Giuseppe |
Atteso evento nel mondo culturale calabrese: probabilmente prima del prossimo inverno e per i tipi delle edizioni Pellegrini |
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di Umberto Di
Stilo Ricorrendo ad un termine sportivo, con intima soddisfazione, posso finalmente affermare che, lo scorso 27 gennaio (2001) in un grosso comune dell'hinterland milanese, ho concluso il mio accanito e deciso inseguimento al dattiloscritto della "Divina Commedia" tradotta in dialetto calabrese (e della Piana reggina, in particolare) dal sacerdote-poeta Don Giuseppe Blasi (Laureana 1881-1954) [1]. Si è trattato di un inseguimento snervante ma soprattutto lungo, visto che si è protratto per (quasi tutto) l'intero arco dell'ultimo trentennio. Tutto è bene, però, quel che finisce bene e la gioia del traguardo raggiunto ha annullato le fatiche e le delusioni che, in qualche occasione, hanno caratterizzato la mia "cocciuta" determinazione e la mia ostinata ricerca. Ora, il traguardo raggiunto mi appaga come alunno non mai troppo riconoscente verso il suo maestro ma mi soddisfa soprattutto come cultore della poesia dialettale e come piccolo e modesto operatore culturale a cui è data la possibilità di sollecitare e di favorire sempre più, mediante un altro importante tassello, la conoscenza di un Autore che, nonostante la sua grande produzione letteraria, e poetica in particolare, è ancora sconosciuto alla grande platea culturale calabrese. E' dagli ormai lontani primi anni settanta che con caparbietà andavo alla ricerca del dattiloscritto. Non certo per tenerlo chiuso in un cassetto della scrivania e dare copia di questo o di quel canto a pochissimi e fidati amici, ma per pubblicarlo e farlo diventare patrimonio della cultura calabrese e, soprattutto, materia di studio per i glottologi ed i dialettologi. Oltre che per i critici e gli appassionati di poesia dialettale, convinto come sono che pur trattandosi di una fedelissima "traduzione", questa versione in vernacolo calabrese della Divina Commedia di Blasi spesso supera per bellezza linguistica l'originale italiano ed offre al lettore versi di grande efficacia lirica. Anche per questo è con compiacimento che anticipo ai lettori di Proposte, - e tramite loro a tutti i calabresi - che tra alcuni mesi, - forse ancora prima del prossimo inverno - per i tipi dell'Editore Pellegrini di Cosenza e grazie al patrocinio del Comune di Laureana, la "versione calabra" della Divina Commedia di Giuseppe Blasi, sarà a disposizione di quanti vorranno "gustare" tutto il poema dantesco nella nostra musicalissima parlata. E' grazie ad essa che tutte le più riposte bellezze dell'immortale poema, le tenui sfumature, le superbe similitudini e le immaginose figurazioni, trovano risalto efficace e vivida espressione. Merito di Blasi che, da profondo conoscitore del dialetto, - sulla scia dei grandi Conia, Martino, Mastru Bruno, Ammirà... - è riuscito a dargli dignità di elevata espressione artistica al punto che la sua traduzione della "Commedia", in diversi brani, supera l'efficacia letteraria del testo originale. A tal proposito in una lettera indirizzata all'avv. Giuseppe Marzano (figlio dello studioso Giovan Battista, autore tra l'altro del Dizionario etimologico del dialetto calabrese) Blasi, molto modestamente, riteneva che il merito del felice risultato poetico dovesse essere attribuito "solo ed esclusivamente al vigore del dialetto" mentre dove la traduzione "non riesce abbastanza felice, la colpa è del nostro attuale pensiero ben più maturo perché possa rivivere il momento storico in cui la frase è generata". Il prof. Ludovico Perroni-Grande, studioso appassionato e critico autorevolissimo, dopo aver letto alcuni brani della Divina Commedia tradotta in dialetto dal Blasi (che è riuscito a pubblicare solo i primi cinque canti dell'Inferno ed il sesto del Paradiso) scrisse che si trattava di "saggi felici che meritano di essere apprezzati dagli studiosi come interpretazioni perspicaci del Sacro Poema, oltre che come tentativi non inutili, anzi