Il piccolo mondo di Galatro
L’allegra
brigata
da
IL
MIO NATALE
di Umberto Di Stilo
Trentuno dicembre, primo pomeriggio. Nonostante la campanella dell’orologio fissata sulla torretta del municipio avesse appena rintoccato due volte, in tutte le famiglie erano già in corso i preparativi per la cena e nella piazzetta retrostante la chiesa della Montagna, gruppi di giovani avevano ripreso a giocare con insolito accanimento. In molti, infatti, subito dopo aver ultimato il pranzo, si erano ritrovati come per non mancare a quel tacito appuntamento. Ciccio era arrivato trafelato quando i suoi amici erano alle prese con le sedici noccioline della parìa già da diversi minuti. Dopo aver guardato tutti con espressione di rammarico, quasi volesse chiedere scusa per il ritardo, aveva tirato fuori dalla tasca una manciata di monete da dieci, da venti, da cinquanta e da cento lire e, facendosi largo tra Antonio e Carmelo, si era inginocchiato sul terreno ancora umido per la pioggia caduta nel corso della nottata. Poi, dopo essersi guardato attorno, approfittando dell’incertezza dei nuovi compagni, aveva subito messo in gioco la sua prima moneta, accettando la sfida propostagli da Rocco, già pronto ad effettuare il suo ennesimo lancio delle noccioline verso la “buca”. |
- Ecco venti lire; paro io... - Si era affrettato a dire. E tirata con precisione la sua moneta l’aveva fatta arrivare in prossimità della “fossetta” scavata nel terreno.
Rocco era uno dei più fortunati giocatori del paese e anche quel giorno era riuscito a spedire in buca, alternativamente, otto o dieci noccioline assicurandosi, nel volgere di poco tempo, una consistente vincita.
Figlio di capraio, era ribelle e testardo come un mulo. Aveva presso a poco sedici anni ma, per via del suo fisico vigoroso e già sviluppato, ne dimostrava alcuni in più. I coetanei lo temevano e all’interno della comitiva rionale che solitamente si riuniva sotto la tettoia in lamiere della vecchia pescheria, aveva imposto la sua autorità. Ogni suo desiderio doveva essere soddisfatto con sollecitudine e quando qualcuno trovava da ridire sulle sue direttive o, peggio, osava contraddirlo, gli bastava uno sguardo per richiamarlo all’ordine ed all’obbedienza. In quelle circostanze i suoi occhi, solitamente olivastri come quelli di un dio greco, si trasformavano improvvisamente in due tizzoni ardenti e sprigionavano saette così infuocate che era impossibile resistergli.
Negli ultimi mesi, poi, dopo che i carabinieri lo avevano trattenuto alcune ore in caserma perché lo ritenevano testimone occasionale del furto di diversi sacchi di olive e poiché, nonostante le decise intimidazioni dei tutori dell’ordine, non si era lasciata sfuggire neppure una parola, il suo prestigio era improvvisamente aumentato anche tra i meno giovani che in lui vedevano un futuro “uomo di rispetto”.
- L’uomo è uomo non perché indossa i pantaloni ma perché sa mantenere un segreto e non si lascia intimorire neppure dalle minacce degli sbirri - diceva ai suoi amici con orgoglio. E aggiungeva che suo nonno soleva dire che “è megghiu crepari ca tradiri”. Perché secondo la saggezza e l’esperienza degli anziani “cu senti e taci avi paci” ma “cu senti e dici avi nimici”.
Rocco vinceva sempre.
Quando era lui a lanciare le noccioline, nella buca scendevano ripetutamente in quantità pari, prima che se ne contassero in numero dispari ed il gioco passasse di mano allo scommettitore successivo. Ed era spavaldo e borioso quando, con quelle noccioline tra le mani, aspettava che qualche giocatore, sperando che proprio quel tiro interrompesse la lunga serie positiva, accettasse la sua sfida.
Attorno a quei giovani inginocchiati sul terreno, diversi curiosi seguivano l’andamento del gioco; tra questi c’era chi parteggiava per lo sfidante e chi per lo scommettitore. Molti di loro, in verità, avrebbero voluto partecipare attivamente al gioco e puntare sul “pari” o sul “dispari” ma non potevano farlo perché, avendo già perduto tutto il piccolo capitale di cui disponevano, erano costretti a seguire le alterne vicende di questo o di quel giocatore e fidare nel buon cuore di qualche amico che, commiserandoli, desse loro la possibilità di tentare ancora una volta la fortuna.
Nonostante il pomeriggio fosse freddo e le bocche di tutti sembrassero tanti comignoli in piena attività, in piazza erano presenti anche molti ragazzi. Solo qualcuno indossava il vestito che i genitori avevano potuto fargli appositamente cucire per la festa; tutti gli altri erano infagottati nel maglioncino di lana pazientemente confezionato ai ferri dalla mamma ed indossavano il pantaloncino che, seppur fresco di bucato, sembrava una carta geografica, tant’era vistosamente rattoppato.
