Giuseppe |
Nota Critica alla |
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di Ugo Vignuzzi Il rapporto fra quella che i linguisti amano chiamare (ormai quasi da un secolo e mezzo) l’“Italia dialettale” e il “Poema sacro […] a cui han posto mano e cielo e terra” – quella Commedia dantesca cui giustamente almeno dal Boccaccio in poi è stato indissolubilmente legato l’appellativo di “divina” –, come ha magistralmente messo in luce Ignazio Baldelli, uno dei maggiori studiosi insieme e della storia linguistica italiana e dell’opera di Dante, da sempre ha costituito un rapporto intenso, complesso, fecondo. Da sempre, cioè, per usare la suggestiva immagine del Maestro, l’“Italia dialettale” è stata metaforicamente “aggredita” dalla Commedia, con un’influenza e una penetrazione che non si sono fermate per così dire alla superficie o ai livelli più alti (più colti), ma che sono scese in profondità, diffondendosi in ampiezza anche fra gli strati più “popolari”: si pensi soltanto ai numerosi e vari modi di dire che dal testo dantesco sono penetrati nel linguaggio, anche dialettale, di tutti i giorni, ormai come veri e propri detti proverbiali dei quali magari chi li usa non riconosce neanche più l’origine… Con una differenza storica, tuttavia, e pure assai notevole: che se, in un primo momento, fino all’affermarsi dell’italiano (appunto basato in primo luogo, e amplissimamente, sul fiorentino dantesco), il dettato della Commedia è stato sostanzialmente riprodotto e diffuso nella sua forma originaria, e i copisti di tutte le altre parti e di tutte le altre parlate d’Italia si sono limitati a introdurre qua e là (pur se certo, e anche abbastanza spesso, in moltissimi passi!) le forme tipiche dei loro dialetti (a quell’epoca, più correttamente, in assenza di una lingua comune, “volgari”) – per cui nel Trecento abbiamo perfino alcune terzine dantesche copiate da un ebreo italiano appunto in scrittura ebraica, ma con la presenza di forme proprie del suo peculiarissimo volgare giudeo-italiano, forse romano –, dopo il definitivo stabilirsi della nostra lingua, quando gli idiomi locali hanno assunto quello status “oppositivo” tipico dell’epoca moderna (cioè “minoritario” e, purtroppo, fino a tempi recentissimi, nella coscienza comune, pervasa dalla cultura letteraria d’élite, “inferiore”), il Poema è diventato non solo un modello (anzi assai spesso il modello) di riferimento per la lingua ma anche il testo con il quale confrontarsi, sulla cui base operare nella prospettiva di un’“elevazione” dello stesso dialetto a lingua di scrittura “alta” (e cosa di più “alto” dell’opera dantesca ?), mediante la sua versione nella lingua locale, appunto la traduzione in dialetto. Intraprese di tal genere si vengono dunque a moltiplicare, a partire dal sec. XVI, infittendosi via via: e se agli inizi e sino al Settecento (e dintorni) si è trattato di iniziative marcatamente “letterarie”, con motivi e finalità strettamente collegate alle problematiche e ai dettami di quella che B. Croce ha definito con la formula (che nel nostro caso pertiene perfettamente) di “letteratura dialettale riflessa”, con il Risorgimento e la rivalutazione scientifica e culturale dei dialetti fra Otto e Novecento (si pensi soltanto alle posizioni pedagogiche di un Lombardo Radice !) le prospettive sono radicalmente mutate, esattamente nel senso di una “dialettalità” vista (e vissuta) come “tramite” (imprescindibile) nei confronti della lingua – o almeno della comune cultura – nazionale. Si potrà obiettare che, in un modo o nell’altro, si è pur sempre trattato di una visione del dialetto e della dialettalità comunque “ancillare” o almeno (anche se non esplicitamente) “subalterna”: però va subito precisato che non per