NARRATIVA

 

Gagliato in the World

 

 

 

HOME PAGE

 

 

 

 

L’altra Calabria

su

MediaCenter.

Per informazioni,

clicca

sulla

miniatura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mastro Turi

e lo zio canadese

 

di Vincenzo Pitaro

 

Quella mattina non s’era udito il dolce tintinnio, proveniente dalla forgia di mastro Turi.

Tutto il vicinato era ormai abituato a quel suono, tanto che se non lo sentiva per un giorno ne faceva quasi una malattia.

Quel tin-tin mattutino era ormai divenuto familiare e puntuale per tutti.

Quando mastro Turi batteva il primo ferro caldo sull’incudine, specialmente nel periodo invernale, significava ch’erano già le sette e che bisognava alzarsi dal letto. Cosa che lui era solito fare con le prime luci dell’alba, bruciando sul tempo persino il gallo del suo pollaio che, quasi per dispetto, non cantava mai alla stessa ora.

Quella mattina, dunque, qualcosa era accaduto.

«E’ strano», bisbigliò l’avvocato Peppino Salvi, rannicchiato nel caldo delle sue coperte di ginestra, «sembra giorno ed ancora mastro Turi non si sente!».

«Può darsi che ancora sia presto o, chissà, che sia andato a comperare il ferro!», rispose la moglie.

«Beh, facciamo gli scongiuri, auguriamoci che non si sia sentito male», continuò l’avvocato Salvi, mentre si accingeva a girarsi dall’altro lato.

La moglie, Donna Concetta, intanto si alzò per preparare il bra­ciere. Aprì la finestra ed ebbe una grande sorpresa: i tetti delle case, con i loro fumaioli già fumanti, erano tutti imbian­cati.

«Ha nevicato», esclamò, «e ne ha fatta molta! Vieni a vedere  Peppino!».

Il mistero, per l’avvocato Salvi, quindi, apparve chiarito: mastro Turi, quella mattina, aveva preferito restarsene a letto, imitando, sia pure per un giorno, quei pochi signorotti del paese che se lo potevano permettere.

Più ci rifletteva, l’avvocato, e più l’ipotesi gli sembrava vero­simile.

Ma in casa del povero ferraio, nel frattempo, aleggiava un fervo­re diverso. La moglie Carmela, una donna alta e magra che non riusciva a star ferma neppure per un minuto, considerando il non far niente una vera e propria afflizione, quella mattina, pareva essersi svegliata con la luna di traverso.

«Alzati Turi, è già tardi e fuori c’è un metro di neve! Dovrai spalarne un po’, altrimenti non si può neppure uscire: tu non puoi andare alla forgia ed io non posso arrivare al pollaio per vedere se c’è qualche uovo fresco per i bambini».

Mastro Turi ascoltava con apatia, evitando di rispondere, se non con qualche mormorio evasivo.

«Turi alzati, tu non puoi startene a letto come un signorino!», ripeté la moglie, alterando sempre di più il tono della voce. «Sei nato tondo, tu, lo vuoi capire che non puoi morire quadro!», urlò.

«E smettila di cianciare, una buona volta», sbuffò infastidito mastro Turi, «ché adesso, al primo chicchiriare, mi alzo!».

Ma neppure il gallo, quella mattina, col freddo che faceva fuori, si degnò di emettere il suo solito chicchirichì.

Mastro Turi trangugiò in una sola sorsata un goccio di caffè con l’anice e se ne restò a letto, supino, con le mani dietro la nuca e lo sguardo fisso in un punto vago del soffitto.

Era stato un sogno, altroché, a fargli assaporare il gusto di starsene a dormire, quella mattina.

Aveva sognato il padre, buon’anima, che gli diceva:

«Turi, è giunto il momento di cambiare vita. Fai bene attenzione a questi tre numeri... riceverai una gran somma che ti permetterà di stare con un’anca sopra e l’altra sotto per il resto dei tuoi giorni».

E così, con la testa ancora in subbuglio, mastro Turi continuava a fantasticare. Lo assalivano pure frammenti di dubbi, e non ci fu verso di farlo balzare dal letto, manco con le cannonate.

In quel momento, più d’ogni altra cosa al mondo, avrebbe deside­rato continuare quel sogno, comodamente fra due guanciali, non foss’altro che per poter conoscere meglio suo padre, volato in cielo che lui aveva appena quindici anni.

«Chissà cosa mi avrebbe suggerito? Chissà quale altro aiuto avrebbe potuto darmi, assieme a quei numeri?», si domandava mastro Turi, con un senso di rammarico.