assai opportuni, di rendere accessibili in mezzo al popolo calabrese il pensiero e l'arte di Dante". Blasi cominciò a tradurre la Divina Commedia - dopo aver tradotto direttamente dal greco la Batracomiomachia - nel 1921, allorché in occasione del sesto centenario della morte del Poeta fiorentino, volle ricordare l'anniversario con la pubblicazione della versione dialettale del primo canto dell'Inferno sulla "Piccozza", periodico di arte, letteratura e informazione che si pubblicava a Laureana e del quale il buon parroco di Bellantone era tra i più assidui e qualificati collaboratori. Dopo una interruzione protrattasi per poco più di un decennio, incoraggiato da molti critici ed amici (tra i quali il prof. Raffaele Corso) riprese la traduzione dell'Inferno che portò a termine nel 1934. Due anni dopo completò il Purgatorio e soltanto nel 1938 compose il verso "Cui lu Suli ndi movi e lu Stijatu", che è l'endecasillabo conclusivo del Paradiso. Lo stesso anno il Can. A. Albanese, cancelliere della Curia Vescovile di Mileto, così come aveva già fatto alcuni anni prima per l'Inferno e per il Purgatorio, appone l'imprimatur per la pubblicazione sull'ultima pagina della cantica. Perché una Divina Commedia in dialetto? La domanda se l'è posta anche Blasi e in una pagina della prefazione all'opera, ci fornisce la risposta: "Riuscirà certamente utile una traduzione vernacola del Divino Poema agli umili popolani che conoscono bene solo il proprio dialetto e, pur avendo ingegno e gusto per l'Arte, non assimilerebbero mai altrimenti quel gran tesoro di dottrina morale che è nella Divina Commedia". Poi aggiunge: "Utile, probabilmente, sarà agli studenti una versione dialettale scrupolosamente fedele anche alle sfumature del pensiero dantesco, benché essi attraverso la selva dei commenti sappiano leggere e decifrare il… volgare illustre". Sotto quest'aspetto l'opera è attuale come allora. Più di allora. Con la sola differenza che la lingua popolare di oggi è molto diversa da quella parlata oltre mezzo secolo addietro perché la scuola obbligatoria, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, la possibilità di spostarsi da una parte all'altra dell'Italia e, non ultima, l'emigrazione, hanno determinato cambiamenti radicali nel dialetto e nell'uso di esso. Oggi - anche nei ceti popolari - è difficile che venga usata la lingua che fu dei nostri genitori e di tutta la nostra gente. "Culta" od "inculta" che fosse. Oggi, quando si ricorre al dialetto è facile intuire che non è più quello di un tempo, quando le espressioni erano ricche di termini etimologicamente legati alle nostre radici greche o sapevano di origini latine, arabe, spagnole e francesi, testimonianza viva degli antichi conquistatori. Oggi, semmai, mescolato al nostro dialetto è possibile trovare qualche termine inglese mentre la struttura principale di ogni discorso è fatta da un italiano semplice e con termini spesso italianizzati quasi che sia una vergogna parlare il lessico che fu dei nostri genitori. Tutto ciò ha fatto diventare il dialetto calabrese (il dialetto "classico", ovviamente, quello che un tempo era parlato dal popolo) una sorta di "lingua morta" quasi come il latino e come il greco, perché come il latino e come il greco, quel dialetto, ha costituito la parlata dei nostri antenati. E -non è una provocazione ma piuttosto una proposta su cui sarebbe interessante aprire un confronto tra i lettori di questa rivista- come il latino ed il greco anche il dialetto dovrebbe diventare materia di studio. Almeno nelle classi della scuola dell'obbligo, se non si vuole cancellare una identità culturale e linguistica che ci appartiene. La lingua dialettale usata da Blasi per la sua versione della Divina Commedia è una miniera inesauribile di studio e di approfondimenti linguistici e glottologici. Soprattutto perché ci riporta ad espressioni ed a lemmi ormai del tutto scomparsi e dei quali si rischia di perdere definitivamente ogni memoria giacché non sono stati registrati dagli autori dei vari dizionari