Scalzi, per il freddo pungente ed intenso, i piedi di molti avevano assunto uno strano colore violaceo...
Poco distante, sul parapetto perimetrale della piazza che si affaccia sulla vecchia rotabile per lo stabilimento balneare, alcuni anziani si attardavano a giocare al “mazzetto”. Tra di loro c’era chi non si rassegnava a perdere e lo lasciava facilmente intendere mediante le sonore proteste con le quali avanzava dubbi sull’onestà del “banchiere”.
Girando lo sguardo verso la parte alta del paese, - quella nella quale le linde casette di Montebello sembra vogliano stringere in un unico abbraccio l'antico “Oratorio”, allora trasformato in asilo parrocchiale ed in saletta cinematografica, ed il simulacro del Calvario eretto in cima alla bianca collina, era possibile scorgere gruppi di bambini impegnati nei giochi "poveri" del tempo.
In particolare lungo la strada acciottolata che, costeggiando il sentiero scosceso, si incunea svelta e sicura tra due file di minute abitazioni, gruppi di fanciulli, reggendo con la sinistra una canna infilata tra le gambe e dando botte a quel fantasioso e veloce destriero con un legnetto tenuto stretto nella mano destra, si rincorrevano e, schiamazzando, si davano battaglia immaginando di partecipare ad una cruenta guerra su più fronti.
Il pomeriggio era chiaro. Dopo la pioggia delle ultime ore, il tempo si era messo al bello, il cielo era tornato sereno e le strade erano nuovamente popolate da frotte di bambini e da giovani che smaniavano di tentare la fortuna, scommettendo sugli ultimi spiccioli posseduti o, più modestamente, giocando i bottoni che avevano recuperato dagli umili e non ancora dismessi abiti dei componenti la famiglia. Si giocava dappertutto: in piazza e agli angoli delle vie, dietro il municipio e sulla piazzetta del Carmine, alla “Colonia” e tra un isolato e l’altro delle “case popolari”, lungo i viali della villa e davanti a Fulco, all’angolo della stradina di Rumbolo e sotto la “timpa”[1] del Calvario. Ed era come un’antici-pazione delle accanite sfide che avrebbero animato le ore notturne, allorché tra amici o tra parenti, accanto al braciere scoppiettante di carboni ardenti, l’intera notte di capodanno sarebbe stata impegnata nei tradizionali giochi a carte: stop, scala quaranta, tressette, mazzetto, scopa, sette e mezzo....
C’era, però, anche chi non sapeva (o non voleva) giocare. Tra questi un gruppo di studenti e di giovani professionisti che amavano stare insieme per divertirsi, creando situazioni nuove ed abbandonandosi ad esternazioni scanzonate, a cui li spingeva la spensieratezza che caratterizzava la loro età. Erano giovani simpatici a tutti. D’estate animavano le serate, andando in giro per le vie del paese e provvedendo a fare la serenata a tutte le ragazze in età da marito; d’inverno, invece, si riunivano in casa di amici per consumare allegramente una improvvisata cena a base di pane biscottato, di qualche fetta di formaggio pecorino ma, soprattutto, di olive, di peperoni all’aceto, di melanzane sott’olio e di qualche sarda salata.
Ovunque andassero portavano allegria e serenità. Anche per questo, Don Bruno, che li conosceva bene, molto affettuosamente sosteneva che, tutti insieme, davano vita ad una “allegra brigata”.
Alcune giovani mamme, prima ancora di porsi davanti al focolare per preparare la cena, con la cesta piena di panni erano scese fino al rigagnolo del “cunduttu” per fare l’ultimo bucato dell’anno. Le più anziane, le nonne, invece, erano già indaffarate a mettere tutto in ordine sapendo che appena sera, per la ricorrenza festiva, la casa sarebbe tornata a popolarsi e le grida gioiose ed allegre dei nipoti avrebbero annullato la voce dell’anziano capofamiglia che, come ogni anno, pensava di poter raccontare episodi della sua infanzia, quando i giorni delle feste natalizie avevano solo il sapore della zippula e l'intenso profumo dell’anice.
In tutte le famiglie, man mano che passavano le ore, i preparativi diventavano più frenetici.
Fremevano anche i componenti dell’allegra brigata, gli amici di sempre, quelli che non sapendo (o non volendo) giocare a carte si organizzavano sul come trascorrere quella lunga notte in cui, secondo il calendario gregoriano[2], si concretizzava il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo.
Qualche volta alcuni di loro, pur di non farsi sorprendere a letto dal nuovo anno, avevano preferito stare vicino al braciere con la radio accesa per sentire ciò che, tra una canzone e l’altra, raccontava Silvio Gigli dagli studi di Radio Firenze o Nunzio Filogamo da quelli di Torino.
Trascorrere insonni la notte di capodanno, per molti giovani voleva essere la concreta dimostrazione di autonomia e di maturità. Per altri un modo per differenziare quelle ore di festa e di gioia dalla monotona quotidianità paesana. Chi vegliava, comunque, lo faceva per giocare, per divertirsi, per salutare la fine di un anno e l’inizio di un altro in modo allegro e spensierato, convinto che lo stare assieme aiutava a guardare serenamente al futuro e che accogliere in allegria il nuovo anno potesse essere beneaugurante.