Ma la moglie, insensibile, tosta come una capra svizzera, l’aveva svegliato di soprassalto.

«Turi, si può sapere che t’è successo stamattina?», insistette nuovamente con tono contrariato.

«Carmela! Carmela mia, ho fatto un sogno assai bello, stanotte!», disse con voce flebile mastro Turi. «M’è venuto in sogno quel sant’uomo di mio padre: era lì, alto, sorridente, con il baston­cino in mano, la barba bianca che sembrava San Francesco di Paola, e con la sua solita voce possente mi ha detto: “Turi è arrivato il momento di cambiarlo questo tuo vivere losco e crude­le. Ho pregato a lungo, per te, e, finalmente, i santi del Para­diso mi hanno concesso l’opportunità di aiutarti. Giocati questi tre numeri, Turi, e il mondo ti cambierà sotto gli occhi. Avrai tanti soldi e tutti si leveranno il cappello quando t’incontrano per strada. Vedrai la gente come ti saluta: buongiorno Don Turi, riverisco Don Turi... tutti s’inginocchieranno ai tuoi piedi... persino l’avvocato Salvi dovrà abituarsi!”».

«Dio santo!» esclamò Carmela. «E perché mai la gente dovrebbe inginocchiarsi ai tuoi piedi? Che sei diventato tu, il Salvatore?... Eppoi, l’avvocato Salvi?, che c’entra l’avvocato Salvi? E’ tanto buono con noi, poveretto! Ti saluta da un miglio di distanza se ti scorge per strada! E’ tanto rispettoso, sia lui che donna Concetta!».

«Sangue di Giuda», disse mastro Turi, pensando sempre a quei numeri, «non potevi venire a svegliarmi mezz’ora più tardi, stamattina! Sei arrivata proprio nel più bello, proprio quando la buon’anima di mio padre stava per dettarmi quei tre numeri da giocare! Ed ora?... Ora me ne ricordo solo due, dannazione!, il tre e il dodici».

«E l’altro? Prova a fare mente locale, non te la prendere», cercò di rincuorarlo la moglie, «è probabile che prima o poi ti salti in mente».

«Macché!», sbottò mastro Turi, innervosito, nel mentre s’alzava dal letto per dirigersi verso il trespolo1 di legno che abbrac­ciava giro giro il braciere, appena preparato da Carmela.

Si sedette a piedi nudi sull’orlo della rota, appartò la cenere smuovendo la brace con la paletta, gettò una  buccia secca di arancia, e rimase lì, a pensare, per alcuni minuti.

«Sangue di Giuda», replicò, «mi ricordo solo il tre e il dodici».

«Sai», disse Carmela, «e se passi da comare Caterina, più tardi? Lei, dicono che va con i morti, sa interpretare bene i sogni... Ti saprà certamente dire qualcosa».

Comare Caterina non era una magàra2, come le circostanze potreb­bero far credere. Era una donna benestante, stimata da tutti, non solo nella ruga ma in tutto il paese; una donna lavoratrice, abile al telaio, che peraltro aveva imparato dai suoi avi a togliere il malocchio e, perfino, l’occhio di Chiesa3.

«Va’ da comare Caterina e fatti sciommacare!4», era solita dire la gente, in paese, quando qualcuno accusava un forte mal di testa o si sentiva le gambe intorpidite, sbadigliando di continuo come un affamato.

Pur senza pretendere in cambio alcun compenso, comare Caterina si prestava volentieri alla tradizionale pratica dello sdocchiare5, accogliendo in casa propria i suoi compaesani. Quasi nessuno, tuttavia, andava a trovarla a mani vuote: le portavano noci, castagne, uva di malvasia, mandaranci e qualsiasi altro frutto di stagione. A volte, finanche confezioni americane di zucchero o di caffè, le portavano.

«Vai da comare Caterina, più tardi», disse nuovamente Carmela.

«E che le porto?», domandò mastro Turi, preoccupato, con l’aria di uno che aveva avuto chissà quale guaio.

«Portale un po’ di uova fresche. Ce ne saranno, stamattina, nel pollaio».

Mastro Turi, si alzò dalla sedia, avvertendo una momentanea sensazione di sollievo. Fece un sospiro, quasi liberatorio, e poi andò a lavarsi. Si vestì in quattro e quattr’otto, prese una pala e raggiunse lo spiazzo di terra antistante che lo separava dalla forgia e da un orticello familiare.

