Il diario di Silvio Viezzoli
Diario di un trentino soldato di sua maestà l'Imperatore d'Austria
2a parte "Kirsanoff il ritorno"
Stralci
dal diario di Silvio Viezzoli "Prigionia in Russia"(Le
foto che accompagnano il testo e gli eventuali soggetti non sono attinenti al
racconto, ma contemporanee e dei luoghi attraversati)
" …La neve cominciò presto a cadere abbondante; il freddo si fece intensissimo;
il fiume che avevamo attraversato sulle zattere non si distingueva più; vi
passavano sopra i carri e le slitte. Tutto all'intorno era bianco di neve, tutto
era ghiaccio. Le poche «isbé» che i primi giorni vedevamo sparse nella campagna
erano scomparse; solo la sera talvolta le indovinavamo da un po' di luce che
filtrava da qualche finestra. E sopra a questo triste paesaggio un cielo plumbeo
che ne accresceva la desolazione. Ed era un bene che il cielo fosse coperto
perché allora ci si contentava di una ventina di gradi sotto lo zero; negli
altri giorni il termometro scendeva a -30, 35, 40 e più. Del resto anche quando
c'era un po' di sole a nessuno veniva voglia di andare fuori; e il giorno durava
poi così poco! Tra le nove e mezzo e le dieci faceva giorno, e alle tre tre e
mezzo era notte di nuovo; e anche di quel breve giorno assai poco si vedeva
fuori attraverso le piccole basse finestre incrostate da due dita di ghiaccio.
In tale miseria si viveva, protetti dal freddo più che altro dall'aria densa dei
sudici stanzoni e dal puzzo che esalavano tanti corpi umani pigiati insieme,
quasi sempre al buio. La sera ci si disputava un pezzetto di candela per fare un
po' di luce.
La sera si passava il tempo a studiare il russo. Il nostro compagno Mario Lorenzoni da Cles aveva ricevuto dall'Italia, e precisamente da suo fratello
professore all'Università di Macerata, una grammatica russa; essa serviva a una
decina di noi; ce la disputavamo per copiarvi le regole e le parole sopra
quaderni o pezzi di carta qualunque: e lì tutti intorno a un pezzettino di
candela! Finalmente in dicembre giunse a Orloff il regio console a Mosca,
Adelchi Gazzurelli, che era stato incaricato dall'ambasciatore di fare un giro
per i concentramenti degli italiani. Dopo Kirsanoff venne da noi. Radunatici
sulla neve fuori della caserma, da una sedia posta nel mezzo ci tenne un
patriottico discorsetto d'occasione; ci salutò in nome del Re e della Patria;
disse dei gravi motivi che impedivano una partenza immediata; ma sperava che
intanto avremmo potuto lasciare Orloff per Kirsanoff. Vide le nostre miserie;
parlò in nostro favore presso il Comando russo; ottenne qualche miglioramento
nella cucina, e ottenne pure che alcuni di noi, cosiddetti volontari d'un anno,
potessero alloggiare fuori da quel casermone tetro e puzzolente in un'altra casa
dove già stavano alcuni aspiranti ufficiali; gli ufficiali erano rimasti a
Kirsanoff. Andammo a salutarlo all'albergo. Poi partì e tutto tornò come prima. Il municipio di Orloff
pensò di mettere insieme una banda musicale con quelli di noi che sapevano
suonare, e comperò loro appositamente gli strumenti. Questi andavano a suonare
nel teatro del luogo. Allora venne in mente ad altri di formare anche un coro. E
anche questi andavano nel teatro a cantare
e i russi, che non capivano niente delle parole, e ai quali, come pareva,
piacevano quelle arie nuove per loro, si spellavano le mani dall'applaudire.
Ricevemmo in questo tempo da Mosca una copia del Libro Verde e il
famoso discorso di Salandra in Campidoglio, che fu letto solennemente ai soldati in mezzo
a un subisso di grida e di applausi. Così passavano i giorni.