dialettali. Blasi è "classico" anche nel dialetto. Anche sotto quest'aspetto, dunque, e non soltanto sotto quello squisitamente poetico, la pubblicazione della sua Divina Commedia costituisce per la cultura calabrese uno di quegli avvenimenti destinati a rimanere nella storia letteraria regionale (e reggina, in particolare). C'è, poi, da ricordare, che nessun poeta, sino ad oggi, in tutto il territorio provinciale (ma neppure in quello delle vicine province di Vibo e di Catanzaro) si era cimentato nella traduzione "letterale" dell'intera opera dantesc In dialetto cosentino c'è la traduzione allestita da Salvatore Scervini di Acri. Per il resto, in tutta la Calabria, si annoverano tentativi operati da altri poeti che, però, si sono limitati a tradurre episodi isolati od al massimo qualche cantica, come Francesco Li Marzi che, nell'ormai lontano 1874, pubblicò la traduzione del Paradiso. Personalmente, con la pubblicazione della Divina Commedia di Blasi, sia pure dopo molti anni, potrò saldare il debito morale che idealmente avevo sottoscritto negli ormai lontani primissimi anni cinquanta allorché il Poeta, nella magnanimità pari solo alla sua vastissima cultura, fu mio gratuito precettore e maestro e, come tale, per diversi mesi fu pronto ad ospitarmi nella sua casa di Bellantone la cui porta è stata sempre aperta a quanti (e non solo di Laureana) avevano le capacità intellettive (che raramente si abbinavano a concrete possibilità economiche) per avvicinarsi agli studi classici.
Nei
primissimi anni settanta nella veste di ultimo (in ordine di
tempo) ma sempre riconoscente alunno di Don Blasi, sollecitai il
sindaco di Laureana, avv. Michele Ragone, a rendersi
promotore della pubblicazione della Divina Commedia e delle
altre opere del defunto parroco della popolosa frazione
Bellantone. L'idea piacque e fu subito recepita dal primo
cittadino tant'è che, soprattutto per dare all'iniziativa la
sua giusta caratterizzazione culturale ed evitare che potesse
essere strumentalizzata sul piano politico-amministrativo,
volle costituire un comitato (formato da professionisti di
Laureana e da pochi "amici" provenienti dai paesi
limitrofi). Ad esso venne demandata l'organizzazione di un
piano editoriale finalizzato a far conoscere la figura del
parroco di Bellantone, mediante la pubblicazione di tutte le sue
opere. Ma l'iniziativa fallì, non tanto per le continue crisi
che caratterizzarono le alterne vicende della maggioranza
amministrativa, quanto perché ci trovammo privi dei testi delle
opere che volevamo pubblicare. Il professionista da tutti
ritenuto depositario della vasta produzione letteraria di
Giuseppe Blasi, infatti, con varie motivazioni, non fu mai
propenso a mettere a disposizione del Comitato - del quale egli
stesso faceva parte - i dattiloscritti della Divina
Commedia ed i manoscritti di moltissime altre opere poetiche in
lingua ed in dialetto. Adesso se, a quasi mezzo secolo dalla
morte dell'Autore, la Divina Commedia in dialetto calabrese sta
per diventare concreto patrimonio della cultura regionale -
oltre che orgoglio di tutti i laureanesi - lo si deve alla
sensibilità ed alla disponibilità della signora Maria Rosa
Suriano (ma anche della madre e dei suoi cinque fratelli) che,
come pronipote del defunto poeta, mi ha autorizzato alla
pubblicazione mediante la consegna del "prezioso"
dattiloscritto e sciogliendo, di fatto, il vincolo della
"proprietà riservata" che lo stesso Blasi, prima di
morire, ha provveduto a registrare all' "Ufficio
internazionale per la protezione dei diritti di autore presso la
società delle nazioni" di Ginevra. Un gesto, questo della
famiglia Suriano, per il quale il mondo culturale calabrese le
sarà sempre riconoscente. |
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Pubblicato su Proposte, n° 15, Febbraio 2001. |
Nel 1987 al poeta-parroco di Bellantone ho già dedicato l'unico studio monografico esistente sulla sua vasta produzione letteraria: Il Natale nella poesia di Blasi, pubblicato a cura dell'Amministrazione Comunale di Laureana. |