La neve era davvero tanta. Ne era caduta più di sessanta centime­tri, e ne continuava a scendere dell’altra. Una nevicata del genere, non se la ricordava da tempo e per un attimo ebbe l’im­pressione di essere tornato bambino.

Da ragazzo non vedeva l’ora che nevicasse. Faceva salti di gioia quando cominciava a vedere i primi fiocchi cadere dal cielo, ed usciva di casa, salterellando come un capriolo, col capo scoper­to, tanto da indurre la mamma, sempre prodiga di apprensioni, a corrergli dietro per acchiapparlo, paurosa che gli venisse un malanno. Mastro Turi ricordò subito quei momenti di gaia spensie­ratezza. Molti ricordi da fanciullo gli si affollarono nella mente, al punto di avvertire, sia pure per qualche istante, un forte desiderio di tuffarsi nella neve come un pesce, di giochic­chiare o sgambettare con ilarità briosa, come faceva da piccolo col padre che, ad ogni nevicata, lo aiutava a costruire un enorme pupazzo di neve, proprio lì, su quello stesso suolo pianeggiante.

«Che strana coincidenza», pensò mastro Turi, «stanotte ho sognato mio padre ed oggi ha nevicato proprio come ai tempi in cui campa­va lui, ridandomi la gioia e l’innocenza di un tempo!».

Quella neve gli pareva di buon augurio. Anzi, la considerava come un regalo fattogli dal padre, al punto che già gli dispiaceva persino di spazzarla e la trattava con delicatezza. Poi, sollevò lo sguardo al cielo, aspirando profondamente l’aria del mattino, ed incominciò a spalare, ammucchiandola ai bordi, fino a raggiun­gere il pollaio di fronte. C’erano cinque uova. Le prese e le portò dentro casa; ne mise due da parte per i bambini e le altre tre, avvolte in un tovagliolo, le lasciò sul tavolo, per portarle a comare Caterina.

Tornò fuori, ricominciò a spalare altra neve, con in testa di nuovo quel sogno e quei due numeri.

«E se ne gioco solo due?», si domandò mastro Turi. «Non otterrò magari una grossa vincita, non sarò ricco e straricco, ma qualco­sa, di sicuro, prenderò! Ma no, che dico?, se i numeri erano tre, non servirà a nulla giocarne due. E come se costruissi un tripode a due piedi. Che senso ha? Se non ha il terzo a che serve!».

In quel  lasso di tempo, si trovò a passare, per la strada, Vittorio Rampa, con un impermeabile giallo e un paio di stivaloni che lo coprivano fin sopra il ginocchio.

Mastro Vittorio, un uomo basso e tarchiato che fino al giorno in cui prese il posto di cantoniere aveva patito la fame, era un tipo allegro ed estroso, assiduo frequentatore di bettola ed abile giocatore di tressette. Amava spesso pavoneggiarsi e si divertiva a sfottere le persone che abitualmente frequentava. Ma di mastro Turi, che non era il tipo da farsi posare la mosca sul naso, si guardava bene. Con molti altri paesani, invece, mastro Vittorio era solito vantarsi, di percepire tanti di quei bigliet­toni, ogni mese, da poter cospargere le strade del paese.

«Ci vuole la carriola, quando vado alla Posta per pagarmi!», aggiungeva poi con saccenteria.

In realtà, mastro Vittorio, che da qualche anno s’era collocato a riposo, percepiva una pensione che ad uno come mastro Turi, ad esempio, non sarebbe bastata neppure per comprarsi i toscanelli6 che riusciva a fumare in un mese. Ma per Vittorio, soprannominato Rampasentieri (un po’ per via del suo cognome e un po’ per il mestiere di cantoniere che aveva esercitato), era già tanta. A lui bastava un piatto di cicerchie7 a pranzo, una manciata di giuggiolena8 la sera, una bottiglia di vino di cartella9, ed era felice.

«Ben svegliato, mastro Turi, buongiorno!, quanta neve stamattina, eh!», gli gridò dalla strada Vittorio Rampa.

«Buongiorno, buongiorno, compare Vitto’, voi sì che ve ne fotte­te! Avete ormai tirato la barca all’asciutto!».

«Eh sì, ne ho fatta abbastanza, io, di fatica, caro mastro Turi!... che ancora ho la schiena che scricchiola come una sedia vecchia! Ora è pure giusto, porco mondo!, che mi goda la pensio­ne. Per chi devo lavorare più io?, i figli ce l’ho tutti all’estero. Per me e per mia moglie quello che ci passa il gover­no basta ed avanza», rispose mastro Vittorio, mentre a passo lento sulla neve, già di primo mattino, si avviava verso la bettola del paese.

