ARTIGIANATO |
Gagliato in the World |
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Le attività
artigianali, unitamente a quella agricola e bracciantile, erano le sole
risorse economiche che un tempo costituivano gli unici mezzi di
sostentamento, per la maggioranza della popolazione, a Gagliato. Fra gli
artigiani non mancavano muratori ('nzalarmacàri), falegnami e sarti (custurìeri);
c'era persino qualche fuochista (maschjàru) ed alcuni scalpellini. Ma
le attività artigianali più redditizie, per la ricercatezza del prodotto, che
si esercitavano pressoché in tutte le famiglie, erano la coltura del baco da
seta e la lavorazione e tessitura della ginestra. Il baco da
seta II baco da seta ('u sìricu} lo si custodiva in
casa, frequentemente nell'assito del sottotetto. Si allestivano, su graticci,
gli opportuni giacigli cosparsi di felci e vi si depositavano le provviste di
foglie di gelso bianco ('a frunda}, vigilando che nell'ambiente ci
fosse una temperatura ideale perché le uova potessero dischiudersi e
facessero uscire le larve. Quando queste erano cresciute e ben satolle, si
sistemavano penzoloni su un sostegno e dormivano le cosiddette «tre dormite».
All'ultima delle quali, quella che precedeva la formazione del bozzolo ('u
cucùdhu}, e che è detta «la grossa», si diceva che «'u sìricu dorma a
mundu», cioè profondamente, della grossa, appunto. Ancor
oggi, nel linguaggio dialettale corrente, di una persona tardigrada o lenta
di comprendonio, si dice che «dorma a mundu cùomu 'u sìricu». Infine,
dopo le tre mute, fuoruscivano i bozzoli che venivano venduti ai setaioli
degli opifici di Catanzaro e Reggio. La ginestra La
raccolta della ginestra, il «fior gentile» caro al Leopardi, avveniva nei
mesi di giugno-luglio; negli altri mesi, o era tenera, o troppo legnosa. Il
lavoro, così come per il baco da seta, era completamente demandato alle sole
donne. Esse si partivano all'alba a tagliare l'odoroso arbusto, e, raccolto
in fascine, lo portavano a valle in prossimità di un corso d'acqua ('u
fjuma, 'a Prisa, 'Ncinàla, ecc,). Qui, le fascine, assicurate per bene a
delle grosse pietre, venivano lasciate nell'acqua corrente per qualche
giorno. Dopo di che si allestiva un grande paiolo ('u caddarùni) e, a
fuoco intenso, le si mettevano a macerare. Dopo alcune ore di bollitura nel
ranno ('a lisìa), le fascine venivano lasciate raffreddare; quindi,
depositate nella gora ('a cebbia) perché fosse portato a termine il
processo di macerazione. Passata una settimana, si procedeva alla battitura
ed alla scorticatura. Le fibbre venivano strofinate su delle grosse pietre
fin a che la parte interna, lanosa, non fosse fuoruscita. Dopo tutto questo
po' po' di procedimento, era la volta della cardatura e della filatura.
Finalmente si passava ai telai azionati a mano. Racconta qualche persona
anziana del paese, che un tempo non c'era rione che non risuonasse dei gemiti
dei telai. Uscivano, così, mirabilmente, tovaglie, asciugamani, coperte, vancàli,
e persino indumenti intimi. Delle vecchie tessitrici di ginestra, una delle
ultime fu mia nonna, Caterina Sestito. Alcune coperte trapuntate a mano e
ricamate, che ella forgiò con amore e maestria, nonché con duro lavoro, le
custodiamo in famiglia con religiosa cura. Analogo
procedimento si usava per la lavorazione del lino i del cotone. (© Francesco Pitaro,
in GAGLIATO, RADIOGRAFIA DI UN PAESE DI CALABRIA, pp. 195, luglio 1989) |
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