IL MIO NATALE

Poesia del Natale [1]
 

di Umberto Di Stilo

     R icorderò sempre una sera di Natale a Milano.

Piovigginava: una leggera nebbia invadeva le vie quasi deserte e rendeva scialba e triste la luce dei lampioni; il freddo umido penetrava fino al midollo delle ossa e spingeva ad affrettare il passo, quantunque la mota del selciato untuosa, saponacea, impedisse di camminare spediti.

A metà di via Torino, tutto ad un tratto, ecco i suonatori ambulanti che si mettono a suonare sul marciapiede la ninna-nanna di Natale...  Sentii una commozione così improvvisa e così forte che dovetti fermarmi; gli occhi mi si empirono di lacrime...

Il riudirla a tanta distanza dall’isola nativa e quando meno me l’aspettavo, mi aveva prodotto l’im-pressione di un trasporto miracoloso, simile a quelli che avvengono nelle fiabe per opera di un mago o di una fata...”.

Così, in una pagina de  “L'Isola del sole”,  Luigi Capuana descrive una malinconica sera di Natale nella capitale lombarda. Lo scrittore siciliano, con la sua tipica, concisa espressività, cogliendo ed esprimendo poche impercettibili sensazioni, mette in rilievo la poesia ed il senso di ineffabile dolcezza che la più grande festa cristiana, da sempre, infonde in tutti i cuori.

Ogni anno a dicembre un’atmosfera nuova si sente nell’aria che preludia alla festività imminente. E’ una sensazione di attesa che va unita alla letizia.

In questo clima di aspettazione gioiosa si dimenticano le angustie e gli atteggiamenti pessimistici (propri del popolo calabrese) per un ottimismo salutare. 

E’ memoria degli anziani che, una volta, nelle case dei galatresi, il capo famiglia, con sentenziosa saggezza, ai suoi familiari raccolti attorno alla vivace fiamma del ceppo, ricordava  il proverbio antico:

“Prima Natali no’ friddu e no’ fami;

doppu Natali lu friddu e la fami...”

Al freddo della prima nevicata si accompagnavano le sensazioni “natalizie” di gioia e di attesa. Non di rado le cime dell'Etna, della Sila e dell'Aspromonte, già a metà dicembre, s’incappuc-ciavano di bianco; per le vie bagnate e solitarie passavano i pochi viandanti intabarrati e freddolosi; dalla montagna scendevano i ciaramellari a passo lento e cadenzato. Le loro caratteristiche sagome caracollanti s’intravedevano in lontananza con quell'otre gonfio che dondolava sul ventre...

Aria di Natale!

Spesso nel silenzio di una fredda alba invernale non si sentiva che il gocciolare ritmico dell’acqua dai tetti ed il fischio basso e lontano del vento di tramontana lungo le convalli appenniniche; all’improvviso il suono di una ninna-nanna fievole per la lontananza si levava in quel silenzio, suono caro alla fanciullezza, dolce e querulo insieme...

Voce di Natale!

La “voce” natalizia della mia infanzia e della mia gioventù apparteneva all’unico zampognaro galatrese: “Cicciuni” (Francesco Sibio) e all'esperto suonatore di zufolo (‘a pipita) “Cheli ‘a morti” (Michele Valenzise). Insieme, ogni anno, rallegravano il paese con le loro caratteristiche nenie. 

            Sibio e Valenzise erano boscaioli ed il loro particolare lavoro li costringeva a vivere in montagna. In paese, ove avevano casa nella parte più alta della sezione Montebello, scendevano abitualmente solo in occasione della festa patronale e nel periodo natalizio quando, nell’immaginario collettivo dei bambini, quasi per incanto, i suonatori del presepe si animavano e prendevano le sembianze di quei due umili carbonai che, a quei tempi, erano la voce del Natale galatrese.

 A volte, quando il lavoro li tratteneva fino al tardo pomeriggio nelle modeste capanne di frasche di contrada “La Gudi”, iniziavano a suonare appena fuori dalle loro abitazioni ed il tipico suono di quei rustici e caratteristici strumenti, spinto dal vento che spesso soffiava tra le convalli, nitido si cominciava a sentire in paese sin da quando i due suonatori arrivavano ai “ddu’ viali”.