Uscì la moglie di mastro Turi.

«Con chi gridavi, Turi?... Con chi ce l’avevi?».

«No, niente! passava da qui quel balordo di mastro Vittorio, ha salutato ed io gli ho risposto... Vedi com’è la gente?, se ti fai rispettare ti rispetta! Se invece ti fai prendere la mano, ti saluto piede di fico! Una volta, quell’ubriacone, quando ancora faceva il cantoniere, venne alla forgia: Compare mastro Turi qua! e compare mastro Turi là!, mi chiese di costruirgli una falciola. Impiegai tre giorni per fargliela. A lavoro ultimato avrei dovuto pagarmela di santa ragione, ma poi mi dispiacque, mi fece quasi compassione, e gli chiesi di pagarmi solo il ferro che avevo comperato, di darmi cioè un migliaio di lire. Le parvero troppe, a quello straccione. Non voleva neppure pagarmi. Poi, addirittu­ra, a me, a mastro Turi!, si permise di dire: Sapete, non per le mille lire, ma per una questione di principio... perché io, con quanto prendo al mese, posso cucirvi addosso un vestito di banco­note... Dio mi perdoni, ma meno male che se ne andò via di corsa, sennò quella mattina l’avrei strozzato. Più tardi, si trovò a passare la moglie, la chiamai e le dissi: qua, fatemi una corte­sia, portate questa falce a vostro marito e ditegli di non farse­ne un problema per i soldi, che può passare a pagarmela con comodo... Non passò neppure mezz’ora, e venne la moglie stessa a portarmi quelle mille lire e a dirmi che, suo marito, si faceva le scuse, in quanto mai e poi mai avrebbe inteso essere offensi­vo. Da allora, ogni volta che passa, saluta (buongiorno! buonase­ra!), ma fuori dal piatto. Non ne ho mai avuti, io, di questi amici. Ché si fosse ricordato di quante volte la mia famiglia sfamò la sua, non si sarebbe permesso di venirmi a dire, nemmeno per scherzo, che con i soldi che prende in un mese potrebbe cucirmi un vestito addosso... Mi ricordo, come se la vedessi ora, la madre quando veniva a casa nostra per chiederci un tozzo di pane per i figli. E noi, che grazie a Dio non ci mancava nulla, le davamo sempre qualcosa. “In suffragio dei morti”, diceva sempre mia madre e le riempiva il faddàle10 di quel che capitava: pane di casa, fagioli, ceci, lenticchie, fichi secchi, noci. Ed ora, che si è visto quattro soldi di pensione, si crede chissa­chì... Ha perso la testa, ma se crede di poter alzare la cresta con tutti, si sbaglia!».

La moglie Carmela era già rientrata in casa, ma mastro Turi, spalando, continuava a parlare da solo, a voce alta, come se stesse discutendo con qualcun altro. E spalava, parlava e spala­va. Si fecero le dieci, rientrò in casa, si diede una ripulita, prese le uova che aveva deposto sul tavolo e s’incamminò per andare a trovare comare Caterina.

La vide sulla scala esterna, con la sua immancabile tovaglietta11 nera sulla testa. Stava anche lei, con una paletta in mano, togliendo un po’ di neve dal pianerottolo.

«Buongiorno a voi, comare Caterina!», salutò mastro Turi.

«Buongiorno mastro Turi! Quale buon vento, stamattina, con la neve, vi porta da queste parti?».

«Sono venuto a trovare voi, comare Caterina».

«Salite! Fate attenzione a non scivolare. Avete visto quanta neve ci ha mandato il Padreterno?...».

«Eh già, proprio a questo pensavo stamattina: una nevicata così non la vedevo dai tempi in cui ero bambino!», rispose mastro Turi, salendo.

«Accomodatevi. Voi qui siete sempre il benvenuto! Ce la siamo sempre passata bene con la vostra famiglia», disse comare Cateri­na, facendogli strada nella sua stanza, al cui centro troneggiava un grande braciere in rame.

Mastro Turi ringraziò, per l’accoglienza ricevuta, e poi disse:

«Vi ho portato tre uova fresche, comare Caterina. Non sapevo proprio cosa portarvi?».

«Che dovevate fare! Vi volete sempre incomodare. Non potevate lasciargliele a quelle due creature che avete a casa!».

