontanavano imboccando la direzione della montagna, ricca di fitte faggete e, più in cima, di pini e di abeti.


Era da poco passato mezzogiorno.


Madido di sudore, dopo aver percorso lo stretto sentiero che dal paese, tra fitti ciuffi di gialla ginestra e cespugli di erica, conduceva fino in cima alla collina, Serafino, uno dei servi della casa marchesale, bussava ripetutamente e concitatamente alla porta del vecchio convento.


- Padre Benedetto, padre Benedetto... - chiamava. E quando da dietro lo spioncino della grande porta intravide il volto rugoso del vecchio frate Agesilao, prima che questi potesse chiedere cosa volesse, l’ansante Serafino riprese a dire: - C’è assoluto bisogno dell’intervento di Padre Benedetto... Deve scendere subito in paese. . . E improvvisamente morto il marchesino Agazio... -


Donna Livia Grillo, marchesa di Grotteria, dalle sue nozze col nobile Giovan Giacomo Cicala di Gerace, aveva avuto un unico figlio, Agazio, che ora, giunto all’età di circa dieci anni, era deceduto in seguito ad improvviso e grave malore. Non c’era stata malattia né altre avvisaglie che avessero potuto far presagire il luttuoso evento. La cosa era stata tanto repentina che la sventurata mamma non aveva neppure fatto in tempo a ricorrere a qualche urgente rimedio, né aveva potuto far intervenire un medico.


Agazio si era alzato dal letto allegro come un usignolo. Poi un leggero quanto improvviso dolore al ventre seguito prima dallo intorpidimento di un braccio e poi da febbre altissima, aveva messo in allarme, quella mattina, la marchesa che, nel volger di pochi minuti, e prima che potesse rendersi conto di quanto stava accadendo, si venne a trovare col cadavere del figlio tra le braccia.


- Aiutami, mamma!.. .Aiutami!.. Mi sento soffocare... - le diceva il giovanissimo Agazio mentre gli occhi, già luminosi e grandi, si spegnevano sempre più. Nessun aiuto poté dare alla sua creatura Donna Livia che, in quel caldo mattino di agosto, improvvisamente si vide crollare il mondo sotto i piedi.


La notizia di quella disgrazia, nel volger di pochi minuti, fece il giro del villaggio sicché, lentamente, gli abitanti si strinsero attorno alla sventurata madre che straziata dal dolore piangeva la morte del figlio. La giovane marchesa non sapeva darsi pace e, tra le lacrime, chiamava per nome il figlio, lo carezzava e, mentre il volto esangue diventava sempre più freddo, lo pettinava facendo passare le dita della mano tra quei capelli di seta. Inoltre, tra un singhiozzo e l'altro, decantava le doti e le buone qualità del ragazzo.


Il pianto accorato della mamma commosse tutta la servitù e gli amici che nel frattempo, in gran fretta, erano giunti al palazzo per partecipare al lutto.


Ben presto la stanza si riempì di umile gente e le pareti risuonarono del pianto accorato della marchesa a cui, subito fecero eco moltissime altre donne. Più volte Donna Livia perse i sensi e svenne accanto al letto su cui giaceva esanime la sua creatura.


La meridiana fissata sul muro esterno del palazzo marchesale indicava che da tempo era già trascorso il mezzogiorno allorché, mentre i gemiti ed i singhiozzi in quella grande stanza echeggiavano sempre più, improvvisamente la folla che si era via via radunata davanti a quel lettino-catafalco, si aprì in due ali per lasciar passare Fra’ Benedetto che difilato ed ansimante arrivava dal convento.


Tra l’unanime curiosità l’anziano cappuccino si avvicinò al cadavere, lo toccò, gli passò più volte la mano sulla fronte e poi, inginocchiatosi ai piedi del letto, brevemente si raccolse in preghiera.


Pregavano, adesso, anche le donne presenti nella stanza che, per non disturbare il frate, sembrava volessero trattenere anche il respiro.


Tra esse c’era chi, assorta nella preghiera, col volto tra le mani, aveva piegata la testa verso il pavimento fatto di tavole; chi, chinata in avanti fino a disegnare col corpo un arco, con la mano destra chiusa a pugno si percuoteva il petto, quasi a rendere più sentita e più partecipata la propria preghiera.


Anche Donna Livia aveva smesso di piangere e seguiva attenta i movimenti dell’anziano cappuccino. Furono attimi interminabili.


