Il diario di Silvio Viezzoli

Diario di un trentino soldato di sua maestà l'Imperatore d'Austria

2a parte "Kirsanoff il ritorno"

Stralci dal diario di Silvio Viezzoli "Prigionia in Russia"(Le foto che accompagnano il testo e gli eventuali soggetti non sono attinenti al racconto, ma contemporanee e dei luoghi attraversati) 

" …La neve cominciò presto a cadere abbondante; il freddo si fece intensissimo; il fiume che avevamo attraversato sulle zattere non si distingueva più; vi passavano sopra i carri e le slitte. Tutto all'intorno era bianco di neve, tutto era ghiaccio. Le poche «isbé» che i primi giorni vedevamo sparse nella campagna erano scomparse; solo la sera talvolta le indovinavamo da un po' di luce che filtrava da qualche finestra. E sopra a questo triste paesaggio un cielo plumbeo che ne accresceva la desolazione. Ed era un bene che il cielo fosse coperto perché allora ci si contentava di una ventina di gradi sotto lo zero; negli altri giorni il termometro scendeva a -30, 35, 40 e più. Del resto anche quando c'era un po' di sole a nessuno veniva voglia di andare fuori; e il giorno durava poi così poco! Tra le nove e mezzo e le dieci faceva giorno, e alle tre tre e mezzo era notte di nuovo; e anche di quel breve giorno assai poco si vedeva fuori attraverso le piccole basse finestre incrostate da due dita di ghiaccio. In tale miseria si viveva, protetti dal freddo più che altro dall'aria densa dei sudici stanzoni e dal puzzo che esalavano tanti corpi umani pigiati insieme, quasi sempre al buio. La sera ci si disputava un pezzetto di candela per fare un po' di luce. La sera si passava il tempo a studiare il russo.Trento ingresso della fanfara dei Bersaglieri Il nostro compagno Mario Lorenzoni da Cles aveva ricevuto dall'Italia, e precisamente da suo fratello professore all'Università di Macerata, una grammatica russa; essa serviva a una decina di noi; ce la disputavamo per copiarvi le regole e le parole sopra quaderni o pezzi di carta qualunque: e lì tutti intorno a un pezzettino di candela! Finalmente in dicembre giunse a Orloff il regio console a Mosca, Adelchi Gazzurelli, che era stato incaricato dall'ambasciatore di fare un giro per i concentramenti degli italiani. Dopo Kirsanoff venne da noi. Radunatici sulla neve fuori della caserma, da una sedia posta nel mezzo ci tenne un patriottico discorsetto d'occasione; ci salutò in nome del Re e della Patria; disse dei gravi motivi che impedivano una partenza immediata; ma sperava che intanto avremmo potuto lasciare Orloff per Kirsanoff. Vide le nostre miserie; parlò in nostro favore presso il Comando russo; ottenne qualche miglioramento nella cucina, e ottenne pure che alcuni di noi, cosiddetti volontari d'un anno, potessero alloggiare fuori da quel casermone tetro e puzzolente in un'altra casa dove già stavano alcuni aspiranti ufficiali; gli ufficiali erano rimasti a Kirsanoff. Andammo a salutarlo all'albergo. Poi partì e tutto tornò come prima. Il municipio di Orloff pensò di mettere insieme una banda musicale con quelli di noi che sapevano suonare, e comperò loro appositamente gli strumenti. Questi andavano a suonare nel teatro del luogo. Allora venne in mente ad altri di formare anche un coro. E anche questi andavano nel teatro a cantare e i russi, che non capivano niente delle parole, e ai quali, come pareva, piacevano quelle arie nuove per loro, si spellavano le mani dall'applaudire. Ricevemmo in questo tempo da Mosca una copia del Libro Verde e il  famoso discorso di Salandra in Campidoglio, che fu letto solennemente ai soldati in mezzo a un subisso di grida e di applausi. Così passavano i giorni.