«Ce n’erano solo cinque, stamattina, nel pollaio, e due le ho lasciate per i bambini... Sapete, comare Caterina, sono venuto da voi per raccontarvi un sogno... Ho sognato mio padre, stanotte, che non sembrava tanto contento della sorte, a me sempre avversa. Voleva fare qualcosa per aiutarmi... Mi stava dettando tre numeri da giocare, ma poi Carmela, proprio nel più bello, è venuta a svegliarmi... Ed ora, di quei numeri, ricordo solo il tre e il dodici. Voi non potreste darmi una mano?, se vi capita di venirvi in sogno...».

«Quella buon’anima di vostro padre, eh! era un gran lavoratore... Che Dio l’abbia sempre in gloria!, era molto attaccato a voi... voleva che cresceste sano, robusto ed educato. Turi, Turi mio, diceva sempre, non voglio che da grande soffra come ho sofferto io!... Fin che posso, io che ho sempre lavorato alla cava, andrò anche a zappare il campo di Chimirri12, pur di aiutarlo!».

A mastro Turi, nel sentire quei discorsi, gli s’inumidirono gli occhi dalla commozione. Stava per venirgli un groppo alla gola che, a momenti, gl’impediva persino di parlare.

«Purtroppo, il destino ha voluto così!», continuò a dire comare Caterina, «se n’è andato che voi eravate troppo piccolo... Ma dite, e quel vostro zio che sta in America, come sta? Non scrive?, non dà più segni di vita?».

«Chi, zio Turi? No, non si è fatto più sentire dopo quella que­stione avuta con mio padre, a causa del nonno. Non l’ho mai conosciuto, io, zio Turi... So solo che porto questo nome in suo onore, ma non so neppure com’è fatto!».

«Come, a causa del nonno?», chiese comare Caterina, mentre gli porgeva una tazza di tè con una fetta di limone, appena preparato sul braciere.

«Ma come, non lo sapete?... Quando partì per Toronto, zio Turi, avrebbe voluto portarsi anche il nonno. Per poterlo assistere meglio, diceva. Ma mio padre non fu d’accordo... E così, una sera ebbe con lui un’accesa discussione... lo minacciò persino con un vecchio revolver: “Il tata13, tu, non lo porti da nessuna parte, hai capito!”, urlava come un ossesso, “Sennò ti sparo in fronte e me ne vado in galera! Com’è vero che mi chiamo Peppe Codispoti!”. Ma non lo diceva col cuore, mio padre... Non riusciva ad ammazza­re manco una mosca e cercava di apparire un duro solo per metter­gli paura. Cosicché, mio zio, per evitare questioni in famiglia, partì da solo. Era su tutte le furie e se n’andò gridando: “Questi infami!... Credono che io voglia portare mio padre, a Toronto, per mangiargli la misàta14! Questi infami!...”.

Tornò, poi, alla morte di mio nonno, stette una settimana, ma con mio padre non si degnarono neppure d’uno sguardo. Me la raccontò varie volte, mia madre, questa storia... Diceva ch’ero ancora in fasce quando successe il fatto... Come avrei potuto conoscerlo, avvenne quarant’anni fa, proprio quanti ne ho io, oggi! A que­st’ora, mio zio, è più che ottantenne... Comunque, comare Cateri­na, non è di lui che son venuto a parlarvi, ma della buon’anima di mio padre, che mi lasciò che avevo quindici anni e che ora m’è venuto in sogno, facendomi arroventare il cervello con quei numeri...».

«E ve li ricordate, ora, quei numeri?», chiese comare Caterina. «Eppoi, dove andreste a giocarveli? Nei paesi qua vicini, non credo!, dovreste come minimo arrivare a Catanzaro...».

«Ma anche in capo al mondo ci andrei!, se solo potessi cambiare questa vita... Non tanto per me, quanto per l’avvenire di Giusep­pe e Mariuccia. Quel che mio padre non ha potuto dare a me, vorrei almeno poterlo dare io a quelle due creature... Ma il lavoro, lo sapete, purtroppo è quello che è!».

«Beh, vorrei tanto potervi aiutare» disse comare Caterina «ma non dipende solo da me. Aspettiamo qualche settimana e vediamo s’è possibile, in sogno, parlare con vostro padre».

«Mi raccomando, comare Caterina! Fatemelo questo favore, non dimenticatevi».

«State tranquillo, mastro Turi. Non disperate!».

Sicché, mastro Turi, contento, si avviò verso casa.