Era la voce della festa che scendeva dalla montagna quasi a testimoniare che negli ambienti più poveri e più umili la grande ricorrenza dicembrina era avvertita e vissuta con grande partecipazione interiore.

Ogni anno, in ogni caso, queste due tipiche figure di suonatori, per diversi lustri, appena dopo il tramonto, avvolti in mantelle consunte e sdrucite e con in testa un vecchio cappello di feltro, scendevano dalla loro casa posta quasi in cima alla bianca collina di Montebello e, uno soffiando fiato nell’ancia della “pipita” e l’altro col volto paonazzo e con le guance tese ed arrotondate dall’ininterrotto sforzo sostenuto per tenere sempre riempito di fiato il suo otre, attraversavano tutte le vie del paese seguiti da un codazzo di bambini.

Al mattino, quelle querule note, prima di accompagnare la funzione religiosa della parrocchia della Montagna, costituivano il sottofondo musicale per quanti, di buon’ora, si alzavano per andare in chiesa a partecipare alle pratiche religiose della “Novena”, per quanti si apprestavano ad andare a praticare l'uccellagione abusiva ('a riti) nella speranza di tornare a casa col carniere pieno di tordi (marvizzi) e fringuelli (spingiuna) e per quanti si apprestavano ad iniziare la giornata lavorativa con il pensiero rivolto alla grande festa cristiana.

Li udì anche il Pascoli i ciaramellari che, incappucciati, scendevano dai Peloritani ed invadevano le case di Messina di una fresca armonia:

Sono venute dai monti oscuri

  le ciaramelle senza dir niente

  hanno destata nei suoi tuguri

tutta la buona povera gente.

A Galatro, così come nella quasi totalità dei paesi della zona, da diversi anni,  la novena di Natale ha perduto la sua più classica e tradizionale voce.  Dalla seconda metà degli anni cinquanta, inoltre, da quando il fenomeno migratorio ha spopolato sempre più il paese e da quando non esiste più il complesso bandistico, nei giorni della Novena, si avverte la mancanza di quei musicanti che, quasi per un obbligo morale verso i concittadini, ogni sera ed ogni mattina, giravano per le vie del paese suonando musiche e nenie natalizie.

Molte delle tradizioni che la nostra civiltà contadina ha legato alla festività natalizia sono quasi del tutto scomparse, cancellate dalle più moderne espressioni del nostro tempo e dal consumismo sempre più imperante e sfrenato.

Forse per questo c'è chi sostiene  che il Natale non si sente più come una volta, che il ritmo razionalizzato della vita moderna non concede soste, non consente nemmeno di dedicare serenamente un po' di tempo alla attesa della Natività; non consente più alla quasi totalità degli uomini di dedicare un poco di poetico abbandono alla contemplazione del presepe, all’ascolto delle ninne-nanne ed al canto degli inni al Bambinello.

Generalmente si conclude con la constatazione che, come le altre feste dell’anno, anche il Natale tende a scomparire. Ciò perché gli uomini, perduto gran parte del sentimento di un tempo, non sanno e non riescono più a commuoversi all’avvicinarsi della festa e non si sognano neppure di preparare con francescana pazienza il presepe in un angolo della casa dove un tempo si riuniva tutta la famiglia per recitare la Novena e passare la notte della Veglia.

Dicono pure che la ricorrenza festiva, nei pochi ambienti in cui è sopravvissuta, appare sotto un aspetto tanto trasformato da non riconoscersi più in quella tradizionale: una volta l’anima della festa era il presepe ornato di muschio e di alberelli, di gruppi di pastori colti negli atteggiamenti più spontanei e l'immancabile cometa, guida dei magi nel loro viaggio. Ora è l’albero di Natale, un bel pino che non necessita della premura di andarlo a trovare in montagna perché si rinviene in negozio già bell'e confezionato e alle proporzioni desiderate.

Quanto più poetico ed espressivo il tradizionale presepe!