Ed ecco giungere
l'ordine di partire da Orloff per Kirsanoff. II giorno della partenza, 21
gennaio 1916, fu forse il più terribile di tutta la prigionia. Lasciata la
caserma e attraversata la cittadina, passammo senza accorgercene al di là del
fiume; senza accorgercene, perché del fiume che avevamo attraversato la prima
volta sulle zattere non c'era traccia, essendo completamente ghiacciato e
coperto di neve, eguale a tutta la superficie circostante. I carri avevano
formato profondi solchi nella neve; si camminava a stento con un piede dentro al
solco e l'altro fuori, e sotto una tormenta di nevischio con un vento gelido che
tagliava la faccia. Subito la colonna si sciolse in gruppi, e anche i gruppi si
dispersero in singoli camminatori, che presto, a causa della vita sedentaria
nella caserma e specialmente delle piaghe alle gambe, impossibilitati a
proseguir, si lasciavano cadere ai lati della strada con pericolo di rimanere
assiderati. Ma non so se e quando saremmo arrivati alla stazione, se non fossero
sopraggiunte delle slitte (quelle caratteristiche slitte basse di legno dei
contadini russi), guidate da soldati e da contadini, che portavano gli ammalati,
e dovevano anche raccogliere quelli che restavano indietro. In una di queste,
già piena di altri individui accatastati l'uno sull'altro, mi fu fatto un po' di
posto; mi trovai buttato con le gambe in su, e la testa in giù che sfiorava la
neve della strada. Con mia meraviglia potei alzarmi dalla slitta ed entrare
nella stazione. Questa era piena di «mugiki» e di donne che forse aspettavano di
partire per Viatka. Qui al caldo un po' alla volta riprendemmo le forze. Intanto
si formava la nostra tradotta. Nell'oscurità ci demmo a saccheggiare dei mucchi
di legna, e a portarla ciascuno nel proprio vagone, dove accendemmo le stufe; e
quando nella notte il treno si mise in moto avevamo già dimenticato gli stenti e
le sofferenze, e ci mettemmo a ridere e a cantare a squarciagola.
Durante il viaggio le solite scene di quelli che, alle fermate, scappavano di
qua e di là nelle «izbé» a domandare pane o altro, e nelle stazioni le lunghe
file per il «kipjatok», ossia per prendere all'apposito rubinetto l'acqua calda
per il tè. I Russi quando viaggiano portano sempre con sé il
«ciajnik» (teiera);
l'acqua calda, il «kipjatok», si trova nelle stazioni; basta andarla a prendere
o farsela portare al vagone, mettere nel «ciajnik» il pizzico di
«ciaj», e la
bevanda è pronta. In Russia si fa grande uso del tè, perché, essendo il paese
quasi tutto piano, l'acqua potabile non è buona, e in qualche regione
addirittura mista a sabbia; perciò nelle stazioni viene filtrata da speciali
apparecchi. Non c'è casa dove non campeggi nel mezzo della tavola, come primo e
indispensabile oggetto dell'economia domestica, un bel samovar. Tutti correvano
con la gamella al «kipjatok», ma qualche volta inutilmente data la ressa; il
treno si metteva in moto, e allora erano corse, cadute, un arrampicarsi sulle
vetture, e grida dei soldati di scorta, «skoro, skarei», presto, più presto!
Così, rifacendo all'indietro la via già percorsa, per Vologda Jaroslavl Mosca
Rjazan Kozloff e Tamboff, dopo otto giorni, il 29 gennaio, giungevamo a
Kirsanoff. Questa è una piccola città di circa dodicimila abitanti, molti dei
quali ebrei. La nostra vita a Kirsanoff non si differenzia gran che da quella di
Orloff. Il rancio consisteva di solito in
«kapusta i riba» («kapusta i voda»
dicevano scherzando i soldati russi), specie di cavoli cotti nell'acqua e pesci
di fiume, di cui è ricca la Russia, o altre volte minestra di lenticchie, e la
immancabile «kascia», specie di polenta di grano di miglio condita con olio. Si
mangiava in pieno inverno sempre all'aperto e in piedi sotto la neve o sotto la
pioggia, e in compagnia di numerosi maiali che giravano liberi per il cortile,
ci venivano tra i piedi e talvolta facevano per salire sulle rozze tavole dove
il capo-decina poneva il recipiente colla broda per dieci. Queste bestie
appartenevano al signor «vojski nacialnik», il comandante militare di Kirsanoff!
