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Gagliato in the World |
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Le
«Fantasie capricciose» del
marchese di Gagliato di Vincenzo Pitaro Il 3 marzo
1711 il regio banditore Luigi Moccia dava lettura in Napoli di un bando
emanato il 25 febbraio precedente. Essendo dato
alle stampe e pubblicato un libello satirico e sedizioso dal titolo Fantasie
capricciose, ad opera di un non ben precisato Ramigdio Glatesecha, si
ordinava a chicchessia di non venderlo o ritenerlo, in quanto «s’è
riconosciuto che contenga notizie false e temerarie». La pena per i
trasgressori sarebbe stata oltremodo severa: l’esilio «et altre pene a
discrezione nostra» per le persone di nobile lignaggio; cinque anni di
«galea» per i librai e per tutte le persone non nobili. Che cosa
conteneva di tanto scandalistico il libro incriminato per far allarmare le
Autorità? E chi era lo sconosciuto autore che si celava sotto lo pseudonimo
di Ramigdio Glatesecha? Per la
verità il nome era noto sia al viceré, sia a tutti coloro che da più di un
anno avevano letto il libro. Era stato lo stesso autore che, in ultima
pagina, aveva rivelato che lo pseudonimo, apparente sul frontespizio, altro
non era che l’anagramma del Marchese di Gagliato. L’autore era dunque un
nobile; per la qual cosa difficilmente sarebbe stato perseguito, a meno che
le colpe non fossero state di una certa gravità. L’intrepido
Marchese di Gagliato era Giovanni Sanchez de Luna, alla cui famiglia questo
marchesato apparteneva fin dal 1627, allorché per matrimonio le fu ceduto dai
Morano. I Sanchez, che vi incardinarono il titolo di Marchese, furono i soli
feudatari che a Gagliato ricoprirono tale titolo nobiliare; fatto salvo un
loro diretto discendente, Sanchez de Luna, appunto, che vi incardinò il
titolo di Duca. Stando a
quanto vi si legge nelle Fantasie capricciose, Sanchez de Luna non dovette
per niente essere un tipo molle e neghittoso, amante solamente dei piaceri
mondani e indifferente ad ogni interesse culturale. Tutt’altro. Egli fu un
uomo colto, appassionato dei classici latini - specialmente Cicerone e
Tacito - con spiccato interesse per la cultura moderna pervasa, in quel
tempo, dal razionalismo illuministico. Disdegnò però i deisti definendoli
«scemi di senno e allucinati di intelletto». Sanchez non
amò altresì la vita mondana di corte e quella rumorosa della città. Volle
decisamente rifuggire dalle mollezze usuali all’aristocrazia del suo tempo;
la quale non gli risparmiò lazzi e rimproveri per quelle sue «stramberie» che
lo inducevano a menare vita appartata. Per ritrovare se stesso, come andava
ripetutamente affermando, preferiva ritirarsi nelle quiete delle terre di
Calabria e quivi immergersi nello studio e nella lettura dei classici
antichi, e di tutto ciò «che germoglia dagli alberi eruditi del Liceo, dello
Stoa e del Peripato». In effetti,
il Marchese Sanchez de Luca amò sovente ritirarsi fra i suoi possedimenti di
Gagliato, presso il mare Jonio, per ritrovare serenità di spirito, diletto e
saggezza che molti suoi parigrado concittadini ignoravano e disprezzavano.
«Qui vivo in grembo all’innocenza», egli scriveva nei suoi Capricci,
«ed osservo puntualmente i precetti della morale, aspettando la morte e
sospirando i continui infortuni capitatimi in patria». Affermazioni,
queste, che fecero dire a Pasquale Lopez, autore di un saggio critico sul
Marchese di Gagliato, che non furono solo la quiete e l’amore dei classici
che spinsero il Nostro a lasciare la vita movimentata di Napoli. Ma, a detta
di Lopez, dovettero concorrere non poco, a tale suo divisamento, la serie di
peripezie in cui si trovò coinvolto e le vicende storiche che interessarono
il Regno. All’inizio del ‘700 ebbe delle liti in pendenza con il Principe di
Satriano, Girolamo Ravaschieri, e con il Duca Marincola di Petrizzi, i quali
lo avevano accusato di complicità con alcuni briganti calabresi. Altre contrarietà
gli vennero procurate dalle vicende storiche più in generale. Difatti aveva
riposto molte speranze negli Austriaci, quando vi subentrarono agli Spagnoli. Fece molto
affidamento sull’arciduca Carlo d’Asburgo perché a Napoli ci fosse un futuro
migliore, piena giustizia nei confronti di chi «rubava la roba agli
innocenti», e maggiore rispetto negli antichi valori. Grande fu la sua
delusione quando si avvide che coi nuovi venuti era cambiato il «padrone non
già la condizione»! Ad
esasperarlo ancor di più concorsero, infine, la guerra di successione e lo
scontento del popolo per le continue vessazioni e gabelle cui veniva fatto
oggetto. Fu tutta questa serie di contrarietà che lo convinsero di scrivere
«qualcosa» attraverso cui potesse dare sfogo, prima di finire i suoi giorni,
a tutto ciò che di amaro gli ribolliva dentro. In questa disposizione di
spirito, si risolse a scrivere le Fantasie capricciose: un indice di
vizi e di aspetti più deteriori della classe agiata. Ne ebbe per tutti e per
tutte le categorie sociali. I suoi
strali iniziarono riprendendo il comportamento licenzioso e permissivo di
«certe Dame» fatte per «rovinare i loro rispettivi mariti». Proseguirono
nei confronti del ceto nobiliare che, trascurando l’utile della patria per i
propri piaceri, «non ha che un sol occhio per vedere le sue miserie».