Non solo il rappresentare in miniatura scorci e scene che vivono palpitanti nella fantasia costituisce uno stimolo alla sensibilità plastica ed accresce la letizia dell’attesa, ma perpetua una delle tradizioni più belle e pittoresche; tradizione che, nonostante tutto, come tutte le cose belle, non deve morire, anzi sulla scia  dei vari “revival” in questi ultimissimi anni, sembra proprio che anche il presepe stia tornando di moda.

L'albero costellato di luci e lampadine, sferette lucenti, ingemmate di ninnoli e candeline, ha anch’esso una certa bellezza e suggestione, è anche esso simbolo della festività di dicembre, sebbene non sia una tradizione cattolica (deriva da riti religiosi nordici).

Forse sono particolarmente i tempi che consigliano il secondo, più sbrigativo e meno ingombrante espediente per portare il Natale nelle case moderne; i tempi di oggi che a fatica vedono raccolta tutta la famiglia attorno al classico focolare o attorno al presepe per aggiustare il pastorello di terracotta e collocarlo sulle stradette cosparse di sabbia o a disporre, con scrupolosa sollecitudine, il bue e l’asinello dietro il Bambinello.

D'altra parte è davvero povero e dimenticato, privo della sua caratteristica migliore, un presepe davanti al quale i nipotini ed i nonni, i genitori ed i figli, non cantino -come ai tempi antichi- le ninne-nanne al Redentore neonato.

A Galatro, come in moltissimi altri paesi della zona, alla festività natalizia si cominciava a pensare sin dalla fine di novembre. Ancora oggi, infatti, c'è chi ama ricordare che:

                            “Sant’Andria portò la nova

                            ca lu sei è di Nicola,

                            l’ottu è di Maria,

                            lu tridici di Lucia

                                   e lu vinticincu di lu Veru Missia”.

In quest'antico detto popolare calabrese sono racchiuse tutte le festività dicembrine.

Dicembre, infatti, è un mese che corre rapido in un progressivo di feste ed in un'attesa quasi spasmodica del gran giorno di Natale, ma principalmente dei preparativi che preludiano la festa in se stessa.

A Galatro, con la festa di San Nicola - patrono del paese - si entrava in pieno clima natalizio. Per le strade, di tanto in tanto, si cominciavano a sentire scoppiettar le castagnole.

Negli spiazzi o nelle vie periferiche del paese i giovani cominciavano a giocare alle nocciole.

Fino a qualche decennio addietro questo delle nocciole, più di ogni altro, era il gioco più classico, più popolare e più caratteristico del Natale; adesso è quasi completamente scomparso.

A volte qualcuno dietro quelle sedici noccioline passava giornate intere, rimettendoci tutto il gruzzoletto già da tempo messo da parte.

Altre volte poteva accadere che il giocatore iniziando con pochi spiccioli se la fortuna (o la bravura?) lo assisteva nel volger di poche ore riusciva ad ottenere vincite favolose. 

Ma vediamo, ora, come si svolgeva il gioco.

Attorno ad una buca (spesso ottenuta con un semplice giro su se stessi e stando poggiati su un tallone oppure rompendo un angolo di piastrella del pavimento di casa) si disponevano i giocatori che a turno, dopo aver disposto le sedici (o dodici) noccioline sul palmo della mano, le facevano cadere sul terreno, proprio in prossimità della “buca”. Se il giocatore riusciva a far cadere nella “fosseja” noccioline in numero pari (donde il nome di “parìa” che si dava al gioco) la posta in palio era sua e così di seguito fintanto che in buca non andava a finire una  quantità dispari di noccioline. In questo casa vinceva chi aveva accettato la sfida del giocatore.

Quante volte  tornammo a casa con le mani piene di fango (a furia di raccogliere le noccioline nella buca scavata nel terreno umido delle piogge recenti) ma con gli occhi lucidi di felicità perché avevamo vinto un piccolo tesoro!