In questo tempo vennero a visitarci alcuni giornalisti: Renzo Larco del
«Corriere della Sera», il quale aveva già scritto sul nostro conto cose assai
inesatte; due volte venne Armando Zanetti del «Giornale d'Italia»; una o due
volte, non ricordo con precisione, Virginio Gayda, corrispondente della
«Stampa». Questi giornalisti trovandosi in Russia era naturale che si
interessassero e scrivessero di noi; venivano di motuproprio, o talvolta per
incarico dell'ambasciatore o del console di Mosca. Scrisse articoli eccellenti
lo Zanetti, ma meglio di tutti parlò di noi e della nostra questione in varii
articoli il Gayda. Era allora in Russia anche Luciano Magrini, ma non fu mai da
noi; anche egli scrisse degli italiani in Russia, ma fu in relazione
specialmente con quelli che erano in Siberia. Dobbiamo in gran parte all'opera
di questi giornalisti, specialmente dello Zanetti, che trattò direttamente con
le autorità russe, poiché parlava il russo perfettamente, se potemmo ottenere
una maggior libertà, quando col sopraggiungere della bella stagione anche la
natura si liberava dal gelo invernale. Cominciò un periodo di maggiore, potrei dire quasi completa libertà. Ormai anche
le estreme sembianze austriache, come diceva Bonapace, erano in tutti estinte,
giacché o erano vestiti con divise e «rubaske» russe, o in un modo o in un altro
s'erano procurati abiti borghesie si girava tutto il giorno per la cittadina. Ci
si dava convegno nella più grande ed elegante
«ciainaia» del luogo, o nella
«restauracija
i kofienaja» (ristorante e caffè), dove si passavano allegramente le ore,
serviti dalle varie Olghe e Vjere. - «Skolko ciai vam? » - «Ciai dvoim.» - «A sahar i lozka jest?» - «Jest». (Quanto tè volete? - Tè per due. - Avete zucchero
e cucchiaio? - Si.) Giacché noi prigionieri si facevano le cose alla buona, e si
andava con zucchero e cucchiaio in tasca. C'era un vecchio, una macchietta, un
tipo tolstoiano, con una gran barba e capelli lunghi, che grattava orrendamente
un violino; tuttavia lo facevamo suonare per il gusto di vederlo affannarsi sul
suo strumento, e udirlo mormorare le sue cantilene, che non avevano invero
niente di musicale. - «Ivan Ivanovic, igraitje, igraitje malo na skripkjè».
(Suonate, Giovanni di Giovanni, suonateci un po' il vostro violino.) E il povero
vecchio, per pochi copechi, iniziava subito il suo concerto. Qualcuno aveva
fatto relazione con delle famiglie; tutti i giovani avevano stretto rapporti
d'amicizia o d'affetto con le «barisgne» (signorine), le Zine le Sure le Julije
le Nadine le Klavdije; e fiorivano gli idilli. Gli italiani erano trovati
«harosij
jeljegantni intellighentni» (cortesi, eleganti, intelligenti). E invero tali
dovevano parere gl'italiani alle donne russe, avvezze ai pochi riguardi, sia
detto in generale, che per esse hanno i loro uomini; i russi non sono usi a fare
complimenti con le donne; e nei ranghi inferiori della popolazione se ne
ricordano per farle lavorare e magari per picchiarle, diventando espansivi solo
quando sono pieni di vodka. Ma le ragazze della borghesia studiano tutte; si può
dire che in Russia ci sono più scuole femminili che maschili. Può mancare in
qualche cittadina la scuola media per i maschi, ma non manca mai la
«zenska
gymnazija» (ginnasio femminile), dove studiano il francese e il tedesco, non so
con quale profitto; però ne escono con quello spirito di indipendenza, quel brio
e quella spregiudicatezza, per cui fu detto che la donna russa è donna due
volte. La sera quindi grande passeggio sul marciapiede della via principale di Kirsanoff, la «Dvorjanskaja ulica» (via dei signori), davanti alle villette di
legno coi balconi e i bassi poggioli infiorati; e grandi sberrettate e saluti -
buona sera, buona sera -. Anche le russe salutavano in italiano; se fossimo
rimasti là a lungo non noi diventavamo russi, ma Kirsanoff italiana! I
ragazzetti s'erano fatti grandi amici dei nostri soldati ed erano sempre intorno
a loro.