Passarono tre giorni e le sue implorazioni non caddero nel vuoto. Quella notte, la santa donna ebbe modo d’incontrare, in sogno, compare Peppe. Gli parlò di suo figlio, gli raccontò delle sue preoccupazioni, e lui, annuendo, rispose: “Sono già al corrente di tutto, comare Caterina. Quel mio Turi, non ha capito proprio nulla di quanto ho avuto modo di dirgli, l’altra notte, in sogno. Spiegateglielo voi, per benino, che gli ho dato quei numeri non per andarseli a giocare. E’ stata solo la sua fantasia, al risve­glio, a dettargli quelle parole che io non ho mai osato pronun­ciare. Non gli ho mai detto, ad esempio, che la gente dovrà poi inchinarsi ai suoi piedi. Che tutti gli dovranno portare rispet­to, sì, è più che giusto, ma non che lo debbano riverire chiaman­dolo don Turi! Voglio che mio figlio continui ad essere se stes­so, che mantenga sempre l’umiltà dei grandi. Solo sapendolo ricco anche di animo e di cuore, continuerò ad essere felice. Sennò sarà del tutto inutile continuare a disprezzare la superbia di molti poveri-arricchiti che, in terra, si credono dei Padreterni! La vita non può continuare ad essere dominata dall’egoismo, dall’indifferenza e dai più bassi istinti! Ditegliele queste cose, perché sono molto importanti per un uomo. E ditegli pure che comprendo quel suo farneticare. Lo so benissimo che la vita, finora, gli ha sempre procurato amarezze e frustrazioni e che, per questo, ha un forte desiderio di riscatto. Ma ditegli che non sono i fronzoli e le etichette, che molti si appiccicano davanti al nome, a fare di un uomo un grand’uomo. Ditegli, ancora, che non l’ho abbandonato e che il terzo numero è il settanta”, ag­giunse compare Peppe. E poi scomparve.

Comare Caterina, al mattino, quando si svegliò, apprezzò molto quella lezione di vita e si ripassò nella mente, lettera per lettera, il saggio discorso del padre di mastro Turi. Poi, di buon’ora, andò a riferirglielo per filo e per segno. La forgia era già aperta e mastro Turi, come al solito, continuava a batte­re il ferro rovente sull’incudine. Quando vide comare Caterina, sulla porta, rimise nella fucina a mantice il ferro che stava modellando e, con il cuore pieno di gioia, la invitò ad entrare.

«Buongiorno, comare Caterina, siete riuscita ad avere qualche buona notizia?», domandò.

«Sì, mastro Turi, finalmente vostro padre m’è venuto in sogno», rispose comare Caterina.

Si sedette e raccontò tutto a mastro Turi che, con gli occhi sgranati, stava lì ad ascoltare in religioso silenzio. Il povero ferraio rimase di sasso; quelle parole, a momenti, non segnarono l’apice del suo crollo morale. Poi, facendosi coraggio, trovò la forza di cambiar discorso, chiedendo: 

«E il numero? Ve l’ha dato, poi, il terzo numero?».

«Sì», disse comare Caterina, preoccupata più a raccontargli per primo quella specie di paternale che altro, «mi ha dato anche il terzo numero, è il 70, ma ha pure detto che non serviranno certo per andarveli a giocare!».

«Tre, dodici, Settanta!», esclamò mastro Turi, più tetro che mai, con l’atteggiamento di chi celava un’ansia tormentosa. «E cosa mai dovrei fare, io, con questi numeri, se non posso neppure andarmeli a giocare! Non ve l’ha detto, questo?...».

«No, mi ha detto molto, caro mastro Turi, ma questo non me l’ha proprio detto».

Cosicché, mastro Turi, confuso da quella ramanzina fattagli dal padre, e da quei numeri su cui non sapeva darsi una ragione, abbandonò, svogliato, il lavoro che aveva appena iniziato, chiuse la forgia ed accompagnò comare Caterina lungo la via del ritorno. Cercava di appurare qualcos’altro, di trovare una logica spiega­zione a tutto ciò, ma la donna, suo malgrado, non seppe aggiunge­re nulla. Poi mastro Turi la ringraziò, salutandola con affetto, e rincasò. Era sconvolto e l’angoscia gli stravolgeva i lineamen­ti.

«Turi, che t’è successo?», gli chiese la moglie, vedendolo rien­trare a quell’ora piuttosto insolita.

Corse subito in cucina, bevve un bicchiere d’acqua, quasi per placare la sua agitazione, e poi s’affrettò a raccontare a Carme­la ciò che gli aveva appena detto comare Caterina.

«La lezione di mio padre posso pure capirla!», continuò a tormen­tarsi mastro Turi. «Ma quei numeri? Cosa mai potranno significare quei tre numeri benedetti? Non credo che portino male... Capisci qualcosa, tu?».