questo può venire considerata (e soprattutto NON nelle intenzioni dei nostri autori) “svalutativa” o (se pur riconosciuta “inferiore” in qualche modo) mai realmente “deteriore”: anzi, del tutto correttamente e sostanzialmente “polare”, come si sarebbe definita in tempi recentissimi (epperò nella sostanza in termini ben presenti e chiari già ai poeti dialettali di cui stiamo parlando), rispetto alla lingua (e cultura) “alta”, “comune” nei suoi complessi rapporti con le lingue “altre”, i “dialetti” appunto delle “piccole Patrie” locali. Non è qui naturalmente il caso di ripercorrere tali itinerari nei loro sviluppi diversi, articolati e sovente non privi di contraddizioni, di incertezze (o fin anche di incomprensioni): basterà appena sottolineare il rilievo che il Poema di Dante ne ha costituito, e non a caso!, proprio uno dei loci privilegiati; è significativo (anche a conferma di quanto si è venuti dicendo) che già nel 1902 un linguista del livello di C. Salvioni potesse dedicare un primo studio complessivo (sia pure come contributo in primo luogo bibliografico) a La Divina Commedia, L’Orlando Furioso, La Gerusalemme Liberata nelle versioni e nei travestimenti dialettali a stampa (Bellinzona); ma il rinvio d’obbligo è oggi alla ricostruzione che, in tempi assai più recenti (nel ’77) un altro Maestro della storia linguistica italiana. Alfredo Stussi, ha operato circa la Fortuna dialettale della ‘Commedia’ (appunti sulle versioni settentrionali) (ora nel suo vol. Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 73-84). Nelle direttrici indicate rientra a pieno l’impresa di D. Giuseppe Blasi, un’impresa che, come ha mostrato egregiamente qualche anno fa U. Di Stilo nel suo bel volume sul Natale nella poesia del nostro Parroco (Laureana di Borrello, 1987), si inscrive e si collega sin dal suo primo concepimento negli e agli interessi culturali e pastorali di questa interessantissima figura di sacerdote calabrese, scrittore (anzi, poeta !) in lingua e in dialetto, sagace precursore della riforma liturgica e del coinvolgimento profondo del “popolo cristiano” nella actio divina, attraverso un uso attento e costante proprio dello strumento linguistico – non solo l’italiano, come stanno a testimoniare le sue commosse composizioni natalizie che lo collocano (senza che il Nostro sfiguri in alcun modo) sulla illustre traccia segnata da un “gigante” della spiritualità e anche della poesia religiosa italiana, pure lui meridionale, quale s. Alfonso M. de Liguori con i suoi “gioielli” natalizi, Quanno nascette Ninno a Bettalemme in dialetto napoletano e, in italiano, la celeberrima Tu scendi dalle stelle, tutti mirati all’“edificazione” del popolo di Dio e alla sua pietas, ma al contempo documenti illustri di poesia e di cultura (mi sia permesso di rinviare per tutto questo al saggio di Patrizia Bertini Malgarini e di chi scrive, La scelta linguistica di Alfonso M. de Liguori tra lingua e dialetto, in Alfonso M. de Liguori e la civiltà letteraria del Settecento, Atti del Convegno Internaz. per il Tricentenario della nascita del santo (1696-1996), Napoli 20-23 ottobre 1997, a cura di P. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1999, pp. 141-93). Anche per il Blasi l’impegno poetico si innesta e si congiunge dunque con una profonda istanza di natura pedagogica: basta rileggere l’inizio del secondo capoverso della sua “Prefazione”, là dove egli tratta dell’“utilità” della propria traduzione “Riuscirà certamente utile una traduzione vernacola del Divino Poema agli umili popolani che conoscono bene solo il proprio dialetto e, pur avendo ingegno e gusto per l’Arte, non assimilerebbero mai altrimenti quel gran tesoro di dottrina morale che è nella Divina Commedia. Utile, probabilmente, sarà