Fino a qualche decennio addietro si giocava dappertutto. Poi un solerte tutore dell’ordine ritenendo che quello della “parìa” fosse un vero e proprio gioco d'azzardo, denunciò diversi cittadini determinando l'immediata scomparsa di un diversivo che per secoli ha costituito l’esternazione materiale della gioia che tutti i  galatresi  avvertivano in concomitanza con le festività natalizie.

Dicembre, in Calabria, è come una grande vacanza; un mese ampio, quieto, festoso; un’estate postuma, insomma, ma non meno bella di quella vera, nonostante i rigori invernali.

A Galatro, in questo periodo le bambine restavano in casa per aiutare la mamma a preparare gli ingredienti per i caratteristici dolci casalinghi, per preparare l'uva passita, le noci, i fichi secchi, elementi necessari, insieme al “mosto cotto”,  a quasi tutte le genuine leccornie natalizie. Piccoli e grandi aspettavano con ansia il momento in cui potevano gustare le “pie” e le “pitte pie”, quasi che il loro sapore facesse improvvisamente dimenticare le amarezze di un intero anno fatto di sacrifici e spesso anche di molte rinunce.

I maschietti, all’aperto, nei cortili, davanti agli usci, ovunque fosse stato possibile, se non avevano i soldi per giocare alla “parìa” riuscivano, però, a recuperare un buon numero di noccioline, di noci o di castagne  con le quali, chini per terra e rossi in faccia per l’eccitazione, erano intenti ad alzare dei piccoli castelli (e com’era difficile disporre in equilibrio quelle varietà di frutta secca!) accostandone tre e mettendone una sopra. Quindi da dieci-dodici metri di distanza con un’altra nocciolina più grossa e più pesante (o con un’altra noce o, ancora, con un’altra castagna, a seconda della frutta che si usava per giocare) si dovevano abbattere quei castelletti e quanti più se ne potevano, diventando automaticamente padroni di quelli scompigliati.

C'erano ancora  altri giochi tradizionali per i giovanissimi galatresi come la trottola (comunemente detta “piroci”) e la “settimana” (o “siloca”[2]).

Il primo, riservato ai maschietti, il secondo alle femminucce.

Quello della “trottola” era un gioco di abilità riservato agli incalliti giocatori, a quelli cioè che riuscivano a centrare con il loro ronzante pezzo di legno, quello del compagno posto al centro di un cerchio disegnato per terra.

In questo stesso periodo i ragazzi ed i giovani di Laureana, accantonato temporaneamente il “piroci” (“parrocciulu” o “palorgiu”[3]) che i locali artigiani carradori (in tutta la zona meglio identificati come i “rotari”[4]) avevano prodotto in notevole quantità per metterli in vendita nei giorni della fiera di San Gregorio[5], si cimentavano nell’ “accipitotu”[6] gioco assai antico e nel quale i laureanesi spesso impegnavano l’intero gruzzolo che erano riusciti a risparmiare in tutto il periodo autunnale (o, i più poveri, tutte le noci e le nocciole che appositamente avevano messo da parte).

In tutti i paesi della zona, invece, le femminucce si portavano negli spiazzi per giocare alla “settimana” o “siloca”, come più esattamente tale diversivo era chiamato in molti paesi. Saltellando su un piede, le ragazze dovevano spingere un frammento di piastrella in una specie di labirinto con sette caselle (da cui il nome di settimana) tracciato per terra.

E che urla, che schiamazzi erano tutt'in-torno quando la coppia sconfitta doveva portare sulle spalle la coppia vincitrice!

Poi c’era la tombola, gioco ormai quasi del tutto in declino giacché difficilmente si formano quelle grandi comitive di vicini, amici, parenti che attorno ad un braciere, su tavoli di fortuna, sul letto, su sedie, sono ansiosi di far “ambo”, “terno”, “rigo” (cinquina) o “cartella” e di gridarlo felici, suscitando così l'invidia dei compagni di gioco, com’era consuetudine  fino ad alcuni decenni  addietro.

Poi c'era il pranzo della Vigilia a base di stoccafisso, baccalà, “zeppole” e cavolfiori. Non si doveva toccare carne, ma in compenso c’era frutta a non finire: ben tredici varietà dovevano figurare sulla mensa; non una in più, non una in meno.