Ed ecco giungere l'ordine di partire da Orloff per Kirsanoff. II giorno della partenza, 21 gennaio 1916, fu forse il più terribile di tutta la prigionia. Lasciata la caserma e attraversata la cittadina, passammo senza accorgercene al di là del fiume; senza accorgercene, perché del fiume che avevamo attraversato la prima volta sulle zattere non c'era traccia, essendo completamente ghiacciato e coperto di neve, eguale a tutta la superficie circostante. I carri avevano formato profondi solchi nella neve; si camminava a stento con un piede dentro al solco e l'altro fuori, e sotto una tormenta di nevischio con un vento gelido che tagliava la faccia. Subito la colonna si sciolse in gruppi, e anche i gruppi si dispersero in singoli camminatori, che presto, a causa della vita sedentaria nella caserma e specialmente delle piaghe alle gambe, impossibilitati a proseguir, si lasciavano cadere ai lati della strada con pericolo di rimanere assiderati. Ma non so se e quando saremmo arrivati alla stazione, se non fossero sopraggiunte delle slitte (quelle caratteristiche slitte basse di legno dei contadini russi), guidate da soldati e da contadini, che portavano gli ammalati, e dovevano anche raccogliere quelli che restavano indietro. In una di queste, già piena di altri individui accatastati l'uno sull'altro, mi fu fatto un po' di posto; mi trovai buttato con le gambe in su, e la testa in giù che sfiorava la neve della strada. Con mia meraviglia potei alzarmi dalla slitta ed entrare nella stazione. Questa era piena di «mugiki» e di donne che forse aspettavano di partire per Viatka. Qui al caldo un po' alla volta riprendemmo le forze. Intanto si formava la nostra tradotta. Nell'oscurità ci demmo a saccheggiare dei mucchi di legna, e a portarla ciascuno nel proprio vagone, dove accendemmo le stufe; e quando nella notte il treno si mise in moto avevamo già dimenticato gli stenti e le sofferenze, e ci mettemmo a ridere e a cantare a squarciagola. Durante il viaggio le solite scene di quelli che, alle fermate, scappavano di qua e di là nelle «izbé» a domandare pane o altro, e nelle stazioni le lunghe file per il «kipjatok», ossia per prendere all'apposito rubinetto l'acqua calda per il tè. I Russi quando viaggiano portano sempre con sé il «ciajnik» (teiera); l'acqua calda, il «kipjatok», si trova nelle stazioni; basta andarla a prendere o farsela portare al vagone, mettere nel «ciajnik» il pizzico di «ciaj», e la bevanda è pronta. In Russia si fa grande uso del tè, perché, essendo il paese quasi tutto piano, l'acqua potabile non è buona, e in qualche regione addirittura mista a sabbia; perciò nelle stazioni viene filtrata da speciali apparecchi. Non c'è casa dove non campeggi nel mezzo della tavola, come primo e indispensabile oggetto dell'economia domestica, un bel samovar. Tutti correvano con la gamella al «kipjatok», ma qualche volta inutilmente data la ressa; il treno si metteva in moto, e allora erano corse, cadute, un arrampicarsi sulle vetture, e grida dei soldati di scorta, «skoro, skarei», presto, più presto! Viatka stazioneCosì, rifacendo all'indietro la via già percorsa, per Vologda Jaroslavl Mosca Rjazan Kozloff e Tamboff, dopo otto giorni, il 29 gennaio, giungevamo a Kirsanoff. Questa è una piccola città di circa dodicimila abitanti, molti dei quali ebrei. La nostra vita a Kirsanoff non si differenzia gran che da quella di Orloff. Il rancio consisteva di solito in «kapusta i riba» («kapusta i voda» dicevano scherzando i soldati russi), specie di cavoli cotti nell'acqua e pesci di fiume, di cui è ricca la Russia, o altre volte minestra di lenticchie, e la immancabile «kascia», specie di polenta di grano di miglio condita con olio. Si mangiava in pieno inverno sempre all'aperto e in piedi sotto la neve o sotto la pioggia, e in compagnia