Giuseppe |
Inferno: Cantu Quintu
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1 Ed eu calài di chiju primu giru |
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Note: | |
Minosse, celebre re di Creta, che in virtù della sua integrità, fu da Giove eletto giudice dell’Inferno (Vedi Virgilio, Eneide, VI) . | |
mbogghji: Con il termine mbogghju veniva definito l'ordito del telaio. Qui Blasi ricorre all'immagine dell'ordito per dare l'idea dei giri di coda con cui Minosse avvolgeva le anime dei dannati al momento di destinarle ai vari gironi. | |
dogghji ‘doglie’. | |
ti ricogghji ‘pigli la via del ritorno’. | |
a porta larga… ‘se la porta è larga, aperta…’. E’ un proverbio calabro che si completa con le parole trasi 'i hjncu ‘entraci di fianco, di lato’. | |
mpatti ‘infatti’. | |
mbatti ‘càpita’. | |
sbattiri ‘dimenarsi’. | |
rotiari ‘andare in giro’. | |
trìvuli rutti ‘pianti dirotti’. | |
li fimmanari ‘i donnaioli’. Ancora oggi in Calabria questo termine viene utilizzato per qualificare gli uomini libertini che sogliono cercare continuamente facili amori . | |
li groi ‘le gru’. Con groi, Blasi traduce il dantesco ‘stornei’ (stornelli) che sono uccelli assai più piccoli delle gru. Il nostro Traduttore-poeta non fa alcuna differenza forse perché delle gru Dante riferisce due terzine più avanti e soprattutto perché nel dialetto della zona di Laureana non esiste il termine corrispondente all’italiano stornello . | |
m'alleggiava (mu alleggiava) ‘che s'alleggerisse, che si facesse meno violenta’. | |
gua' guai: voce imitativa del grido delle gru. | |
spijai ‘domandai’. Spijari in dialetto calabrese vuol dire ‘indagare, domandare’. Il corrispondente dell'italiano spiare, invece, è spijunari oppure spijunijari, ‘fare lo spione’ . | |
strascinati ‘trascinati, spostati con forza’. Da notare la potenza espressiva del termine a cui Blasi ha fatto ricorso per volgere in dialetto il dantesco “sì castiga” . | |
la dibusciau ‘la diede alla vita dissoluta’ dal vizio . | |
Re nturchju ‘re dei turchi’. Dal tradizionale Gran Turcu, antitesi di Sultano, il popolo fece per idiozia Rre nturchju. Dante fa esplicito riferimento a Semiramide, regina di Babilonia e vedova del re Nilo. Nel 1300 il Sultano d’Egitto (il “Soldan” dantesco) aveva esteso i suoi domini in Siria fino a Bagdad, ricostituendo in parte il dominio di Nino e di Semiramide. Secondo alcuni commentatori, però, è possibile che Dante abbia confuso la Babilonia mesopotamica, capitale del regno assiro, con quella egiziana che sorgeva dove ora è Il Cairo. In questo caso al termine “terra” bisognerebbe attribuire il significato di città. | |
cattiva e bona ‘benchè vedova’. In Calabria spesso si aggiunge "e bona" come espressione concessiva. Vecchiu e bonu va cercandu mugghjeri ‘sebbene vecchio va in cerca di moglie’. Cattiva per ‘vedova’ è antica derivazione del lat. captiva, ‘privata del marito’ ma anche ‘prigioniera di guerra’. Dante fa qui riferimento a Didone, regina di Cartagine, che, vedova di Sicheo, si uccise perché trascurata da Enea di cui era innamorata. | |
fricau ‘fregò’. Infatti si dice che Achille sia stato ucciso da Paride mentre stava per sposare Polissena. Nel “Romanzo di Troia” di Beînot de Sainte-More, tradotto in volgare italiano nel Duecento e sicuramente conosciuto da Dante, si narra, infatti, che Achille, accecato d’amore per Polissena, figlia di Priamo, sia stato ucciso a tradimento da Paride. | |
stilli ‘destini’. E’ opinione del volgo che ogni vita si svolga secondo un destino presignato. E' un relitto mitologico o astrologico? Di persona che poteva aver miglior fine si suole dire la so' stilla chija fu (quello fu il suo destino, la sua stella). Notevole il fatto che stella in senso di destino mantiene la doppia l nel dialetto, mentre stella nel significato di astro, si volge stija; badare, inoltre, a non confondere stilli con l'italiano stille che in dialetto è stizzi (N.d.T.). | |