agli studenti una versione dialettale scrupolosamente fedele anche alle sfumature del pensiero dantesco, benché essi attraverso la selva dei commenti sappiano leggere e decifrare il… volgare illustre. Li faciliterà, almeno. Utile a giustificare la… mia pretesa: che anche il dialetto di questa zona calabrese sia degno della considerazione dei folkloristi, non solo come espressione artistica di pensiero popolare spontaneo (questa la gode), ma anche come veste d’ogni pensiero, foss’anche il più riflesso, come quello dottrinario di Dante. Utile, forse, per l’incoraggiamento che una prova sì fatta può dare ai giovani della nostra regione non solo a creare in vernacolo, ma ad analizzare filologicamente il locale idioma, miniera inesausta della storia stessa del popolo che lo parla. Comunque, eccola qui la mia versione e, se dovesse qui fermarsi e non servisse ad altro che a dimostrare che Dante anche in questa zona della Calabria è accessibile ai contadini, la mia fatica non sarebbe sprecata.” Ma, come si è detto, non solo puramente pedagogica, ma pedagogica e pastorale insieme, in realtà “pedagogico-pastorale”, come non poteva non essere per una figura di sacerdote “senza scarti” quale quella di D. Blasi, caratterizzata proprio da una concezione di un sacerdozio “a tempo pieno”, “totale”: talché, appena dopo il brano citato, l’Autore si preoccupa da un lato delle questioni teologiche suscitate dal testo dantesco, e dall’altro anche di certe prese di posizione dell’Alighieri nei confronti di varie realtà e soprattutto personaggi della Chiesa del suo tempo – si pensi solo a Bonifacio VIII: preoccupazioni che al giorno d’oggi, in un contesto culturale ed ecclesiale fortemente mutato, potrebbero portare forse qualcuno a sorridere, ma che si spiegano perfettamente nel quadro della coscienza ecclesiale della sua epoca, e soprattutto che rientrano perfettamente proprio in quella prospettiva “pedagogico-pastorale” che rappresenta il “filo rosso” profondo sottostante all’intera, intensa e variegata attività (non certo unicamente quella letteraria!) del Parroco di Bellantone: il nucleo motivante, del tutto cosciente e coerentemente perseguito e sviluppato, di ogni sua intrapresa fin dagli anni della prima vocazione. Certo, come ci testimonia Di Stilo, nell’attività letteraria il degno sacerdote era sostenuto e favorito da una feconda vena poetica per così dire innata, sorgiva: ma lui stesso non era persona da indulgere corrivamente al dono naturale, se non sottoponendolo ad un serio vaglio critico ed autocritico, attraverso un lavoro di limatura e di miglioramento continuo cui si accenna anche nei primi passi della “prefazione”. Un lavoro sicuramente duro e logorante quanto tenace, che sta a testimoniare (qualora ce ne fosse ancora il bisogno) tutta la serietà (il “timore” e “tremore”, si sarebbe tentati di dire) con cui D. Giuseppe mise in esecuzione il suo proposito di volgere in “dialetto calabrese di Laureana” il “Divino Poema”. Iniziata “alla vigilia del VI centenario della morte di Dante”, la traduzione non andò, in un primo momento, oltre il canto V dell’Inferno (lo racconta lo stesso D. G. Blasi nella “Prefazione”, e cfr. anche il vol. cit. di U. Di Stilo): poi, solo nel ’30, con il conforto di autorevoli critici, il Nostro riprese l’aìre, anche se per le cure pastorali “non ci ritorn[ò] [sul lavoro di traduzione] che nel giugno del 1933 e solo a novembre pot[è] “riveder le stelle””; dell’agosto del ’34 è appunto il sonetto “Dopo la traduzione dell’Inferno” che si chiude, non senza un (più che motivato) compiacimento, con i versi:
“ Arditu eu fudi... E chi avi? No ttu perdi e nno eu pozzu perdiri, ca si’ comu lu raggiu: chi ttocca tocca lu fa straluciri.”