Già da alcuni giorni i componenti dell’allegra brigata avevano programmato come trascorrere quell’ultima notte dell’anno. Per questo, mentre i giovani giocavano nella piazzetta retrostante la chiesa, loro si erano ritrovati sulla parte opposta, proprio sul sagrato. A tutti parve un incontro fortuito, visto che oltre ad essere sempre insieme erano tutti abituali frequentatori di quella zona e di quella chiesa. In realtà, però, non si trattava di un incontro occasionale. I giovani, infatti, si erano riuniti a seguito di precisi accordi per effettuare un vero e proprio sopralluogo, uno studio accurato e minuzioso del loro futuro campo di azione.
Fingevano di essere estasiati dallo spettacolo che offriva la natura ed in particolare dalle nubi merlettate di rosso e di oro, colori e forme che, quel pomeriggio, conferivano una fantasmagorica bellezza al cielo di cobalto. In realtà studiavano con attenzione, quasi con pignoleria, la parete esterna di casa Trungadi cercando di calcolare la distanza intercorrente tra quel muro ed il robusto parapetto dell'ampia gradinata che porta fin sul sagrato della parrocchiale.
L'anziano Colonnello era seduto dietro i vetri del balcone; meccanicamente lisciava i suoi lunghi e folti baffi e, pur fissando con gli occhietti ormai stanchi la finestra, ancora adorna di gerani fioriti, della dirimpettaia casa dell'amico Rocco Ocello, di fatto aveva il pensiero rivolto altrove e riviveva, forse, gli anni della sua gioventù, quando proprio l'ultimo giorno dell’anno, all'interno di una tenda da campo, si trovò a solennizzare la festa, brindando coi suoi soldati.
Non si affacciava al balcone da poco più di tre mesi, da quando, ricorrendo il primo centenario della fondazione della Parrocchia, in occasione della solenne Incoronazione della Madonna, da quella piccola ma comoda tribuna personale, aveva voluto seguire alcune fasi dei festeggiamenti. Il balcone era il suo punto di osservazione privilegiato e da lì, come un vecchio comandante di nave, cercava di rendersi conto di ciò che gli accadeva attorno. Seguiva i lavori che i contadini portavano avanti nell’oliveto abbarbicato alle bianche sabbie della collinetta di Rosicco; nei freddi periodi invernali si interessava alla raccolta delle arance che gli operai effettuavano nel suo sottostante agrumeto del “Varco”; seguiva l'uscita dei fedeli dalla chiesa e le animate discussioni che avevano come teatro il sagrato.
Quel pomeriggio, però, l'anziano Colonnello era distratto. Aveva smesso di assottigliare pazientemente col coltello i pezzetti di legno dai quali era solito ricavare stecchini e girava e rigirava il sigaro spento tra le dita grosse e violacee; lo avvicinava istintivamente alla bocca e non si accorgeva dei giovani che scrutavano attentamente quel muro che, da alcuni giorni, era al centro delle loro attenzioni e dei loro pensieri.
* * *
Anche per quell'ultima sera dell'anno i componenti dell'allegra brigata si erano dati appuntamento in casa di Bruno. Dovevano incontrarsi dopo cena per trascorrere insieme gli ultimi scampoli di un anno che a loro aveva regalato ore di sana allegria e che li introduceva in quello che, secondo le previsioni, avrebbe aperto buone prospettive di lavoro per tutta la comunità che, impotente, stava assistendo al lento ma incessante esodo dei suoi più giovani elementi e delle sue forze più valide.
L'incontro era stato fissato per le ventuno quando ognuno di loro (spesso ingurgitando in fretta) aveva già finito di cenare e, formulati gli auguri ai genitori, poteva lasciare le pareti domestiche e raggiungere gli amici coi quali aveva deciso di trascorrere le ore della nottata impegnato a giocare a carte, a tombola o alla “parìa” o, più semplicemente, a raccontare barzellette, stando comodamente seduti attorno ad un tavolo su cui erano a disposizione di tutti noci, fichi secchi, nocciole, castagne e qualche fiasco di buon vino rosso del “Fegu” o della "Cammara" procurato per tempo da chi, in quella notte di baldoria, sapendo di non poter stappare le bottiglie di spumante, sperava di procurarsi qualche momento di spensierata ebbrezza ricorrendo al genuino prodotto dei nostri vigneti. A mezzanotte, però, si doveva smettere di mangiucchiare per salutare l'arrivo del nuovo anno con l'accensione dei petardi acquistati per partecipare all’infernale putiferio col quale, in paese, veniva sottolineato il passaggio da un anno all'altro.
Tutti insieme avevano deciso che proprio quella sera, mentre la maggior parte dei concittadini si accingeva a festeggiare l'arrivo del nuovo anno e nelle piazze si continuavano a sparare i botti e le castagnole in segno di festa, avrebbero compiuto una strana missione: uno scherzo dal sapore goliardico; un'altra delle loro spiritosaggini giovanili, insomma.