E soprattutto non dovevano mancare le noci, i fichi secchi e le noccioline, quelle stesse per le quali già dai primi giorni del mese i ragazzi si erano spesso azzuffati per le strade, soffrendo per la perdita di un solo castello di quattro o sei noccioline come se si fosse trattato di un inestimabile tesoro.

Soltanto alcune di queste tradizioni popolari vengono ancora oggi tramandate e gustate come un tempo nei paesi di montagna, nell’alta Calabria, in Aspromonte, in Sila o lungo la dorsale delle Serre.

In questi centri il progresso non ha scalfito le secolari poetiche tradizioni natalizie, non ha mutato nulla, per cui andarvi a trascorrere le feste natalizie equivale a tuffarsi nel passato, rivivere nella calda e raccolta atmosfera paesana, l'ultima festa dell'anno.

Qui, in questi piccoli paesi di Calabria, anche se alcune tradizioni sono scomparse, l'atmosfera natalizia è sentita oggi come sempre; è sentita come una ventata nuova che investe la nostra vita ed il nostro sentimento lungo questi giorni di fervida attesa (è nell'attesa il significato più toccante e suggestivo della Natività).

Una volta vedere il sagrestano affannarsi a trovare il muschio per il praticello o a rimettere a posto la testa dell’arrotino di terracotta, era cosa normale in tutti  i nostri paesi. Ora non più. Ciononostante nei piccoli centri sperduti nel cuore delle montagne e all’ombra delle selve secolari, sopravvivono, tuttora, nelle antiche forme, le consuetudini, le credenze, gli usi, i riti ed anche le superstizioni che tanta importanza assumono nella poesia natalizia popolare.

In alcuni rioni periferici di Palmi e nei paesi circonvicini è ancora tradizionale la “novena dei ragazzi”.

Gruppi di fanciulli suonando moderne e maneggevoli clavette e flauti dolci, ed improvvisandosi, così,  zampognari girano di casa in casa domandando “a voliti ‘a novina?”. A risposta affermativa suonano nenie al Bambinello e cantano canzoni popolari:

                                      ...Sutta a ‘mpedi di nucilla

                                      nc’è ‘na naca piccirilla

                                      annacavanu lu Bombinu

                                      San Giuseppe e San Giacchinu...

Fin dai primi giorni di dicembre in molti paesi dell’Aspromonte e dell’alta Sila le piazze si riempiono di cataste monumentali di ceppi. E’ una tradizione secolare ancora viva, nonostante l'avanzare del progresso. 

A Longobucco, notte della vigilia, i fedeli si riuniscono sul sagrato della Chiesa Madre perché, secondo una tradizione che affonda le radici nella civiltà contadina e pastorale della zona, bisogna accendere l'alta catasta di legna che dà vita alla “Focarina”.

Anche a Melicuccà è ancora viva la tradizione del “ceppo natalizio”.

Una volta era una gara di campanilismo tra i diversi quartieri a chi avesse la maggiore quantità di ceppi per una più lunga durata del fuoco. Venivano accesi la sera del 24 e duravano per molti giorni, a volte, addirittura, fino all'Epifania.

Alla raccolta degli “zucchi”[7] (o “zunchi”) partecipavano tutti indistintamente, mettendo a disposizione strumenti e mezzi di trasporto.

Si andava a raccogliere i ceppi, spesso mastodontici, nelle selve circostanti e sempre di notte. Ciò, non solo perché solo allora gli uomini potevano essere liberi dagli impegni di lavoro, ma soprattutto per meglio adattarsi all’atmosfera della festa di mezzanotte.

I ceppi di quercia, di ulivo, di castagno venivano trascinati con catene per le vie del paese, ed era una baraonda di grida, di canti, di incitamenti.

Il grande fuoco, che ancora oggi si accende sul sagrato della chiesa parrocchiale, richiama molti fedeli che attorno a quella fantasmagorica luminaria intonano inni natalizi ed alzano preghiere al Redentore neonato.