«Capisco meno di te, Turi, ma qualcosa sicuramente vorranno significare!... Non a caso è stata la buon’anima di tuo padre a dettarteli in sogno! Eppoi, hai visto quante cose nuove ha rive­lato a comare Caterina... Te lo dicevo, io, che va con i morti!».

Mastro Turi, impressionato e non sapendo a cosa credere, tornò in cucina a bere un altro bicchiere d’acqua e, con la scusa di sentirsi poco bene, s’infilò nel letto, rifiutando persino il pasto di mezzogiorno.

L’indomani, smaltito ogni turbamento, poté riprendere il lavoro di sempre. Era il 28 novembre e correva l’anno 1970. In paese, con anticipo, erano già arrivati i fierari15 per la festa del patrono San Nicola, e già si respirava aria di Natale.

Non passava giorno, ormai, senza che mastro Turi pensasse ai messaggi accorati trasmessigli dal padre, attraverso comare Caterina. Era sempre stato gentile con tutti, in paese, ma d’al­lora la sua cortesia era di gran lunga aumentata. Persino i rapporti con Vittorio Rampa, il cantoniere, erano migliorati. Ormai aveva imparato ad essere tollerante con tutti.

«Salutiamo, don Turi!», gli disse, col suo solito modo di fare, il Rampa, incontrandolo per strada.

«Ma quale don Turi!», rispose lui, serenamente. «Il “don” ce l’hanno solo le campane, i preti e i mafiosi!, ed io non sono tra questi tre... Sono solo un umilissimo cittadino, né più né meno come voi, mastro Vitto’».

Era così notevole il cambiamento in mastro Turi che finanche un rozzo come il Rampa lo notò, tanto che la sera (cenando) non si trattenne di raccontarlo alla propria moglie:

«Tota, ma lo sai che mastro Turi, da qualche tempo, lo vedo diverso! E’ più cordiale anche con me, benché non potesse più digerirmi dopo quell’affronto che gli feci, quella volta, dentro la sua forgia, quando andai a commissionargli quella falciola».

«A me non è mai sembrato un uomo scortese», rispose la moglie. «Sarà stata una tua impressione, per via di quel litigio... ed ora, visto ch’è passato un po’ di tempo, comincia ad apparirti più cordiale».

«Beh, è probabile che sia così!», si convinse Vittorio Rampa che, nei giorni successivi, passando davanti alla sua forgia, conti­nuava a salutarlo con sempre maggiore riguardo.

Un giorno, era il 30 di novembre, a mastro Turi giunse un tele­gramma dal lontano Canadà.

«Chi sarà mai?», pensò mentre firmava la ricevuta al postino che glielo consegnava. Lo aprì ed ebbe la notizia che a Toronto quel suo zio Samy (Salvatore) Codispoti, che portava il suo stesso nome, era deceduto all’età di ottantadue anni.

Era emigrato prima della guerra, da semplice panettiere, qual era, e oltreoceano aveva fatto fortuna, arrivando a possedere una catena di ristori, in tutta Toronto, ed una fabbrica di paste alimentari. Era, insomma, divenuto un bosso16, come lo chiamavano i suoi sessanta dipendenti, tutti connazionali.

«Ed ora, che diavolo vorranno, moglie e figli d’uno zio che neppure ho conosciuto!», disse mastro Turi a sua moglie.

«Cosa vorranno?, sei l’unico nipote, qua in Italia, e hanno sentito il dovere di avvertirti!».

«E cosa vuoi che me ne freghi di quel bastardo!», urlò mastro Turi, con una smorfia di disgusto. «In quarant’anni non ha mai sentito il dovere di farsi vivo ed ora si presenta qui da morto?! Ma guarda un po’, tutti a me devono capitare!».

«No, Turi, non dire così! D’altronde, sempre sangue del tuo sangue è! Che figura ci facciamo con i paesani... E’ morto uno zio che, per giunta, porta il tuo stesso nome e cognome e non gli facciamo dire neppure una messa in suo suffragio? No, Turi, ragiona, dobbiamo tenergli il lutto... Dopotutto era tuo zio... L’unico vero che avevi!».

«E vabbè!», disse mastro Turi, lasciandosi prendere dalla commo­zione, «vado ad avvertire don Luigi per la messa e dico pure al sagrestano di suonare il mortorio».

Il rintocco della campana fu tempestivo. Quel martellare lento del battaglio, quella volta, non fu certo gradevole come quello che, solitamente, usciva dalla forgia di mastro Turi.

