TRE STRAPPONE E UN CHIRURGO PLASTICO

 

C’erano tre strappone che si dimenavano su un parallelepipedo. Non era un cubo; non erano delle cubiste. Erano parallelepiste di conseguenza? Me lo sono chiesto per pochi secondi. Il tempo di una digressione estremamente silenziosa con il mio cervello. Muto anch’esso. Mi sono voltato e la ragazza con cui ballavo non c’era più. Si sa, funzione prima del digredire è quella di allontanare. E in effetti lei ne aveva subito approfittato. Aveva lasciato solo le scarpe. Tacco basso, nere, vera pelle, lucide, approssimativamente misura trentanove. No; quaranta. Il numero era stampato sulla suola. Ottima manifattura; ma io porto il quarantadue. Forse il calzolaio le avrebbe potute adattare. Il mio calzolaio è più bravo di un chirurgo estetico. Allarga là, stringe qua. I tagli non si vedono. Certo, se si fa attenzione si nota la differenza. Come il seno di Renata. Il giorno precedente all’intervento era una prima scarsa. Il giorno dopo una terza abbondante. E si teneva su magnificamente. Era il regalo per il mio compleanno. Davvero un bel regalo. Non ho per niente rimpianto quei dieci milioni. Certo, al momento di firmare l’assegno mi tremava alquanto la mano. Ma l’immagine di quella stessa mano che catturava e sprimacciava un vero seno mi convinse. I primi giorni le doleva molto e non si poteva toccare. Anzi, era preferibile evitare di fare all’amore: diceva. Poi migliorò ma era ancora troppo sensibile: dichiarava. Il chirurgo ha detto che è indispensabile che stia a riposo: aggiunse in seguito. Credo di non averlo mai toccato: io. Luigi sì, invece. Nella mia camera da letto. Lui fa l’architetto. Ha due figli. E’ alto, robusto; ha una cabriolet blu metallizzato. Una magnifica auto. Duemila di cilindrata. Sedici valvole. Da zero a cento in pochi secondi. Io non ho la patente. Uso i mezzi pubblici. Ma passano di frequente. Non mi pesa affatto. La metro puzza un po’. La prendo di rado. Ma gli autobus no. Il centoventotto è una buona linea. E’ quello che prendo sempre. Una sera, di ritorno dal lavoro, ero rimasto solo; io e un vecchio ubriacone aggomitolato su una poltroncina. Intorno a noi c’erano solo auto, raccolte come mosche su una zolletta di zucchero; e motorini, ronzanti. L’autobus percorreva la corsia preferenziale. Delimitata dalle strisce gialle. Ma pareva fosse preferenza un po’ di tutti quella sera. Così osservavo le persone. Alcune avevano lo sguardo che si infrangeva contro il parabrezza, come in un riflesso. In attesa che si sbloccasse l’ingorgo. Altre erano attaccate al cellulare. Ad esorcizzare il defluire incessante del tempo. E l’autobus andava. Lentamente, proseguiva la sua corsa. Nessuno saliva. Nessuno scendeva. E dopo chissà quanto giunse allo stazionamento. In Piazza Tuscolo, credo. Ma io abito da tutt’altra parte. L’autista aveva deciso di cambiare percorso quella sera. Non gli andava di fare la solita strada: dichiarò castamente. Mentre il barbone cambiava posizione e si andava a sdraiare sulle poltroncine del fondo, quelle disposte in corrispondenza del motore. Quelle che si fondono e aderiscono ai pantaloni. Andandoci assunse un’espressione bonaria che mi ricordò il gatto di mia nonna. Era un siamese enorme che si accoccolava sul suo plaid, sistemato sul suo grembo. E mia nonna ne approfittava per schiacciare pisolini. Dormivano insieme per ore. Li lasciavo così, al mattino, prima di andare a scuola. E quando tornavo, erano ancora lì. Mia nonna aveva già mangiato; anche il gatto. Così diceva mia madre. E si raccomandava di non fare rumore. Poi si svegliava verso le cinque. Anzi, apriva gli occhi alle cinque in punto, precisa come un orologio. E cominciava a dare ordini a chiunque le capitasse a tiro. Prendimi la settimana enigmistica che il gatto dorme. Portami un bicchiere d’acqua; no questa non va bene perché è troppo fredda; ma non c’è quella minerale? ma è effervescente naturale? cambia canale che ci sta ‘Buongiorno’ sul quinto canale. Lei infatti rispettava la numerazione canonica che andava dal primo al quinto canale. Tanto che si chiedeva spesso perché al sesto canale ci fosse sintonizzato Italia 1. Pensava che il conflitto d’interessi nascesse dal fatto che il cavaliere voleva prendere il posto di Rai 1, al primo canale. E votava a sinistra perché era affezionata a Rai 1 con i suoi varietà. Un giorno, alle cinque, mia nonna non si svegliò. Aprì gli occhi il gatto siamese. Andai a controllare l’orologio pensando che andasse avanti. Ore cinque e tre minuti… ore cinque e tre minuti; confermò con voce metallica l’ora esatta. Allora andai da mia madre e le dissi che la nonna era morta. Mia madre mi urlò che ero uno stupido. Quindi entrò il gatto siamese nella cucina, con la coda a forma di punto interrogativo, ondeggiando e strusciandosi contro le sue gambe. E mia madre prese a piangere. Dopo qualche giorno morì pure il gatto siamese. Un vero peccato perché cominciava ad accoccolarsi sulle mie gambe. E allora: vammi a prendere un bicchiere d’acqua: dicevo a mia sorella. No questa è troppo fredda; ma non c’è quella minerale?; quella con le bollicine. E pensavo che alle volte mi sarebbe piaciuto essere dell’acqua minerale. La bevono tutti. Avrei potuto essere parte contemporaneamente di tante persone. Del resto il corpo di un uomo è formato per il settanta per cento d’acqua. E mi chiedevo se l’alcol andava più giù nel profondo. Si sarebbe potuto scoprire molto più della gente. Almeno di quella non astemia. E crescendo ne sono stato sempre più convinto. E così facevo attenzione a non esagerare per non lasciar capire troppo di me. E preferivo perdermi nella musica. Quella anni settanta mi infonde sempre nuova energia. E alla festa con le strappone che ballavano c’era l’atmosfera giusta. La giusta musica. E le giuste persone. Poi le strappone se ne andarono. E la ragazza con la quale ballavo fece altrettanto. Mi lasciò solo le sue scarpe. Numero trentanove. Anzi quaranta. Ma non credo che le porterò dal calzolaio, anche se è bravo come il chirurgo plastico che…

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