Ad alcuni di loro l'idea era balenata qualche settimana prima, all'uscita della messa “ante lucem” a cui avevano partecipato nella chiesa della Montagna.
Quella mattina sembrava che l'aurora tardasse a rischiarare la valle e sull'abitato persisteva una nube ovattata che, umida e leggera, lo avvolgeva dal Rione Mazzini fin sulla cima di Orbellico, da una parte, e da Pecorello fin sopra alla “Colonia”, dall'altra.
In quella fitta coltre di nebbia, qua e là, come fioche fiammelle, si intravedevano solo le luci che filtravano dalle imposte socchiuse delle case dei più mattinieri: persone che dovevano recarsi alla villa comunale per prendere il pullman diretto a Rosarno od a Palmi; operai che, sfidando i primi rigori invernali, si preparavano ad andare negli agrumeti a raccogliere le arance; artigiani che si apprestavano ad aprire i loro laboratori artigianali per iniziare la giornata lavorativa.
E mentre Galatro stentava a svegliarsi, il Metramo cantava la sua consueta canzone e le briglie, interrompendo il veloce corso dell'acqua, davano vita a quelle allegre e ciarliere cascatelle che per molti galatresi, ancora oggi, costituiscono una musicalissima ed insostituibile ninna-nanna.
Il buio gravava su tutto il paese e non erano certo le scarse e deboli lampade della pubblica illuminazione che riuscivano a rischiararlo. Ciononostante, l'acciottolato umido delle vie assumeva vividi riflessi argentei che si allungavano e si deformavano man mano che i giovani, procedendo nel loro lento cammino, cercavano di vincere le ultime tenebre della notte e si allontanavano sempre più da quelle deboli sorgenti di luce. Erano in quattro e, nonostante il buio si potesse tagliare con il coltello, camminavano sicuri per quelle strade umide e deserte che conoscevano come le loro tasche. Gli altri abituali componenti il gruppo, erano rimasti a casa giacché, vinti dal sonno, non avevano sentito la campana della chiesa quando, alle quattro e mezza, aveva chiamato a raccolta i fedeli.
Quel mattino, proprio all'ora in cui abitualmente per svegliarsi è necessario ricorrere alla classica tazza di caffè, ci fu chi, tra i quattro dell'allegra brigata, espresse il desiderio di poter gustare un mandarino appena colto dalla pianta. Un mandarino che, a quell'ora sarebbe stato freddo e dolce come un cono gelato mangiato con avidità in un torrido pomeriggio d'agosto.
Desiderio facile da soddisfare, visto che nelle immediate vicinanze del centro abitato, molte erano le piante cariche di frutti maturi.
Tutti insieme decisero di prendere d'assalto una pianta di contrada “Petrara” non solo perché era tanto fuori mano che nessuno avrebbe potuto scoprirli ma soprattutto perché uno di loro conosceva bene quel posto. Attraversarono il paese a passo deciso e senza parlare, quasi per pregustare meglio la dolcezza di quei frutti che col passare dei minuti assumevano sempre più il sapore delle cose proibite e da tempo desiderate.
In silenzio si addentrarono nel vicoletto, costeggiarono la siepe, salirono un sentiero reso viscido dalla pioggia e, in men che si dica, furono sotto la pianta. Tre rimasero a terra, il quarto con un balzo felino fu sull'albero e continuò a salire finché, dopo essersi appollaiato comodamente su alcuni rami, cominciò a cogliere i gialli frutti ed a lanciarli agli amici che cercavano di prenderli al volo, anche se da terra riuscivano appena ad intravederli.
I contorni delle colline cominciavano a staccarsi dal cielo ancora plumbeo grazie ad una spruzzata di luce argentea che, in maniera sempre più intensa saliva dal basso e, sempre più chiara, si rifletteva nel cielo.
In pochi minuti i tre ebbero la possibilità di riempire le tasche di mandarini. Uno di loro, volendo approfittare dell'occasione e non sapendo dove riporre tutti i frutti che gli venivano lanciati, senza comunicarlo agli amici, scucì la tasca dell'elegante cappotto color cammello che, con l'intento di sfoggiarlo nei giorni della festa, pochi giorni prima aveva comprato a Polistena e fece in modo che le profumate sferette gialle che infilava in tasca, di fatto, andassero a finire nella pesante fodera di flanella “scozzese”. Quel mattino, così facendo, involontariamente, anche lui aveva messo in pratica l'espediente un tempo molto in voga tra i vecchi pastori d'Aspromonte quando, non avendo a disposizione la bisaccia, ricorrevano a questo sistema di fortuna per portare a casa le loro modeste provviste.
Albeggiava quando per consumare quei dolcissimi frutti, i quattro amici raggiunsero via Garibaldi ed andarono a sedersi all'interno del “vágghiu”[3], luogo legato ai giochi infantili di tutti i giovani del rione, loro compresi.