di numerosi maiali che giravano liberi per il cortile, ci venivano tra i piedi e talvolta facevano per salire sulle rozze tavole dove il capo-decina poneva il recipiente colla broda per dieci. Queste bestie appartenevano al signor «vojski nacialnik», il comandante militare di Kirsanoff! In questo tempo vennero a visitarci alcuni giornalisti: Renzo Larco del «Corriere della Sera», il quale aveva già scritto sul nostro conto cose assai inesatte; due volte venne Armando Zanetti del «Giornale d'Italia»; una o due volte, non ricordo con precisione, Virginio Gayda, corrispondente della «Stampa». Questi giornalisti trovandosi in Russia era naturale che si interessassero e scrivessero di noi; venivano di motuproprio, o talvolta per incarico dell'ambasciatore o del console di Mosca. Scrisse articoli eccellenti lo Zanetti, ma meglio di tutti parlò di noi e della nostra questione in varii articoli il Gayda. Era allora in Russia anche Luciano Magrini, ma non fu mai da noi; anche egli scrisse degli italiani in Russia, ma fu in relazione specialmente con quelli che erano in Siberia. Dobbiamo in gran parte all'opera di questi giornalisti, specialmente dello Zanetti, che trattò direttamente con le autorità russe, poiché parlava il russo perfettamente, se potemmo ottenere una maggior libertà, quando col sopraggiungere della bella stagione anche la natura si liberava dal gelo invernale. Cominciò un periodo di maggiore, potrei dire quasi completa libertà. Ormai anche le estreme sembianze austriache, come diceva Bonapace, erano in tutti estinte, giacché o erano vestiti con divise e «rubaske» russe, o in un modo o in un altro s'erano procurati abiti borghesie si girava tutto il giorno per la cittadina. Ci si dava convegno nella più grande ed elegante «ciainaia» del luogo, o nella «restauracija i kofienaja» (ristorante e caffè), dove si passavano allegramente le ore, serviti dalle varie Olghe e Vjere. - «Skolko ciai vam? » - «Ciai dvoim.» - «A sahar i lozka jest?» - «Jest». (Quanto tè volete? - Tè per due. - Avete zucchero e cucchiaio? - Si.) Giacché noi prigionieri si facevano le cose alla buona, e si andava con zucchero e cucchiaio in tasca. C'era un vecchio, una macchietta, un tipo tolstoiano, con una gran barba e capelli lunghi, che grattava orrendamente un violino; tuttavia lo facevamo suonare per il gusto di vederlo affannarsi sul suo strumento, e udirlo mormorare le sue cantilene, che non avevano invero niente di musicale. - «Ivan Ivanovic, igraitje, igraitje malo na skripkjè». (Suonate, Giovanni di Giovanni, suonateci un po' il vostro violino.) E il povero vecchio, per pochi copechi, iniziava subito il suo concerto. Qualcuno aveva fatto relazione con delle famiglie; tutti i giovani avevano stretto rapporti d'amicizia o d'affetto con le «barisgne» (signorine), le Zine le Sure le Julije le Nadine le Klavdije; e fiorivano gli idilli. Gli italiani erano trovati «harosij jeljegantni intellighentni» (cortesi, eleganti, intelligenti). E invero tali dovevano parere gl'italiani alle donne russe, avvezze ai pochi riguardi, sia detto in generale, che per esse hanno i loro uomini; i russi non sono usi a fare complimenti con le donne; e nei ranghi inferiori della popolazione se ne ricordano per farle lavorare e magari per picchiarle, diventando espansivi solo quando sono pieni di vodka. Ma le ragazze della borghesia studiano tutte; si può dire che in Russia ci sono più scuole femminili che maschili. Può mancare in qualche cittadina la scuola media per i maschi, ma non manca mai la «zenska gymnazija» (ginnasio femminile), dove studiano il francese e il tedesco, non so con quale profitto; però ne escono con quello spirito di indipendenza, quel brio e quella spregiudicatezza, per cui fu detto che la donna russa è donna due volte. La sera quindi grande