Secondo un'antica tradizione quel fuoco serve a scaldare proprio il Divino Fanciullo. Nei pochi paesi ove questa tradizione resiste al progresso, i riflessi sanguigni della grande fiammata, nel cielo fosco di fine dicembre, creano, ancora oggi, un ambiente da fiaba.

E mentre fuori, sul sagrato della chiesa o sulla piazza rionale, le faville del ceppo si sprigionano levandosi in alto, in molte case si dà l’ultima mano al presepe o si pensa ad accendere le innumerevoli luci dell’albero di Natale.

Una volta, - e chi scrive ha  vissuto questa esperienza per diversi anni - non si finiva mai di curare i particolari del presepe. Si stava attenti a preparare per tempo i pastori con le caratteristiche bisacce contenenti frutta, caci, uova o con il classico agnellino sulle spalle; si aveva cura nel reperire le statuine raffiguranti le più diffuse attività artigianali del paese: il sarto, il calzolaio, il falegname. E non mancava la filatrice, la tessitrice, la lavandaia e la donna intenta a panificare. Si cercavano con cura anche le donne del popolo che a Gesù Bambino portavano in dono colombe, frutta e panni; si era meticolosi nel sistemare il caratteristico pastore abbagliato dal fulgore degli angeli annuncianti la buona novella (“u ‘ncantatu d’’a stija”); nel collocare sullo sfondo il castello di sughero, e nel preparare tutti gli altri elementi, indispensabili per una buona riuscita del presepe!

Egualmente suggestive erano le pratiche religiose mattutine, a Galatro ancora in uso, in verità, grazie alla sensibilità del parroco don Giovinazzo.

E, come un tempo, c'è ancora chi, ogni mattina, provvede a farci  sentire il motivo della tradizionale “ninna” a Gesù.

Come un tempo, infatti, per tutta la novena, ancora prima dell’alba, allegre compagnie, composte in gran parte da giovani studenti e da vecchi nostalgici, percorrono le vie del paese eseguendo musiche natalizie e, soprattutto, il popolare motivo “Tu scendi dalle stelle”.

In questa tradizione si può riscontrare  la gioia di svegliare la gente alle attività del nuovo giorno con il ricordo del grande evento religioso che si approssima, così come nell'usanza degli “zunchi” si scopre il desiderio di simboleggiare, con la fiamma che squarcia le caligini della notte gelata, la fede ardente e luminosa del cristiano.

Nonostante si ripetano da anni, ove ancora resistono al vento impetuoso del modernismo, è piacevole vivere le tradizioni di questa festa cristiana nel paese e nell’ambiente che le ha originate.

Una volta il Natale era festa attesa da grandi e da piccini, era festa ricca di poesia. Per questo c'era maggiore partecipazione ai riti della novena;  c'era più sentimento ed era veramente sentita l’Attesa.

Ma era, soprattutto, la festa della famiglia. A Galatro e negli altri paesi della Piana, tutte le sere della Novena i numerosi componenti delle famiglie si riunivano attorno al braciere e tutti insieme si preparavano al Natale recitando il Rosario e intonando motivi tradizionali. C'era, poi, il giorno della Festa.

Ricordo che  giorno di Natale i vecchi, i giovani, i bambini erano tutti in casa. Nella casa del nonno o del capofamiglia. Era consuetudine, infatti, che il giorno della nascita di Gesù bisognava stare tutti insieme.

Sul focolare, antico nella casa modesta, bruciava una catasta di legna. Nel ripostiglio a muro o in una cassapanca c’erano i dolci preparati per il periodo delle feste.

In un angolo, grande e illuminato, il presepe con le statuine  in terracotta, le montagne ricoperte di muschio trovato nei boschi vicini al paese e, posto davanti alla grotta, un bicchiere d’olio in cui tremolante ed incerta ardeva una fiammella, simbolo di Fede e di  profonda devozione.

La piccola lampada si teneva accesa per tutto il periodo natalizio: da notte di Natale a sera dell'Epifania, quando col cuore gonfio di nostalgia, gli anziani, seduti attorno al tavolo o vicino al braciere sempre colmo di carboni ardenti, ricordavano episodi della loro infanzia ormai lontana.