Riuscimmo a raccogliere il denaro necessario; chi aveva qualche rublo lo
elargiva al pio scopo; aiuti ci vennero da Mosca e Pietrogrado; nelle loro
passeggiate i soldati raccoglievano le pietre necessarie per le fondamenta e le
portavano al luogo dove il monumento
(ndr ai compagni caduti in questi due anni)
doveva sorgere. Questo consisté in una grande croce in cemento con nel mezzo la
testa del Redentore, bella opera del nostro compagno di prigionia scultore
Ermete Bonapace. Intorno quattro bassi pilastrini uniti da ringhiere chiudevano
un breve recinto. Mancavano i marmi per l'iscrizione e i nomi dei morti. Ma
venne a Kirsanoff il signor Virgilio Ceccato, ricco negoziante trentino da molti
anni residente a Mosca; egli ci comperò dei marmi, non trovandone altrove, da un
negoziante di mobili. Così ai lati del tronco della croce furono poste le lapidi
coi nomi, e davanti sotto la testa di Cristo quella con le seguenti parole da me
dettate: In memoria - degli italiani irredenti - morti nell'attesa - di rivedere
la patria - libera dallo straniero - La pietà dei compagni - pose - Anno MCMXVI
(1916).
Il giorno dell'inaugurazione convenimmo tutti al cimitero per una mesta
cerimonia; intervenne anche il Comando russo. Furono pronunziati discorsi adatti
alla triste circostanza. Poi tutti a capo scoperto sfilammo innanzi al monumento
funebre dei nostri compagni più disgraziati, che presto avremmo lasciato ancora
più soli in quella terra lontana. E così nel cimitero di Kirsanoff, tra le
caratteristiche croci ortodosse a più bracci obliqui, s'innalza la croce
cattolica dei morti italiani.
Finalmente un giorno, il 13 di agosto del 16 si parte. Ognuno dà di piglio alla
sua cassettina e, karauli in testa, si va alla stazione. Treno imbandierato;
lungo la linea le «barisgne» ch'erano venute a darci l'ultimo saluto; sventolio
di fazzoletti; e un po' alla volta ecco sparire dietro la piatta collina le
cupole a cipolla e il campanile della cattedrale. A questo punto devo dire che,
dopo un così grande naturale desiderio di partire e mentre i miei compagni
cantavano e mandavano grida di gioia, io, vedendo allontanarsi la piccola città
che ci aveva ospitato per tanti mesi e considerando la strana vita in essa
vissuta, mi sentivo invadere da un senso di sottile malinconia, e pensavo che
non sarei mai più ritornato in quei luoghi a un tratto divenutimi cari. Passammo
un'altra volta Tamboff, Riazan, Mosca, Jaroslavi, ma giunti a Vologda non prendemmo
verso oriente, come quando andammo a Orloff; proseguimmo direttamente verso
nord; si doveva andare ad Arcangelo. Eravamo già vicini alla meta, quando, dopo
tanti giorni di viaggio una notte, saranno state le undici, il treno si ferma a
una piccola stazione dispersa in mezzo ai boschi; si chiamava Vozega. (ndr qui
il treno fa marcia indietro e torna a Kirsanoff con la scusa di una nave inglese
che non è attraccata: le navi passavano dal circolo polare artico e tempo 2 mesi
la via sarebbe stata inagibile per il ghiaccio).