passeggio sul marciapiede della via principale di Kirsanoff, la «Dvorjanskaja ulica» (via dei signori), davanti alle villette di legno coi balconi e i bassi poggioli infiorati; e grandi sberrettate e saluti - buona sera, buona sera -. Anche le russe salutavano in italiano; se fossimo rimasti là a lungo non noi diventavamo russi, ma Kirsanoff italiana! I ragazzetti s'erano fatti grandi amici dei nostri soldati ed erano sempre intorno a loro. Foresta a Viatka, 1872 ChichkineRiuscimmo a raccogliere il denaro necessario; chi aveva qualche rublo lo elargiva al pio scopo; aiuti ci vennero da Mosca e Pietrogrado; nelle loro passeggiate i soldati raccoglievano le pietre necessarie per le fondamenta e le portavano al luogo dove il monumento (ndr ai compagni caduti in questi due anni) doveva sorgere. Questo consisté in una grande croce in cemento con nel mezzo la testa del Redentore, bella opera del nostro compagno di prigionia scultore Ermete Bonapace. Intorno quattro bassi pilastrini uniti da ringhiere chiudevano un breve recinto. Mancavano i marmi per l'iscrizione e i nomi dei morti. Ma venne a Kirsanoff il signor Virgilio Ceccato, ricco negoziante trentino da molti anni residente a Mosca; egli ci comperò dei marmi, non trovandone altrove, da un negoziante di mobili. Così ai lati del tronco della croce furono poste le lapidi coi nomi, e davanti sotto la testa di Cristo quella con le seguenti parole da me dettate: In memoria - degli italiani irredenti - morti nell'attesa - di rivedere la patria - libera dallo straniero - La pietà dei compagni - pose - Anno MCMXVI (1916). Il giorno dell'inaugurazione convenimmo tutti al cimitero per una mesta cerimonia; intervenne anche il Comando russo. Furono pronunziati discorsi adatti alla triste circostanza. Poi tutti a capo scoperto sfilammo innanzi al monumento funebre dei nostri compagni più disgraziati, che presto avremmo lasciato ancora più soli in quella terra lontana. E così nel cimitero di Kirsanoff, tra le caratteristiche croci ortodosse a più bracci obliqui, s'innalza la croce cattolica dei morti italiani.
Finalmente un giorno, il 13 di agosto del 16 si parte. Ognuno dà di piglio alla sua cassettina e, karauli in testa, si va alla stazione. Treno imbandierato; lungo la linea le «barisgne» ch'erano venute a darci l'ultimo saluto; sventolio di fazzoletti; e un po' alla volta ecco sparire dietro la piatta collina le cupole a cipolla e il campanile della cattedrale. A questo punto devo dire che, dopo un così grande naturale desiderio di partire e mentre i miei compagni cantavano e mandavano grida di gioia, io, vedendo allontanarsi la piccola città che ci aveva ospitato per tanti mesi e considerando la strana vita in essa vissuta, mi sentivo invadere da un senso di sottile malinconia, e pensavo che non sarei mai più ritornato in quei luoghi a un tratto divenutimi cari. Passammo un'altra volta Tamboff, Riazan, Mosca, Jaroslavi, ma giunti a Vologda non prendemmo verso oriente, come quando andammo a Orloff; proseguimmo direttamente verso nord; si doveva andare ad Arcangelo. Eravamo già vicini alla meta, quando, dopo tanti giorni di viaggio una notte, saranno state le undici, il treno si ferma a una piccola stazione dispersa in mezzo ai boschi; si chiamava Vozega. (