Poi, alzatosi quasi di scatto, Fra’ Benedetto si avvicinò alla Marchesa e in modo quanto mai deciso e con tono di rimprovero, le chiese:


- Perché piangete per morto il Marchesino, se egli è vivo? -


Donna Livia che, impietrita dal dolore, ormai da alcune ore, stava sprofondata su una poltrona accanto al corpo del figlio, nel sentir quelle parole, si girò e, con sorpresa, gli rispose: - Come mai affermate che è vivo, o Frate, se io ormai da ore lo vedo qui, davanti a me, esanime e freddo, e come morto lo veglio? -


Fra’ Benedetto si accostò, quindi, ancor di più al letto, fiatò forte in prossimità della bocca del morto e poi, scuotendo il cadavere: - Agazio!... Agazio!... - esclamò - In nome di Dio svegliati e ritorna in braccio a tua madre che ti piange! -


Adesso nell’ampia stanza diecine di persone avevano fissi gli occhi su quel corpo che nella rigidità della morte stava disteso sul bianco lettino. E tutte rimasero sbalordite dalla meraviglia allorché ebbero la fortuna di vedere Agazio aprire gli occhi, atteggiare le labbra ad un sorriso e subito dopo tendere le braccia in avanti ed alzarsi a stringere la mamma in un abbraccio che la rasserenava.


Il silenzio che nella stanza ed in tutto il palazzo aveva regnato profondo sin dall’apparire dell’anziano cappuccino galatrese, fu allora rotto da uno spontaneo quanto altissimo grido: “Miracolo! Miracolo!”.


E nel pronunciar quelle parole tutti istintivamente caddero in ginocchio davanti a Fra’ Benedetto che, intanto, imboccava la porta d’uscita per far ritorno al convento.


Agazio tornò subito ai suoi giuochi preferiti giacché tra lo stupore generale nulla ricordava di quel suo temporaneo viaggio, e breve permanenza, nel mondo dell’al di là.


Sull’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Grotteria, per iniziativa della Marchesa Donna Livia, un dipinto - raffigurante San Francesco che presenta alla Vergine Maria il resuscitato fanciullo ridente e gioviale - ha testimoniato nei secoli lo straordinario avvenimento che ha avuto per protagonista l’umile frate galatrese.


Successivamente Fra’ Benedetto, che per gli innumerevoli miracoli operati si guadagnò l’appellativo di Taumaturgo, fu chiamato dai principi di Maida che lo vollero come loro confessore, sicché pur se ormai avanti negli anni ed un po' acciaccato nel fisico, il cappuccino si trasferì nel convento di quel villaggio.


Fu instancabile servitore di Dio ed anche se gli anni e le precarie condizioni fisiche aggravate dai continui digiuni avrebbero dovuto sconsigliarglielo, l’umile cappuccino volle svolgere la sua missione di fede e di amore andando a predicare il Vangelo non solo tra i cittadini di Maida ma anche tra quelli dei casali di Jacurso, di Cortale, di Curinga...


Aveva superato i settant’anni soltanto di qualche primavera allorché nel novembre del 1637
[2], in una notte in cui, esattamente come quando venne alla luce, la violenza dell’acqua e la furia del vento sembravano volessero squassare la terra, il sant’uomo si spense serenamente a Maida, tra il rimpianto generale dei suoi confratelli coi quali, fino alla fine, volle essere vicino con l’esempio e coi suoi illuminati ammaestramenti.


Quella notte i sacri bronzi di tutte le chiese di Galatro, inspiegabilmente da sole e tutte insieme, con un lungo ed argentino scampanio a festa, svegliarono i cittadini del luogo, quasi per annunciar loro il ritorno al Padre Celeste dell’umile e santo Fra’ Benedetto.

Note:  

[1]

Per l’anno di costruzione del convento ho ritenuto esatta la data riportata nella relazione del 1650, secondo la quale la sua fondazione si fa risalire al 1565. (cfr.: Arch. Generale O.F.M. Capp., Arm. A, 1V, 17, Reggio, folio 9r). C’è da notare, però, che nella stessa relazione i suoi redattori sono incorsi in un grossolano errore giacchè nel 1565 non era ancora vescovo di Mileto mons. De Alessandris che, invece, lo diventerà nel 1573. Secondo gli storici Fiore, Securi, Taccone Gallucci e Padre Russo, il convento è stato costruito nel 1582. La chiesa annessa al convento risulta consacrata da Mons. Marc'Antonio del Tufo il 20 giugno 1599.

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[2]

Secondo il Fiore che, per essere stato “Provinciale” dei Cappuccini, ebbe modo di consultare tutte le “cronache” esistenti negli archivi dei diversi conventi calabresi, il cappuccino galatrese Fra’ Benedetto mori nel 1638.

L’annalista Padre Pellegrino da Forlì lo registra morto nel 1636.

In un manoscritto inedito, conservato presso l’istituto storico dei Cappuccini, la morte di Fra’ Benedetto è datata 1637. (Cfr.: G. 102 XIII f 8 e segg.). Istintivamente ho accettato, facendola mia, quest’ultima data.

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