Più di due anni dopo, il 30 settembre 1936, portando a conclusione la traduzione della seconda Cantica (“Ncima a lu Purgatoriu”), faceva palese a tutti quanti sforzi e fatiche gli era costato il suo impegno (“Lu vitti bonu lu Secundu Regnu! / Ata la timpa ed âtu lu scaluni: / e nno ssapìa cchjù dd’ undi mu mi tegnu / ca ad ogni ppassu nc’era n’attuffuni.”); ma poi, finalmente, dopo due altri anni (ed è rimarchevole anche ormai il ritmo regolare acquisito dal Poeta traduttore), il 15 ottobre del ’38, arrivava “Ncima a lu Paradisu”, e poteva sciogliere il suo “Halleluja”:
“No ccatti, no... Ma ’nta ’stu petticeju sbattìa sempi, sbattìa, lu puricinu: mi mesurava cu’ nnu ceraveju chi ttutti lu dicenu ch’è “ddivinu”.
[…]
Fici chi ppotti fari... Chi bboliti? Si megghju lu volivu traduciutu, provàti vui e bbidìti s’arrescìti...
Aju mu lodu a Ddeu di quantu ajutu mi dezzi: di li magghji di ’sta riti mu nesciu e nnommu restu nsollenutu.”
Molto ci sarebbe ancora da dire sulla lingua letteraria dialettale di D. G. Blasi, sulle sue tecniche traduttorie, sulle sue interpretazioni dantesche: ma in questa sede è stato sufficiente inquadrarne la personalità nella prospettiva di quella “rinascita” delle lingue e delle culture dialettali che per mille vie, prima in genere “sotterranee” poi sempre più esplicite e palesi, hanno condotto alle rivalutazioni e “promozioni” recentissime. Del resto, le note del curatore U. Di Stilo affrontano e spiegano egregiamente moltissimi dei problemi della traduzione e delle soluzioni linguistiche adottate: valga un caso per tutti, quello del problema della resa dialettale del meraviglioso incipit del c. XXXIII del Paradiso con la preghiera di s. Bernardo alla Vergine (“Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio / […]” ’ “ Vergini e Mmatri chi tto’ Figghju âta / fici quantu eri ùmili, a na ura / di lu Cunsigliu Eternu decretata […]”) con appunto l’importante, e puntualissima, nota a Cunsigliu Eternu.
È
dunque giunto il momento di tirare i remi in barca: ma nel concludere
sia lecito poter esprimere, a chi ha vergato questi primissimi rilievi
critici, tutto il compiacimento, non solo nella sua veste
professionale di “addetto ai lavori”, per un’opera che veramente fa
onore non soltanto a Laureana di Borrello o alla Calabria ma a TUTTO
il nostro Paese. In quell’”Italia delle Italie” nella quale le culture
locali, “altre”, da sempre hanno costituito l’elemento costitutivo
intrinseco ed essenziale della Cultura nazionale (quella, per
intenderci, “alta”), in un incontro/confronto tanto più fecondo quanto
più intimo, non solo l’impresa del Parroco di Bellantone D. Giuseppe
Blasi è di un valore e di un significato che va ben oltre il circuito
e la risonanza locale, ma la stessa pubblicazione di questa sua così
importante (e prolungata) fatica assume l’aspetto e la portata, a
tutti gli effetti, di un vero EVENTO, di cultura e di civiltà – e ne
dobbiamo essere pienamente grati non solo al poeta, ma anche, del
tutto giustamente, a chi, da molti anni, ne ha propugnato e poi reso
possibile la realizzazione. |
Blasi Giuseppe: «Nota Critica alla Divina Commedia in dialetto calabrese»,
di Ugo Vignuzzi, Santiago de Compostela (Spagna),
4 novembre 2001, festa di s. Carlo Borromeo