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Rosa e i bambini Entrando in Roccamurata, scendendo da Gorro, nella prima casa a destra abita Gino Saia. Vive solo in una casa fin troppo grande per lui, anche se al sabato quasi sempre riceve la visita del figlio Paolo che vive a Parma. Gino è uno dei pochissimi ad essere ancora tra noi, dopo aver contratto la "spagnola" nel 1918. Ci riceve con qualche difficoltà, all’inizio poi, grazie alla presenza dell’Erminia, ci invita ad entrare. Piano piano il suo fare burbero muta. Quando gli chiedo notizie su quei dolorosi avvenimenti accaduti nella sua famiglia, colgo un mutamento nel suo sguardo, gli occhi si fanno un po' lucidi. Si vede che la sua mente va indietro, molto indietro nel tempo, Tutto poteva immaginare, ma non che qualcuno, a tanti anni di distanza, gli potesse chiedere notizie su avvenimenti tanto lontani. Di anni ne ha 88, ma quando sua madre mori di "spagnola" nel novembre del 1918, lui era un piccolo, inerme bambino di tre anni. Ed è quello che subito mi dice nel dialetto di Roccamurata che è un misto di borgotarese e bercetese. "A gh’av tri an ... ch’me faghia a ricurdèr" (Avevo tre anni, come faccio a ricordare). Mi racconta di avere anche una sorella: la Delia che abita a Rapallo. Anche lei c'era, anche lei contrasse la "spagnola". Dall'incontro con Gino, da notizie raccolte da nipoti e vicini e dalla famiglia della sorella, è stato comunque possibile ricostruire quanto accadde. ***** La casa era nei pressi della stazione ferroviaria di Roccamurata, appena al di là delle sbarre del passaggio a livello. Era quasi un'appendice dell'osteria ancora oggi attiva. Rosa Pesci viveva in questa casetta a due piani con quattro figli: Guerrino di 11 anni, Roberto di 10, Delia di 6 e Gino di 3 (nota: figli di Giuseppe Saia detto Pepèn, nato 1880, fratello gemello di mia nonna Rosa). Da qualche giorno si era sparsa la notizia della tragedia verificatasi nella vicina casa dei Massètta, dove erano decedute sei persone della stessa famiglia. Rosa era in ansia per il pericolo che correvano i suoi quattro figli. Oltre tutto era sola perché il marito si trovava in servizio militare. I documenti lo danno in quei giorni all'Ospedale di Parma. Risulta che, come militare, fosse addetto alle stalle. Il figlio Gino ripete più volte che faceva "al vachèr". Forse i richiamati più anziani venivano adibiti a governare le grosse stalle di pianura che dovevano assicurare carne alle migliaia di uomini impegnati al fronte. Comunque Rosa, che aveva trentatré anni, si trovava sola con quattro piccoli. L'osteria ch'era un tutt'uno con la sua abitazione e la vicinanza della stazione ferroviaria con la gente che andava e veniva, la tenevano in grande apprensione. Nonostante le sue attenzioni, la "spagnola" ben presto entrò anche in quella casa. Cominciò da Gino, il più piccolo, per trasmettersi poi a Delia e a Roberto. Rosa rimase appartata. Forse chiusa in casa per donarsi interamente a quei piccoli ammalati. Non chiese, né le fu dato aiuto. Si ritenne fortunata, poi, perché dopo qualche giorno i tre piccoli cominciarono a sentirsi meglio. Pensava, forse, che tutto fosse passato. Ma quando i tre ancora erano convalescenti, ecco la "spagnola" assalire lei e Guerrino, il figlio più grandicello. Forse qualcuno, a Roccamurata, cominciò a notare che da diversi giorni nessuno della famiglia si era fatto più vivo. Quei piccoli, così vivaci, che ogni giorno si rincorrevano nel prato, dove mai erano finiti? Non sappiamo come e perché a giungere per primo in quella casa, sia stato l'Ufficiale medico Capitano Tasso e non qualche vicino. Vi entrò venerdì 17 novembre e dovette rimanere sbalordito. Trovò Rosa e Guerrino moribondi, gli altri tre convalescenti. Tutti a letto, incapaci di ogni reazione, lasciati incredibilmente soli a lottare contro la malattia e la fame. Il Capitano Tasso provvide subito ad isolare la madre e il figlio in un locale a parte e il giorno stesso scrisse la seguente lettera, che già abbiamo riportato. Foto: Roccamurata in una foto d'epoca: in fondo si nota l'abitazione della famiglia Saglia. "In Roccamurata la famiglia Saglia è stata tutta colpita dall'influenza. La madre e il figlio maggiore sono moribondi, i tre figli restanti sono convalescenti. Il padre, soldato, è ali'ospedale di Parma, i vicini non assistono la famiglia per paura del contagio. Prego mandarmi due soldati di Sanità per assistere questa povera gente che è sola e abbandonata da tutti“. La malattia, aggravata senza dubbio dalle fatiche affrontate da Rosa per curare i quattro piccoli, ebbe in quello stesso giorno il sopravvento. Il giorno dopo, infatti, i due militari richiesti arriveranno, ma per Rosa le preoccupazioni erano ormai finite, morta prima ancora di poter ricevere qualche aiuto. Quando leggo la lettera a Gino, gli si apre un pertugio nella memoria: "Sì, è v'gnì i suldà a curan". Poi a prova della sua lucidità aggiunge: "Guarda ti, me par a suldà e in ca mia d'jèter suldà!" (Guarda il caso: mio padre era a militare e in casa mia c'era bisogno di altri militari). Aveva tre anni, allora, e forse la vista di quei giovani in divisa avrà destato in lui qualche interesse. Solo più tardi scoprirà di aver perso la mamma e che loro erano lì per cercare, inutilmente, di sostituirla. |
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