Ogni casa, pur se modesta nelle sue dimensioni, era calda del calore della gente che festeggiava il Natale: c'era allegria, ma un'allegria mistica; c'era gioia, c'era affetto.

Fuori quasi sempre il freddo era rigido e, qualche volta, nelle montagne circostanti c'era pure la neve, quasi che la natura avesse voluto sottolineare, nei paesi di periferia ed in montagna più che nelle grandi città, la festività natalizia.

Il Bambino Gesù, nella grotta,  era adagiato su uno strato di paglia, ma di quella vera appositamente prelevata nella stalla dell’amico o del vicino.

Era consuetudine che la notte del 24, mentre qualcuno fuori, o sul balcone,  provvedeva a far scoppiare i petardi e i fuochi d’artificio acquistati per l'occasione, per tutta la casa, il Redentore Neonato venisse portato in processione dal più piccolo componente la famiglia che, tenendolo sulle mani, girava da una stanza all’altra, mentre gli altri familiari lo seguivano in fila indiana cantando in coro “Tu scendi dalle stelle”.

Questo il Natale che si viveva a Galatro e che è simile a quello di moltissimi altri piccoli paesi calabresi dove per tutto il periodo festivo le note delle nenie eseguite da vecchi zampognari o da giovani e ragazzi appositamente riuniti in gruppo, costituivano il caratteristico sottofondo musicale. 

Ma non in tutti i paesi la lunga ed attesa festa dicembrina aveva lo stesso svolgersi. Ciò perché diverse e svariate erano le tradizioni del Natale dal momento che ogni popolo ha il suo “colore locale” e un complesso di usanze da custodire gelosamente nel cuore di ognuno, da amare come lo amarono le altre generazioni, da seguire come lo seguirono i padri. Ma, soprattutto,  da tramandare ai figli assieme a tutte le cose belle che si ricordano nostalgicamente e allontanano dall’esistenza quella tanto deleteria aridità che talora minaccia l'animo umano.

Comunque il fatto di doversi alzare la mattina presto per partecipare alle pratiche religiose “ante lucem” per tutti i giorni della novena, la nottata della Vigilia che si trascorre coi parenti tra i soliti giochi e le fette dell’ormai immancabile panettone, il confluire dei fedeli alla Messa di Mezzanotte, sono un complesso di situazioni che, fortunatamente, resistono al tempo ed alle “mode”; situazioni che, in fondo, determinano psicologicamente il clima natalizio e gli danno quella fisionomia inconfondibile che solo una grande tradizione cristiana sa dare.

E’ qui -a mio parere- il valore più bello dell’ultima festa dell’anno, valore che è pieno se goduto con infantile trasporto, perché i bambini più dei grandi riescono a cogliere pienamente l’eccezionalità di questo giorno.

Dunque raccoglieremo tutte le sensazioni della ricorrenza festiva nell’allegria che la vacanza, l’interruzione delle solite occupazioni, apporta; nell’ottimismo della cena della Vigilia, nel ricordo del gioco della tombola coi fagioli e con le bucce d’arancia, nella cordialità della loquace riunione di famiglia e, infine, nella letizia del presepe e dell’albero sfavillante di luce.

A queste circostanze esteriori si unisce la musica, i canti e, soprattutto, il sentirsi piccoli in mezzo ad una folla disposta alla preghiera ed all’allegria: sentimenti che fanno bene e che si provano solo agli ultimi di dicembre.

Per questo, in sostanza, il Natale, oggi come ieri, nonostante il progresso abbia cancellato di netto le vecchie poetiche tradizioni legate alle nostre radici e care alla nostra infanzia, resta festa attesa, sospirata, gustata.

A Galatro come nel più remoto angolo di terra cristiana.