Ci sarebbero state anche le beffe di quelli di Kirsanoff, specialmente degli
Ebrei germanofili che non ci vedevano troppo di buon occhio, e, per altri motivi
comprensibili, dei giovani studenti. Già la sera prima della partenza ne avevo
udito uno mormorare ai suoi compagni per la strada:
«Zavtra vsiò Italianzi idiot
k ciortu», domani tutti gl'Italiani vanno al diavolo (circa). Ma tutte le nostre
suppliche a nulla valsero. Ci assicurarono che la partenza era soltanto
differita. Bisognò rassegnarsi e ritornare a Kirsanoff. Ogni giorno si diceva:
Si parte domani; ma il vero domani non giungeva mai. E così tra la speranza e lo
sconforto si stava nelle varie caserme a discutere, o, quando si poteva fuggire,
si andava bighellonando nei dintorni, con le tasche sempre piene di
«siemcki»,
che si mangiucchiavano tra i denti così per passatempo, come usano colà talvolta
anche persone di riguardo. Ma ecco è giunto il 14 settembre. Partenza, speriamo,
definitiva. Tolgo le seguenti parole dal diario del compagno di prigionia
Giuseppe De Manincor: «Alle 6,45 il treno fischiando per
l'ultima di infinite volte, parte. E' tutto una festa di bandiere di tutti i
colori, di tutti gli Alleati, e grandi e piccole e di seta e di tela e di carta;
ogni carrozzone ha voluto avere a gara le sue, e abbiamo in esse profusi i
nostri ultimi kopeki. Andiamo lenti tra continue fermate. Ma questa volta
abbiamo imparato a non essere impazienti. Chi va piano va sano e va lontano». Il
16 eravamo a Mosca. Ero passato già quattro volte dalla stazione di Mosca; mi
pareva questa volta d'aver quasi il diritto di entrare in città per vederla più
da vicino; pensavo che, perduta questa occasione, non l'avrei, con tutta
probabilità anzi con certezza, veduta mai più.
E allora, senza far parola ad
altri, perché temevo che in compagnia la cosa non riuscisse, mi allontanai alla
chetichella dal treno, girai in su e in giù, attraversai binari guardandomi
attorno, scavalcai un muricciolo, ancora un piccolo uscio... ed ero fuori.
Imboccai una strada magnifica che conduceva proprio al centro della città. Non
ero andato molto avanti che m'imbattei in quattro o cinque compagni che avevano
fatto lo stesso gioco. Mi unii a loro, e continuammo per la medesima strada
sempre all'insù. Un ragazzetto ci fermò per offrirci in vendita delle piccole
fotografie. E giungemmo proprio davanti alla famosa cattedrale di San Basilio
all'ingresso del Cremlino. Davanti alla chiesa all'aperto erano dei banchi sui
quali una piccola folla, sempre rinnovantesi, stava genuflessa a pregare.
Entrati nel Cremlino, ci inoltrammo titubanti per quelle magnifiche gallerie;
cristalli magnifici di qua e di là; negozi d'una sontuosità straordinaria con
dentro cose meravigliose. Noi, poveri diavoli, che da due anni non vedevamo che
miserie, ci pareva di essere capitati in un paese incantato, non credevamo ai
nostri occhi. Usciti dalle gallerie ci troviamo davanti al passaggio sotto la
torre di Ivan il Terribile con in cima l'aquila imperiale. Si chiama Porta del
Salvatore, Spaskia Vorotà; vi si trova anche una immagine miracolosa. Se la
Russia è santa, se Mosca è la città santa della Russia e il Cremlino, l'antica
residenza degli zar, è il centro di Mosca e quel punto è il centro del Cremlino,
possiamo immaginarci quanta santità è concentrata in quel luogo. E infatti
nessuno attraversa, o attraversava allora, quel sottopassaggio, se non a capo
scoperto; anche l'«izvozcik», pubblico vetturino, si leva ogni volta che vi
passa il suo berretto di pelo. Noi volentieri si sarebbe rimasti a Mosca, per
vederla tutta, tre o quattro giorni; per comprare del pane avevamo qualche
kopeko; per dormire non avevamo bisogno d'un albergo; l'angolo d'una strada ci
sarebbe bastato. Ma questa volta si partiva davvero; e se i nostri che avevamo
lasciato, appena giunti ad Arcangelo si fossero imbarcati e fossero partiti?