ndr qui il treno fa marcia indietro e torna a Kirsanoff con la scusa di una nave inglese che non è attraccata: le navi passavano dal circolo polare artico e tempo 2 mesi la via sarebbe stata inagibile per il ghiaccio). Ci sarebbero state anche le beffe di quelli di Kirsanoff, specialmente degli Ebrei germanofili che non ci vedevano troppo di buon occhio, e, per altri motivi comprensibili, dei giovani studenti. Già la sera prima della partenza ne avevo udito uno mormorare ai suoi compagni per la strada: «Zavtra vsiò Italianzi idiot k ciortu», domani tutti gl'Italiani vanno al diavolo (circa). Ma tutte le nostre suppliche a nulla valsero. Ci assicurarono che la partenza era soltanto differita. Bisognò rassegnarsi e ritornare a Kirsanoff. Ogni giorno si diceva: Si parte domani; ma il vero domani non giungeva mai. E così tra la speranza e lo sconforto si stava nelle varie caserme a discutere, o, quando si poteva fuggire, si andava bighellonando nei dintorni, con le tasche sempre piene di «siemcki», che si mangiucchiavano tra i denti così per passatempo, come usano colà talvolta anche persone di riguardo. Ma ecco è giunto il 14 settembre. Partenza, speriamo, definitiva. Tolgo le seguenti parole dal diario del compagno di prigionia Giuseppe De Manincor: «Alle 6,45 il treno fischiando per l'ultima di infinite volte, parte. E' tutto una festa di bandiere di tutti i colori, di tutti gli Alleati, e grandi e piccole e di seta e di tela e di carta; ogni carrozzone ha voluto avere a gara le sue, e abbiamo in esse profusi i nostri ultimi kopeki. Andiamo lenti tra continue fermate. Ma questa volta abbiamo imparato a non essere impazienti. Chi va piano va sano e va lontano». Il 16 eravamo a Mosca. Ero passato già quattro volte dalla stazione di Mosca; mi pareva questa volta d'aver quasi il diritto di entrare in città per vederla più da vicino; pensavo che, perduta questa occasione, non l'avrei, con tutta probabilità anzi con certezza, veduta mai più. ArcangeloE allora, senza far parola ad altri, perché temevo che in compagnia la cosa non riuscisse, mi allontanai alla chetichella dal treno, girai in su e in giù, attraversai binari guardandomi attorno, scavalcai un muricciolo, ancora un piccolo uscio... ed ero fuori. Imboccai una strada magnifica che conduceva proprio al centro della città. Non ero andato molto avanti che m'imbattei in quattro o cinque compagni che avevano fatto lo stesso gioco. Mi unii a loro, e continuammo per la medesima strada sempre all'insù. Un ragazzetto ci fermò per offrirci in vendita delle piccole fotografie. E giungemmo proprio davanti alla famosa cattedrale di San Basilio all'ingresso del Cremlino. Davanti alla chiesa all'aperto erano dei banchi sui quali una piccola folla, sempre rinnovantesi, stava genuflessa a pregare. Entrati nel Cremlino, ci inoltrammo titubanti per quelle magnifiche gallerie; cristalli magnifici di qua e di là; negozi d'una sontuosità straordinaria con dentro cose meravigliose. Noi, poveri diavoli, che da due anni non vedevamo che miserie, ci pareva di essere capitati in un paese incantato, non credevamo ai nostri occhi. Usciti dalle gallerie ci troviamo davanti al passaggio sotto la torre di Ivan il Terribile con in cima l'aquila imperiale. Si chiama Porta del Salvatore, Spaskia Vorotà; vi si trova anche una immagine miracolosa. Se la Russia è santa, se Mosca è la città santa della Russia e il Cremlino, l'antica residenza degli zar, è il centro di Mosca e quel punto è il centro del Cremlino, possiamo immaginarci quanta santità è concentrata in quel luogo. E infatti nessuno attraversa, o attraversava allora, quel sottopassaggio, se non a capo scoperto; anche l'«izvozcik», pubblico vetturino, si leva ogni volta che vi passa il suo berretto di pelo. Noi volentieri si sarebbe rimasti a Mosca, per vederla tutta, tre o quattro giorni; per comprare del pane avevamo qualche kopeko; per dormire non avevamo bisogno d'un albergo; l'angolo d'una strada ci sarebbe bastato. Ma questa volta si partiva davvero;  e se i nostri che avevamo lasciato, appena giunti ad Arcangelo si fossero imbarcati e fossero partiti? Questo dubbio ci persuase a riprendere la via della stazione, dove giunti ci presentammo al capostazione, il quale senz'altro ci fece salire sul prossimo treno passeggeri, e con questo il giorno dopo raggiungemmo il nostro convoglio.