Per uno di quegli strani scherzi della vita, mangiando i mandarini i quattro dell'allegra brigata, quella fredda mattina di dicembre, stando seduti di fronte all’abitazione dell'amico Pasquale Marazzita, hanno avvertito una irrefrenabile acquolina in bocca vedendo quella diffusa qualità di frutta che, quasi a sfidare i desideri dei passanti ma rispettata da tutti, pendeva appesa al muro esterno di molte abitazioni. Ed era una consuetudine così comune che, in certi periodi dell'anno, le case sembravano tutte decorate di verde e di rosso.
Infatti, tolte le reste di peperoni che per buona parte del periodo autunnale, appese una accanto all’altra, sembrava volessero vivificare col colore del fuoco pareti quasi sempre tinteggiate di bianco ed ormai stinte dal tempo, in prossimità del balcone e delle finestre, le pareti esterne delle abitazioni si presentavano adorne con pale di fico d'India a cui erano ancora appesi i frutti spinosi - quelle saporite bacche ovali - che ogni famiglia aveva provveduto a conservare per consumarle durante l'inverno e, soprattutto, nel periodo delle feste natalizie.
Perché, dunque, non organizzare una bella scorpacciata mattutina di fichi d'India? L'idea piacque subito. E fu approvata anche dagli altri componenti l'allegra brigata quando, nel tardo pomeriggio, fu sottoposta alla loro attenzione.
Si, ma a quale famiglia sottrarre le pale cariche di frutti? Ascanio e Pepè si impegnarono a passare mentalmente in rassegna le singolari decorazioni delle varie case. Poi, per non incorrere in errori, saltati in sella alla lucida motocicletta nera del giovane reggino, fingendo di fare una semplice passeggiata, provvidero a percorrere ed a ripercorrere più volte le varie strade del paese. Ascanio, al pari dei giovani locali, conosceva tutti giacché dimorava in paese ormai da diversi anni e perché, grazie al suo carattere gioviale ed estroverso, si era perfettamente e completamente inserito nella comunità galatrese. Quando fu sera, Pepè, il più “vecchio” del gruppo, esternando una sensibilità che gli faceva onore e che dimostrava la sua profonda bontà d'animo ed il suo concreto essere cristiano, riferì che dall'elenco delle probabili vittime bisognava escludere tutte le famiglie numerose; specie quelle per le quali quei caratteristici frutti rappresentavano un piccolo tesoro. In modo particolare, comunque, bisognava escludere le famiglie nelle quali erano presenti bambini che, notoriamente, sono ghiotti di fichi d'India.
A quei tempi erano veramente poche le case in cui non risuonavano gli strilli dei piccoli, per cui alla fine rimasero soltanto due o tre famiglie in cui, non essendo presenti bambini, il furto dei fichi d'India avrebbe determinato solo un risentito ma passeggero raccapriccio negli adulti padroni di casa.
Né si poteva andare a sottrarre i pochi frutti rimasti appesi attorno alla finestra ed al balcone dell'abitazione di Vincenzo Martino, in via Garibaldi, perché, nonostante le vibrate proteste ed i continui mugugni della ricciuta signora Maria Grazia, diverse volte erano già stati presi di mira dai giovani della comitiva per i quali essi rappresentavano una facile preda, grazie alla favorevole posizione della casa, estremamente bassa e limitrofa ad un fabbricato ancora in costruzione dal quale bastava sporgersi un poco per appropriarsi delle pale coi saporiti frutti attaccati.
Sicché scartata questa famiglia perché in essa erano presenti numerosi bambini, esclusa quell'altra perché già in precedenza era stata oggetto delle notturne attenzioni della comitiva, alla fine fu deciso di andare a rubare i fichi d'India che pendevano alla parete esterna dell'abitazione di un amico a cui, però, il giorno successivo, per completare la burla e suscitare la sua ira, avrebbero fatto recapitare un ben confezionato pacco contenente tutte le scorze spinose dei frutti e le mezze pale a cui erano attaccati i saporiti fichi d'India sottratti.
Quei piani strategici, però, saltarono l'indomani, all'uscita della messa, quando gli occhi di uno dei componenti il simpatico gruppetto di amici si posarono sul muro di casa Trungadi.
- Guardate che abbondanza... - disse Vincenzo indicando le numerose pale che tappezzavano l'intera superficie del muro compresa tra il balcone e le due finestre laterali e che, “allineate e coperte” come tanti soldatini, pendevano appese a grossi chiodi di forgia.
- Appropriandoci di questi frutti non commetteremo un grosso peccato... Don Bruno, anzi, ci assolverà sicuramente, perché tutto questo ben di Dio è peccato lasciarlo solo al Colonnello a cui, data l'età, potrebbe anche far male... - aggiunse ancora Vincenzo. Ascanio e gli altri concordarono pienamente. Solo Pepè dimostrò qualche perplessità:
- Ragazzi pensate a cosa direbbe Don Rocco, il figlio, se solo sapesse ... Si offenderebbe, non vi pare?... Don Rocco è un amico, spesso ci ospita in casa... Ci mette a disposizione tutto... No. Non credo che dobbiamo mancare di rispetto al suo anziano genitore.... In fondo l'offesa la faremmo soprattutto a lui… - disse. Ma la decisione era stata presa e neppure il dubbio che il nipote Nicola, che spesso prendeva parte alle loro giovanili scorribande, potesse non gradire lo scherzo, valse a dissuaderli.