Questo dubbio ci persuase a riprendere la via della stazione, dove giunti ci
presentammo al capostazione, il quale senz'altro ci fece salire sul prossimo
treno passeggeri, e con questo il giorno dopo raggiungemmo il nostro convoglio.
Per comprendere il «senz'altro» bisogna sapere che ognuno di noi aveva ricevuto
alla partenza da Kirsanoff una piccola tessera sulla quale stava scritto:
«Italjanskij
soldat - Napravljaetsja v Italiju cerez Arhangelsk», si invia in Italia per
Arcangelo. Passati ancora una volta da Jaroslavl, da Vologda e da Vosega, la
stazione del dietrofront, si giunse alla riva sinistra della Dvina dinanzi ad
Arcangelo, il 20 settembre. Un grande piroscafo era accostato alla banchina; ed
ecco che i triestini ravvisano subito in esso un conoscente: era un piroscafo
del Lloyd Triestino, il Koerber, sul quale qualcuno di loro aveva lavorato o col
quale aveva navigato. L'Austria ci offriva il mezzo per il rimpatrio; veramente
troppa cortesia! Anche esso era dunque prigioniero di guerra. Era stato
sequestrato all'inizio delle ostilità nel porto di Alessandria e aveva cambiato
il nome dell'uomo di Stato austriaco in quello inglese di «Huntspiel». Subito fu
innalzato all'albero di poppa un grande tricolore.
Era tempo che si partisse, giacché il porto di Arcangelo, per la sua posizione,
rimane presto ostruito dai ghiacci. Se tardavamo ancora qualche settimana, ci
toccava, come ad altri dopo di noi, fare il giro del mondo, poiché allora non
era terminata la ferrovia da Pietrogrado a Porto S. Caterina sulla costa della
Murmania, il quale porto, sebbene più settentrionale di Arcangelo, è tutto
l'anno sgombro da ghiacci per il benefico influsso della corrente del Golfo, che
non penetra nel Mar Bianco. A questa ferrovia attendeva allora febbrilmente la
Russia, facendovi lavorare specialmente operai cinesi, per non essere
nell'inverno tagliata fuori completamente da ogni comunicazione con gli Alleati.
Navigammo nel Mar Bianco tutto quel giorno; la notte la passammo dietro un
isolotto fortificato, vicino alla costa della penisola di Kola. Sulla roccia
brulla dello scoglio si profilavano semplici e rozze croci di legno a ricordare
le vittime dei sottomarini germanici e delle loro mine. In quel tempo infuriava
la guerra dei sottomarini. Il giorno dopo si doveva passare la parte più stretta
del Mar Bianco. Si procedeva così: Davanti una di qua e una di là due
torpediniere russe che trascinavano tesa tra l'una e l'altra, una rete pescamine;
dietro a una certa distanza, altre due torpediniere allo stesso modo, con
un'altra rete, e sulla scia d'una quinta torpediniera che andava cauta e lenta
dietro la seconda rete, ancor più cauta procedeva la nostra nave. Così solo a
mezzogiorno del 27 giungemmo nel mare aperto di Barents. Allora la nostra sirena
salutò le cinque torpediniere che ci lasciavano, e la nave cominciò a filare le
sue quattordici miglia, puntando a nord-est, verso l'Oceano Artico. ….E neve e
freddo e burrasca. Come Dio volle il mare si calmò alquanto, e il due ottobre
passammo vicino al gruppo delle isole Faroer, che si alzavano ripide e selvagge
dalle acque. Da esse sbucò un incrociatore francese che c'intimò l'alt con un
colpo di cannone; bisognò ubbidire; e quindi tra le due navi avvenne un lungo
scambio di segnali con banderuole, finché si intesero e potemmo proseguire. La
mattina del giorno seguente, quando ci svegliammo, un bel sole illuminava da una
parte i monti della Scozia e dall'altra le belle isole Ebridi. Eravamo
all'entrata del canale del Minch. Quindi proseguimmo lungo le coste della
Scozia, tutte frastagliate e punteggiate di bellissime isolette e scogli, finché
verso sera entrammo nell'estuario del fiume Clyde: da una parte e dall'altra
un'infinita serie di cantieri con navi in costruzione.