L’acrimonia che il Sanchez de Luna usò nei confronti dei nobili, alla cui
classe egli stesso alla fin fine appartenne, derivò da un suo personale
convincimento secondo cui quelli fossero assolutamente insensibili agli
sviluppi politici della Nazione. Il Sanchez de Luna fece parte della schiera
di quei patrizi illuminati che tanto ebbero a cuore le sorti e le fortune
della patria, e più conseguentemente si prodigarono per garantirne un futuro
migliore ed un nuovo ordine politico, in cui l’aristocrazia avrebbe dovuto
ricoprire un ruolo prioritario. Il pamphlet ebbe come obiettivo appunto
questo: scuotere la classe dominante dal secolare torpore, per farla uscire
dall’ignoranza, affinché assurgesse alla guida politica e morale della
Nazione. I motti satirici non risparmiarono nessuno. Coinvolsero
indistintamente clero («migliore sarìa bruciargli in chiesa le mani, ma dalla
vostra casa fargli stare sempre lontani»); i medici, «costretti a dar da
intendere al vulgo ignorante lucciole per lanterne»; per poi ammassare in un
unico fascio, speziali, magistrati, avvocati, fin a coinvolgere l’intera
Napoli che definiva «tutta vota di cervello». Scoperto e
ritenuto responsabile della «sediziosa operetta» Sanchez de Luna confessò
subito d’esserne l’autore. Per prima cosa fu fatto rinchiudere nel Castel di
Sant’Elmo per cautelarlo da qualche malintenzionato, il 14 gennaio 1712. Il
successivo 25 febbraio veniva emanata la condanna ed informati quanti ne
erano stati oltraggiati di richiederne le opportune riparazioni. Queste
giunsero tempestive con delle formali scuse, chiaramente di circostanza, di
Ramigdio Glatesecha che, dopo qualche mese di prigione, fu ricondotto in
libertà. Si spense a Napoli il 10 aprile del 1714 ed il giorno dopo fu
sepolto, nel sacello di famiglia, nella chiesa dell’Annunziata. Lo «Jus
primae noctis» tra storia e leggenda La figura di
un certo Marchese Sanchez, molto probabilmente un antenato dell’autore delle Fantasie
capricciose, è circonfusa da un alone di leggenda che a Gagliato si
tramanda di padre in figlio e di generazione in generazione. Si tratta
beninteso di leggenda, nel senso che non si hanno riscontri oggettivi nelle
documentazioni storiche. Ma avendo tutte le leggende qualche indiscutibile
documento storico, vale la pena esporla così come viene narrata dagli anziani
di questo centro. In epoca
medievale Gagliato era infeudata ad un certo Marchese Sanchez, al quale le
giovinette che intendevano convolare a nozze dovevano pagare il tributo del
«jus primae noctis». La
consuetudine si protrasse alquanto nel tempo; senonché giunse in età da
prender marito una graziosa fanciulla appartenente alla famiglia di ben
precisati Codispoti. Malauguratamente - per il Marchese, s’intende - la promessa
sposa aveva quattro robusti fratelli i quali, armati di tutto punto, attesero
in casa l’arrivo dei birri che la dovevano prelevare e condurla al Palazzo. Giunti a
destinazione, i tre bravi furono assaliti dai fratelli Codispoti, uccisi e
fatti a pezzi. I loro corpi furono esposti nei pressi di Porta San Carlo ad
un albero di olivo (che, per l’appunto, ancora oggi porta il nome di «olivara
‘o quartu», a significare i quarti in cui erano stati ridotti quei corpi)
spacciandoli per carne macellata di fresco. Il Marchese,
a sua volta braccato dagli animosi fratelli, riuscì a salvarsi nascondendosi
in un materasso imbottito di paglia che fu fatto trasportare dai domestici,
fuori paese, al sicuro. Del
singolare Marchese non si sa se sia più tornato o meno nei suoi possedimenti,
o che fine abbia fatto in seguito a quello episodio. Di certo si sa che da quel giorno nessun altro feudatario osò
più in Gagliato e nei dintorni avanzare richieste di tal genere. |
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