* * *
Uno alla volta, quasi alla chetichella ma tutti ben protetti da pesanti cappotti e colorate sciarpe di lana, gli amici di casa Marazzita non tardarono ad arrivare. Come sempre, le porte d'ingresso erano semplicemente accostate e per entrare non era necessario neppure bussare. C'era chi si introduceva dalla porta principale e annunciava la sua presenza sin da quando era nelle scale e chi, arrivando direttamente dal vicoletto che unisce la piazzetta "Largo Montagna" alla via "Salita monte Calvario", passava per la cucina.
Seduta accanto alla vecchia ruota del braciere, l'anziana “zia Anna Maria”, come affettuosamente gli assidui frequentatori di quella casa chiamavano la mamma di Bruno, provvedeva ad accostare i carboni roventi che ardevano in quel contenitore di rame dai manici malfermi e li sistemava con maestria perché, così facendo, il fuoco potesse mantenersi vivo. Poi, per evitare che a contatto con l'aria i carboni si consumassero presto, con meticolosa precisione li cospargeva con la cenere che, utilizzando una paletta di ferro appositamente acquistata dagli zingari, prelevava dallo stesso braciere.
- Metteteci sopra una buccia di mandarino, sennò tra pochi minuti o scappiamo fuori o moriremo tutti soffocati dall'ossido di carbonio - gridò dalla stanza accanto la signorina De Leo, una maestra che da alcuni anni prestava servizio a Galatro ed aveva preso in fitto una parte di quel vecchio palazzo nobiliare.
Alla buccia provvide Ascanio che, insieme a Vincenzo ed a Pepè, proprio in quel momento, servendosi della porticina secondaria, e passando per la cucina, entrava nella stanza canticchiando. Subito dopo arrivarono tutti gli altri della comitiva, accolti da Bruno, da Angelina e da Peppina, con quel solito sorriso che voleva essere un "benvenuto" e una iniezione di stima, di fiducia e di sincera amicizia. Un sorriso che metteva a proprio agio tutti, anche quelli che entravano per la prima volta in quella casa o che, comunque, non erano assidui frequentatori.
Nello stanzone dei giochi era tutto pronto: su un grande tavolo di noce, attorno al quale avevano già preso posto Gregorio e Pina, Mico e Marietta, Giovanna e Tita, Cata e Maria (quest'ultima scortata dalla nonna per impedire che, lungo la buia stradina, la bella ragazza potesse segretamente incontrarsi col corteggiatore appositamente sceso da Bellantone) c’erano le cartelle della tombola con accanto il sacchetto dei numeri e diversi mazzi di “napoletane”.
Poco distante, sedute su alcune poltroncine di velluto amaranto che il tempo aveva abbondantemente scolorito, parlottavano allegramente tra loro le signorine Lorè, Lina e Montagnina....
Nella stanza adiacente, in attesa di prendere posto attorno ai tavoli di gioco, la signorina De Leo discuteva vivacemente con Tetè Trungadi la cui allegra risata echeggiava argentina in quella casa ospitale ed amica.
Man mano che arrivavano, tutti i componenti dell'allegra brigata si avvicinavano a Gregorio. A lui era stato affidato l'incarico di procurare due canne, lunghe e robuste, come quelle che molti paesani, proprio in quel periodo, adoperavano per tendere le reti con le quali praticavano l'uccellagione selvaggia dei tordi, dei pettirossi e dei fringuelli. Ed a tutti, con un gesto di assenso accompagnato da un timido sorriso, dava assicurazione di aver assolto l'incarico affidatogli.
Si abbandonarono ai giochi e, ben presto, in quelle stanze si cominciò a respirare l'allegra atmosfera della numerosa compagnia. Ascanio riuscì a completare due volte la cartella ed a vincere alcune centinaia di lire, invidiato da molti dei presenti che nel corso delle varie giornate di festa ancora non avevano avuto la soddisfazione di realizzare neppure un ambo od un terno per assaporare la gioia della vincita.
Vincenzo era agitato. Man mano che passavano i minuti e si avvicinava il momento fatidico di mettere in atto il piano strategico, balbettava sempre più e, per mascherare il motivo della sua agitazione, minacciava di smettere subito di giocare se avesse continuato a perdere. Pepè, che gli sedeva accanto, come se fosse in preda ad un improvviso ticchio nervoso, con l'indice destro spingeva ripetutamente in su gli occhiali, quasi che stessero improvvisamente per scivolargli dal naso.
Gli altri erano stati influenzati da quella nuova ed insolita ansia e non riuscivano a nascondere il loro nervosismo. Soltanto Ascanio era sereno, sorridente, tranquillo. Ed era lui che con battute spiritose ed ironiche cercava di distrarre gli amici e di smorzare la tensione che stava interessando, sempre più, gli altri componenti l'allegra brigata.