Tutti siamo sul ponte o
arrampicati alle sartie; ecco scendere una nave italiana: grida, evviva, saluti.
A notte siamo a Glasgow, accolti dalle baionette dei soldati scozzesi col
gonnellino. Nella stessa notte e al mattino seguente attraversammo tutta
l'Inghilterra in mezzo a una serie quasi ininterrotta di fabbriche e di opifici;
di quando in quando un bel prato verdissimo con animali al pascolo: lì si
alterna il verde carico al nero del carbone. Alle undici circa giungemmo a Southhampton.
La traversata della Manica si compì di notte, e fu l'ultimo colpo del destino.
Fu una notte burrascosa tremenda veramente infernale. Soffrivano persino i
marinai inglesi. Noi, buttati a corpo morto bocconi sui pavimenti dei vani
locali o sui fondi delle stive, con davanti alla bocca la gavetta, non proprio
per mangiarvi, con le braccia allargate aspettavamo, pallidi e smorti, che il
fato si compisse. Ma anche questa passò, e la mattina dopo sbarcavamo a
Cherbourg accolti fraternamente dalle baionette francesi. Questa volta
protestammo; quindi si attraversò la Francia accompagnati dai soldati francesi,
ma senza baionette inastate e senza fucili. Passammo per Le Mans e Lione, non
più in veste di prigionieri, salutati con simpatia dalla popolazione. A Modane
il primo saluto di quella colonia italiana. Urla di gioia e grida di «Viva
l'Italia» al fermarsi del treno sul confine dentro il traforo del Cenisio. Il
giorno nove ottobre giungemmo a Torino, accolti dai torinesi con dimostrazioni
d'affetto davvero commoventi. Alla stazione ci porse il saluto del Governo e
della Patria il ministro Comandini, e quello della città il sindaco senatore
Rossi. E la nostra odissea aveva fine.
(parentesi. Dunque posto piede su suolo italiano siamo diventati per la
questura, malgrado le belle parole di Torino, soltanto degli stranieri. Non si
poteva darci un pezzo di carta che ci distinguesse da un tedesco o da un turco.
Che italiani, che irredenti! Ecco qua il «foglio per gli stranieri», e se non lo
volete vi mettiamo dentro! - Stranieri e basta. Pazienza! - Chiusa la
parentesi.)
L'ordine di arruolamento generale in Trentino arrivò immediatamente dopo
l'annuncio dell'entrata in guerra dell'Austria contro la Serbia (4/8/1914). La
leva di massa interessò gli uomini tra i 21 e i 42 anni, per cui i reclutati
trentini di quei primi mesi furono circa 40mila, pari all'11 per cento della
popolazione. Altri 20mila trentini furono arruolati dopo l'ingresso in guerra
dell'Italia. La maggior parte dei primi arruolati venne inviata sul fronte
orientale soprattutto nella Galizia, dove i Russi avevano scatenato una rabbiosa
offensiva. "il 16 agosto arrivammo in Galizia, vicino a Leopoli, in una zona di
pianura: arrivammo col treno di notte ed eravamo già sulla linea del fronte. Noi
eravamo nei campi di patate e i russi erano trincerati sulle colline. Ci
mandarono all'attacco il giorno dopo: attaccammo coi cannoni e coi fucili e
riuscimmo a prendere le trincee russe. Mi ricordo che il fondo delle trincee era
tutto coperto di scorze di semi di girasole che i russi mangiavano in
continuazione. Il 5 di settembre attaccammo nella zona di Bels; ma i russi
riuscirono a chiuderci in una specie di ferro di cavallo. Il 7 attaccarono i
russi; erano almeno il doppio di noi e ci ritirammo. Io feci una fuga di almeno
un chilometro e finii... in bocca a loro. Fui fatto prigioniero nel paese di
Rovaruska". (Silvio Zucchelli)
Nel tardo autunno del '14, lo Zar fece un passo ufficiale presso il re italiano