E la gente, si chiedeva:

«Chi è morto?».

«Un paesano in America!», rispondeva qualche vecchietta, per la strada. E così mastro Turi, volente o nolente, tenne il lutto, a casa, per lo zio canadese e la gente che andò per fargli visita fu numerosa.

Alcuni giorni dopo, il 3 dicembre, sempre dal Canadà, a quell’in­fausto telegramma, che mastro Turi ancora teneva sul comodino, seguì una lettera. La ritirò Carmela, poiché mastro Turi era andato a far legna in un podere vicino.

L’aprì accuratamente. Era la moglie del defunto  zio Samy, che, con un perfetto italiano, comunicava a mastro Turi un lascito, per testamento, di una somma, a quei tempi, davvero astronomica.

«Lo zio Samy», spiegava quella lettera, «benché coniugato non ha mai avuto figli ed ha lasciato ogni bene immobile, compresa l’attività commerciale, alla moglie Mary e un contante in dollari per un valore di 200 milioni di lire al suo unico nipote Salvato­re (Turi) Codispoti, che lo stesso potrà legittimamente incassare dopo aver comunicato nome e località della banca italiana a lui più vicina».

Quando tornò Turi e apprese la notizia dalla moglie, per poco non svenne.

A casa sua arrivò anche comare Caterina che, tra le braccia del povero ferraio e di Carmela, venne subito informata del signifi­cato effettivo di quei tre numeri: 3-12-70.

Erano il giorno, il mese e l’anno, in cui la vita, per mastro Turi e famiglia, si sarebbe finalmente decisa di sorridere.

 

© Copyright by Vincenzo Pitaro in «Antologia di Scritti Calabresi», 1995

 

NOTE

 

1 Trespolo. Treppiede, che qui sta per la ruota di legno che reggeva il braciere, sulla quale, stando seduti, si potevano pog­giare i piedi.

2 Magàra. Donna che esercita la magia.

3 Occhio di Chiesa. Secondo un’antica cultura contadina, con tale definizione s’intendeva che la trasmissione del malocchio era avvenuta in chiesa (durante la celebrazione di una messa o nel corso di altre particolari ricorrenze, come matrimonio, battesi­mo, cresima) e quindi l’influsso malefico, che incideva sulla psicologia della gente, era ancora più forte.

4 Sciommacare. Suffumicare. Antico rito, ascrivibile alla società contadina, praticato per togliere il malocchio o l’occhio di Chiesa alle persone che, sottoposte alla pratica dello sdocchia­re, non avvertivano a distanza di giorni alcun segno di migliora­mento. La donna preposta a questo rito approntava debitamente una paletta con delle braci, su cui faceva ardere pezzetti di palma e di foglie d’ulivo benedetti, unitamente a granelli d’incenso an­ch’esso benedetto, e girando intorno al «paziente» per tre volte, ripeteva, sempre mentalmente perché non si sentisse, alcune formule.

5 Sdocchiare. Pratica dedicata per togliere il malocchio.

6 Toscanelli. Sigari d’origine toscana.

7 Cicerchie. Dal latino cicercula, diminutivo di cicer, cece. Frutto di una pianta erbacea rampicante, simile al pisello, che i contadini più poveri usavano come minestra.

8 Giuggiolena. Semi tostati di sesamo.

9 Vino di cartella. Vino che di uva non aveva proprio niente, in quanto preparato con alcune misture mescolate nell’acqua. Un tempo, specialmente nel meridione, il «vino di cartella» era la bevanda dei poveri.

10 Faddàle. Grembiale. Lembo rialzato del grembiale.

11 Tovaglietta. Copricapo femminile in uso nella società contadi­na di una volta. Specie di mantiglia che, probabilmente, trae origine dal costume femminile spagnolo.

12 Chimirri. Ricco proprietario terriero, peraltro già ministro dell’agricoltura, agli inizi del ‘900.

13 Tata. Termine di origine meridionale che qui sta per padre.

14 Misàta. Pensione, stipendio.

15 Fierari. Venditori ambulanti nelle fiere o nei mercati all’aperto.

16 Bosso. Nel dialetto calabrese il bosso è il principale, cioè il capo di una ditta o di un’azienda.

 

 

 

 

Rassegna Stampa

sul

WebSite.

Per visualizzarla,

clicca

sulla

miniatura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

◄News

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Copyright by L’altra Calabria

Registrazione: Tribunale di Catanzaro n° 15/91 del 18 Gennaio 1991

www.laltracalabria.it

All rights reserved International copyright secured

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Home Page►