Poi, poco prima delle ventitré, quando il trambusto cominciò a diventare più fitto e, sul piazzale retrostante la chiesa, le scariche di castagnole divennero sempre più frequenti ed insistenti, Pepè, con una delle sue solite battute di spirito, dopo aver avvicinata alla bocca la mano destra chiusa a pugno, soffiandovi dentro cominciò a modulare un suono simile a quello della tromba e ad eseguire lo stesso motivo che sotto la vita militare si suona ogniqualvolta è il momento di radunare i soldati. Poi, ultimato il caratteristico ritornello:
- Adunata!... Ragazzi è l'ora del concerto e dobbiamo andare a provare - disse. Quindi, rivolgendosi a Gregorio: - la fisarmonica l'hai portata oppure dobbiamo andare a prenderla? - chiese.
- L'ho lasciata a casa - rispose l’amico. Ed aggiunse: - ma faccio in un minuto... Andiamo -
I giovani lasciarono casa Marazzita mentre la maggior parte degli ospiti giocava a tombola ed i soliti incalliti delle carte, appartati in un angolo, erano impegnati nell'ennesima sfida a “stop”, partita che, con le altalenanti situazioni di gioco, si rivelava più combattuta del previsto tanto che sul tavolo c'era in palio un piatto assai consistente ed allettante.
Appena fuori Gregorio si mise a precedere il gruppo e tutti insieme, con la massima cautela, lo seguirono fin nei pressi di casa sua ove, dopo essere entrato a prendere la fisarmonica, da un angolo buio vicino all'ingresso tirò fuori quanto aveva nascosto nelle ore del tardo pomeriggio: due lunghe e robuste canne, due coltelli e due capienti ceste realizzate con striscioline di castagno intrecciate. Poi fu sufficiente percorrere pochi passi e scendere alcuni gradini perché tutti si trovassero sul campo di battaglia.
Sotto la luce incerta della lampadina fissata all'angolo di casa Mamone le numerose pale di fichi d'India che pendevano dal muro del palazzo Trungadi avevano contorni indefiniti e sfumati e sembravano messe apposta per arredare e rendere meno grigia la parete.
Le pale coi caratteristici frutti spinosi erano allineate su diverse file come tanti soldatini in marcia. Forse anche per questo l'anziano Colonnello, sporgendosi da dietro l'imposta del balcone appena socchiusa, amava guardare quel muro colorato di verde e punteggiato di rosso e di giallo. Guardava e nella sua fantasia quei modestissimi frutti assumevano le sembianze di giovani militari da addestrare e da portare fin sulle trincee per ostacolare l'avanzata nemica. Quella sera i nemici avevano deciso di assaltare la postazione del vecchio ufficiale con un'azione a sorpresa. Per questo, interrotti i loro giochi e salutati gli amici, erano arrivati fin sotto il balcone.
Ascanio, senza tradire la minima emozione, si accostò al parapetto della gradinata e, lui che era apprezzato cacciatore, puntando al muro la canna che si era fatta consegnare da Gregorio, con mano ferma, l'avvicinò a mezza pala di fico d'India. Quando fu certo di avere infilato la cima nel buco che a suo tempo era stato praticato perché la mezza pala coi suoi frutti pendenti potesse essere appesa ai chiodi di forgia appositamente fissati al muro, con leggeri ma precisi movimenti riuscì a staccarla e, trasformando quella lunga pertica in un improvviso ma sicuro binario, la fece scivolare verso il basso non senza evitare che pencolasse da una parte e dall’altra. I fichi d'India conclusero quella breve corsa contro le mani di Ascanio che, per non farsele pungere dalle spine, aveva provveduto a proteggerle con due pesanti guanti di pelle. L'altra canna venne utilizzata da Vincenzo che, però, non riuscì a tenere il ritmo di Ascanio, abilissimo e dalla mano ferma. Attorno a loro due entrò in funzione una vera e propria catena di montaggio: Gregorio, che aveva provveduto a poggiare la sua fisarmonica all'angolo di casa Mamone, con precisi colpi di coltello staccava i fichi d'India che lasciava cadere nella cesta precedentemente sistemata davanti ai suoi piedi; le pale, invece, orfane dei loro saporiti frutti, le buttava nell’altra cesta posta alla sua sinistra.
Pepè e gli altri seguivano in silenzio pronti, però, a lasciare quel campo d'azione ed a nascondersi dietro il robusto parapetto della gradinata, ogniqualvolta venivano aperte le imposte di casa Cammareri o di qualcun'altra delle altre abitazioni che si affacciano su quell'angolo di paese.