impegnandosi a restituire i prigionieri in cambio dell'ingresso in guerra
dell'Italia a fianco dell'Intesa. Ma l'offerta venne declinata perché si temeva
che tale decisione avrebbe potuto compromettere la neutralità proclamata
dall'Italia. Dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia, vi furono varie
iniziative da parte italiana per raccogliere i "prigionieri irredenti" (così
vennero chiamati), col proposito di farli rientrare in Italia. Con il consenso
del ministero russo della guerra, gli "irredenti" sparsi nei 45 governatorati
dell'impero furono raccolti nel campo di Kirsànov o Kirsanoff una piccola città
nella regione del Don, e in altre due località. Dopo lunghe trattative,
finalmente il 16 luglio 1916 da Torino partì per la Russia una missione
speciale, composta da 21 ufficiali italiani (tra i quali anche i trentini Guido
Larcher, Filiberto Poli e Lorenzo Parisi), con il compito di organizzare
l'operazione del rientro dei profughi in Italia. Il campo di Kirsànov, con circa
6mila presenze, stava toccando ormai il limite del collasso. Si imponeva quindi
con urgenza lo svuotamento per lasciare libero il posto ai nuovi prigionieri che
in maniera capillare, ma continua, affluivano dalle parti più impensate della
Russia. A Torino e in altre città italiane i trentini del primo contingente
trovarono comunque subito un lavoro, erano stati fortunati. Ad eccezione di un
numero piuttosto esiguo, gli ex prigionieri irredenti non vennero arruolati
nell'esercito italiano, poiché si temeva che qualora fossero stati catturati,
sarebbero stati condannati a morte, come era accaduto a Cesare Battisti.
La lunga marcia verso il Pacifico
Con l'avvicinarsi dell'inverno, il rimpatrio dei prigionieri subì una stasi,
dovuta al fatto che i mari del Nord erano impraticabili a causa dei ghiacci. Nel
marzo 1917, inoltre, a Pietroburgo era scoppiata la rivoluzione e la situazione
politica da allora diventò alquanto precaria. Kirsànov a metà del '17 si era
ripopolato con più di tremila presenze. La vita dei prigionieri trascorreva in
mezzo a difficoltà sempre maggiori. "Durante tutta l'epoca dall'ottobre al
maggio i poveretti con una mano mangiavano e con l'altra si battevano il corpo,
saltando continuamente per evitare il congelamento dei piedi". Fu a questo punto
che iniziò ad essere studiato un progetto alquanto macchinoso ed ardito, quasi
incredibile. Si trattava di attraversare tutta la parte orientale della Russia
fino alla costa del Pacifico e da lì poi puntare verso gli Stati Uniti e
l'Europa. Un giro del mondo carico di incognite. Sulla carta il progetto
sembrava fattibile. Ma quando giunse il momento di attuarlo, la situazione si
complicò ulteriormente perché l'8 novembre era scoppiata la guerra civile, la
vera rivoluzione d’ottobre (per loro novembre), che aumentò la confusione.
Allora i prigionieri furono divisi in scaglioni di 40 uomini, che alla
spicciolata, tre volte al giorno aspettavano di salire sulla Transiberiana,
diretti a Vladivostòk. Il primo gruppo partì da Kirsànov il 28 dicembre. Per
tutti l'ordine era di ritrovarsi al capolinea sulla costa russa del Pacifico.
Nel febbraio 1918 avvenne il ricongiungimento dei circa 2500 "viaggiatori". Gli
ex prigionieri (di cui circa 1600 trentini) furono accampati a Tientsin e in
altri centri di raccolta. Per loro sembrò l’iniziò una vita migliore, in attesa
del ritorno in Italia, ma ad attenderli c’era un’altra guerra, quella dei
battaglioni neri.