varanu ‘si muovono’. Il termine deriva da ‘vara’, tronetto che sostiene le statue quando vengono portate in processione. Deriva dal verbo varari, ’muoversi in mezzo’. Anche la folla sospinta si dice che vara o ch'è varata, portata di peso e non sui propri piedi. | |
fegurtà ‘facoltà, permesso’. Corruzione di fagurtà. | |
taliari ‘osservare, tenere d'occhio e quasi spiare’. Il termine è di origine siciliana ed in Calabria è ancora molto usato solo nella parlata delle comunità della costa reggina. | |
Ampena ‘Appena’. Nella parlata popolare è assai raro l'uso avverbiale di "appena". Ad "appena", infatti, si attribuiva il significato di quantità: "poco". Sicchè Dammi n'appena ‘i pani equivale all’italiano dammi un poco di pane. | |
sbirgau ‘svergò, lanciò’. | |
aniti (anche "oniti") ‘insieme’. | |
'assaria (dassaria) ‘permettesse’. | |
mu t'una (= mu ti duna ) ‘che ti dia’. | |
Eu su di chija terra... ‘Io sono di quella terra...’ E’ Ravenna, patria di Francesca dei Signori da Polenta, che andò sposa a Gianciotto Malatesta signore di Rimini. Ella era innamorata del fratello Paolo, insieme al quale, sorpresa dal marito, venne uccisa. E nci dilata cu ttutta l'acqua chi ppe bia l'apposta ‘E si allarga con tutta l’acqua che l’aspetta lungo il corso del fiume’. |
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ncamau ‘ammaliò’; affascinò fino a farlo rimanere attonito ed a stordirlo come ubriaco. Il termine - quanto mai bello ed espressivo nella sua particolare e caratteristica musicalità - è completamente scomparso dal dialetto calabrese . | |
frustata ‘vituperata’. Blasi, a proposito del termine frustata, annota «mi parve il modo migliore di rendere il concetto dantesco "il modo ancor m'offende". L'essere stata uccisa non l'è di corruccio quanto l'essere stata colta (e quindi uccisa) nell'atto peccaminoso». Il cosentino Vincenzo Gallo il verso “che mi fu tolta, e il modo ancora m’offende” lo ha tradotto ‘chi persi, e dire cuomu, è a mia nu stile’. Salvatore Scervini, invece, ha inteso tradurlo ‘mi l’ammazzaru, e cumu, ancora haiu nn’ira’. Non pecchiamo certo di campanilismo o di eccessiva ammirazione per Blasi se affermiamo che la sua traduzione è più musicale, più fedele al testo e più riuscita. | |
stama ‘filo dell’ordito, stame’. La zona di Laureana, come molte altre della Calabria, era assai ricca di esperte tessitrici. Il termine stama, infatti, appartiene al bagaglio lessicale di quelle lavoratrici. In altre zone variava in stamu o stame. | |
à mmu sgrama ‘deve gridare’. | |
dissaru ‘dissero’. Resta inalterato l'effetto artistico voluto dall’Alighieri che udì solo Francesca (di Paolo solo il pianto a conferma) e riferisce il discorso di entrambi. | |
chi sperrau ‘che proruppe a dire’. Sperrari , è ancora usato nel significato di ‘sferrare’ o di ‘mettersi in moto’; invece non è più usato nel significato di ‘cominciare a dire’. | |
li viscati ‘i raggiri’. Letteralmente li viscati sono le panie preparate con la sostanza adesiva ricavata dalle bacche del vischio ed usate per adescare gli uccelli migratori. Qui sono le lusinghe d’Amore. Blasi ricorrerà all’uso di questo termine anche nel canto XXII; vedi v. 142, nota 51. | |
cu la cchjù avanti ‘con quella che precedeva’. Blasi, volendo giustificare la sua interpretazione del “più avanti” annota: «perché questa determinazione? Perché è intuitivo che di due presenti, se uno parla per entrambi, chi parla si accosti di più» | |
sessinu ‘assassino’. Termine molto diffuso nella parlata popolare, al posto di assassinu |
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Per gentile concessione dell’Editore Pellegrini di Cosenza (a cui gli eventuali interessati possono prenotare la corposa pubblicazione di grande formato) e dell’amico Umberto Di Stilo (nostro apprezzato collaboratore) |