In pochissimi minuti tutti i fichi d'India appesi alla parete finirono nella cesta di Gregorio. Non un sol frutto fu risparmiato giacché, contrariamente al parere di Pepè, Ascanio fu irremovibile:
- O tutti o nessuno; non può esserci via di mezzo; - sentenziò. Poi, con tono ironico aggiunse:
- Domani vorrei vedere l'espressione di incredulità del Colonnello quando, sul tardi, si accorgerà che tutti i suoi fichi d'India sono scomparsi.... Certo, inizialmente non crederà ai suoi occhi.... Anzi, è probabile che non se ne accorga neppure... è anche possibile che pensi ad uno scherzo dei suoi parenti... Mi sbaglio, o in questi giorni di festa le figlie ed i nipoti sono venuti a trascorrere la fine dell’anno a Galatro?... -
L'anno nuovo sorprese i giovani amici nella falegnameria del papà di Gregorio ove, mentre quest'ultimo dava fiato al mantice della sua fisarmonica per eseguire allegri motivetti, Pepè e Vincenzo provvedevano a sbucciare i fichi d'India che tutti gli altri mangiavano dimostrando una voracità simile a quel-la di chi, dopo diversi giorni di completo digiuno, ha la possibilità di mettere qualcosa sotto i denti.
Quando, nei giorni successivi, il Colonnello si accorse della totale scomparsa dei suoi frutti, dopo un primo momento di incredulità, fece sentire il suo vocione e, andando avanti e indietro per la casa con fare assai agitato, nonostante la fedele governante Immacolata cercasse di calmarlo, imprecava contro gli ignoti autori dello sgarbo, ai quali giurava che avrebbe fatto ricordare il suo nome per tutta la vita.
- Non c'è più rispetto - diceva - Ma giuro, giuro che gliela farò pagare. Si, gliela farò pagare!...-
Poi, dopo un attimo di pausa, sbuffando nervosamente come un toro inferocito che cerca di attaccare il suo avversario, riprendeva a lamentarsi:
- Non hanno avuto rispetto neppure per la mia età, questi tàngheri… questi scostumati… questi tamarri[4]… questi incivili... -
Quindi, invocando l'intervento del figlio, urlava con tutta la voce che gli era rimasta in gola:
- Rocco, Rocco, devi chiamare il maresciallo... Devo sporgere querela...Voglio i carabinieri qui perché a questi mascalzoni screanzati bisogna dare la lezione che meritano... Devono ricordare per sempre il mio nome!... -
Nicola, il più giovane dei suoi nipoti, che aveva partecipato alla spedizione notturna ed aveva mangiato la sua abbondante razione di saporiti e freschi fichi d'India, senza farsi sentire dal Colonnello, commentò sottovoce, quasi parlasse tra sé:
- Lascia stare i carabinieri, nonno.... e stai tranquillo; nessuno ti ha voluto mancare di rispetto e, se ti può consolare, sappi che quei frutti erano buoni, freschi e saporiti. Per quanto mi riguarda, poi, il tuo nome lo ricorderò sicuramente per tutta la vita. Sennò, che nipote ingrato sarei? -
Nessuno, tanto meno l’anziano Colonnello, seppe mai chi, nella notte di quel 31 dicembre e mentre in paese scoppiettavano ripetutamente gli spari coi quali tutti salutavano l'anno che stava per iniziare, rubò i fichi d'India di casa Trungadi.
Da diversi anni alcuni dell'allegra brigata sono stati chiamati a far baldoria in quel mondo dove non esistono i capodanni perché il tempo non ha né principio né fine e dove la comitiva, diventata assai numerosa, è sempre in festa. Gli altri, un po' acciaccati e con i capelli innevati dal tempo, anche se le loro attività professionali li hanno portati a vivere lontani da Galatro, non hanno dimenticato il vocione del Colonnello e le sue minacce rimbombano ancora nelle loro orecchie. Non hanno dimenticato neppure la bontà di quei fichi d'India che man mano che gli anni si raggomitolano agli anni assumono sempre più il sapore inconfondibile della gioventù a cui la trasgressione ed il gusto dell'avventura aggiungono quell'alone di rimpianto che solitamente contorna tutte le cose care della vita.
* * *
N O T E
* | Il racconto <<L’allegra brigata>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000 |
[1] |
Timpa: voce di origine
prelatina. Cima, precipizio. Il cucuzzolo in questione è quello
della bianca collinetta di Orbellico (Arbijicu)
meglio conosciuto come “’a
timpa d’’u Pilatu”. |
[2] |
La riforma Gregoriana del calendario fu ordinata nel 1582 dal
Papa Gregorio XIII e modificò sostanzialmente il preesistente
calendario giuliano. |
[3] | Vagghiu: cortile, atrio
di una casa. Anticamente era il cortile del castello ed il luogo
di incontro e di riunione degli abitanti del quartiere. Con questo
termine, però, a Galatro si identificava l’atrio coperto della
cantina che il sig. Giuseppe Cordiani possedeva in via Garibaldi.
La volta in mattoni del vagghiu, per molti decenni, è stata muta testimone dei
giochi di tutti i ragazzi del rione che, solo riunendosi là,
riuscivano a sentirsi sicuri. |
[4] | Tamarri: Termine
dialettale di origine araba
usato in senso dispregiativo per indicare persone villane e rozze. |