* * *

 

N O T E

* Il racconto <<Poesia del Natale>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1]

Quello che segue è il testo della "conversazione" che, sul tema "Le tradizioni natalizie a Galatro ed in Calabria" e su invito dell'Amministrazione comunale ho tenuto nella chiesa parrocchiale San Nicola il  22 dicembre 1996. Esso è la sintesi degli articoli pubblicati sulla terza pagina della Gazzetta del Sud a cui  il  9 agosto 1985 è stato assegnato il premio saggistica "Benestare", in occasione del "Primo festival delle tradizioni popolari".

[2] Siloca: dal latino “silex”, nel suo significato di pietra. Quindi, gioco con la pietra, con un ciottolo, con un frammento di piastrella da spingere saltellando su un piede in una specie di labirinto tracciato per terra. 
[3] Palorgiu: trottola. Dal greco palla (palla) e orgon (filo). In effetti la trottola, che è uno dei giochi più antichi, è una sfera appuntita che veniva fatta girare vorticosamente grazie alla forza prodotta dalla brusca tirata dello spago in cui era stata precedentemente e accuratamente arrotolata. Quello della trottola era un gioco di grande abilità manuale e, tra l’altro, favoriva  il coordinamento oculo-manuale dei bambini (mentre quello delle “pietruzze” lo favoriva alle femminucce).
[4] Per diverse generazioni (e fino ai primi anni settanta) i “rotari” per antonomasia a Laureana appartenevano alla famiglia Morabito. Anche l'arte dei rotari (carradori) è scomparsa con l'avanzare del progresso tecnologico sicchè i Morabito di Laureana gli ultimi lavori li hanno realizzati non per i contadini della zona ma per Cinecittà ove per la produzione di alcuni film, erano necessari carri agricoli,  bighe romane e, comunque, ruote.
[5] La fiera di San Gregorio, fino ai primi anni settanta, iniziava il mercoledì precedente il 17 novembre e si concludeva la domenica successiva. Era, quella, l'occasione propizia offerta a tutti gli abitanti della zona (e in particolare ai contadini ed ai pastori) di mettere in vendita (o di acquistare) le sementi, gli animali giovani necessari alla masseria, e  di provvedere agli arredi agricoli e alle provviste necessarie per tutto l'inverno e l'estate successivi. Si aspettava la "fiera" per rifornirsi di tutto. La "fiera di San Gregorio" era l'antesignana del moderno ipermercato. Infatti, oltre che l'indispensabile per la campagna, ogni capofamiglia andava a comprare le scarpe, il vestito (o la "tarpa" necessaria per farselo confezionare), la classica ruota del braciere, la madia per il pane, la tela per confezionare le lenzuola da dare in dote alla figlia o alcuni "rotula" di cotone pronto per essere lavorato al telaio, il tondino, la sedia impagliata, la pala per il forno, la falce e la scure, il lume a petrolio e la lanterna per il carro, la giara per l'olio e la brocca per l'acqua… Il giovane pastore, inoltre, non poteva trascurare di comprare il classico mostacciolo di Soriano a forma di cuore da regalare alla fidanzata.
[6]

Accipitotu: dal latino accipe totum, cioè: prendi tutto. Dado con piedino e punta da cui si imprime la spinta per farlo girare come una trottola. Nelle quattro facce erano impresse altrettante lettere: P che stava per paga (iniziale del latino pone e dell’italiano posa), N che stava per niente (latino nihil); A che stava per prendi (latino accipe) ed infine T che stava per tutto, cioè: prendi tutto (latino totum).

Sullo stesso principio era basato il gioco del "poni" (dialettale di "pone", imperativo del latino ponere, deporre) che i giovani e i ragazzi di Galatro praticavano in particolare nella stagione primaverile e nelle sere d'estate. Variante importante: i ragazzi di Galatro per giocare dovevano procurarsi il "poni", cioè l'astragalo del maiale, un caratteristico osso del piede con quattro facce. Come nell'accipitotu ogni faccia aveva un significato preciso: prendi,  niente, tutto e posa (estens. paga) (latino pone) da cui il gioco (e l'osso) prendeva nome. Il gioco del "poni", simile  a quello dei dadi, è antichissimo ed ha origini greche. E' presente anche in Omero.

[7] Zucchi (o zunchi): tronco d’albero, grosso ceppo da ardere.