Per comprendere il «senz'altro» bisogna sapere che ognuno di noi aveva ricevuto alla partenza da Kirsanoff una piccola tessera sulla quale stava scritto: «Italjanskij soldat - Napravljaetsja v Italiju cerez Arhangelsk», si invia in Italia per Arcangelo. Passati ancora una volta da Jaroslavl, da Vologda e da Vosega, la stazione del dietrofront, si giunse alla riva sinistra della Dvina dinanzi ad Arcangelo, il 20 settembre. Un grande piroscafo era accostato alla banchina; ed ecco che i triestini ravvisano subito in esso un conoscente: era un piroscafo del Lloyd Triestino, il Koerber, sul quale qualcuno di loro aveva lavorato o col quale aveva navigato. L'Austria ci offriva il mezzo per il rimpatrio; veramente troppa cortesia! Anche esso era dunque prigioniero di guerra. Era stato sequestrato all'inizio delle ostilità nel porto di Alessandria e aveva cambiato il nome dell'uomo di Stato austriaco in quello inglese di «Huntspiel». Subito fu innalzato all'albero di poppa un grande tricolore.
Era tempo che si partisse, giacché il porto di Arcangelo, per la sua posizione, rimane presto ostruito dai ghiacci. Se tardavamo ancora qualche settimana, ci toccava, come ad altri dopo di noi, fare il giro del mondo, poiché allora non era terminata la ferrovia da Pietrogrado a Porto S. Caterina sulla costa della Murmania, il quale porto, sebbene più settentrionale di Arcangelo, è tutto l'anno sgombro da ghiacci per il benefico influsso della corrente del Golfo, che non penetra nel Mar Bianco. A questa ferrovia attendeva allora febbrilmente la Russia, facendovi lavorare specialmente operai cinesi, per non essere nell'inverno tagliata fuori completamente da ogni comunicazione con gli Alleati. Navigammo nel Mar Bianco tutto quel giorno; la notte la passammo dietro un isolotto fortificato, vicino alla costa della penisola di Kola. Sulla roccia brulla dello scoglio si profilavano semplici e rozze croci di legno a ricordare le vittime dei sottomarini germanici e delle loro mine. In quel tempo infuriava la guerra dei sottomarini. Il giorno dopo si doveva passare la parte più stretta del Mar Bianco. Si procedeva così: Davanti una di qua e una di là due torpediniere russe che trascinavano tesa tra l'una e l'altra, una rete pescamine; dietro a una certa distanza, altre due torpediniere allo stesso modo, con un'altra rete, e sulla scia d'una quinta torpediniera che andava cauta e lenta dietro la seconda rete, ancor più cauta procedeva la nostra nave. Così solo a mezzogiorno del 27 giungemmo nel mare aperto di Barents. Allora la nostra sirena salutò le cinque torpediniere che ci lasciavano, e la nave cominciò a filare le sue quattordici miglia, puntando a nord-est, verso l'Oceano Artico. ….E neve e freddo e burrasca. Come Dio volle il mare si calmò alquanto, e il due ottobre passammo vicino al gruppo delle isole Faroer, che si alzavano ripide e selvagge dalle acque. Da esse sbucò un incrociatore francese che c'intimò l'alt con un colpo di cannone; bisognò ubbidire; e quindi tra le due navi avvenne un lungo scambio di segnali con banderuole, finché si intesero e potemmo proseguire. La mattina del giorno seguente, quando ci svegliammo, un bel sole illuminava da una parte i monti della Scozia e dall'altra le belle isole Ebridi. Eravamo all'entrata del canale del Minch. Quindi proseguimmo lungo le coste della Scozia, tutte frastagliate e punteggiate di bellissime isolette e scogli, finché verso sera entrammo nell'estuario del fiume Clyde: da una parte e dall'altra un'infinita serie di cantieri con navi in costruzione. VologdaTutti siamo sul ponte o arrampicati alle sartie; ecco scendere una nave italiana: grida, evviva, saluti. A notte siamo a Glasgow, accolti dalle baionette dei soldati scozzesi col gonnellino. Nella stessa notte e al mattino seguente attraversammo tutta l'Inghilterra in mezzo a una serie quasi ininterrotta di fabbriche e di opifici; di quando in quando un bel prato verdissimo con animali al pascolo: lì si alterna il verde carico al nero del carbone. Alle undici circa giungemmo a Southhampton.
La traversata della Manica si compì di notte, e fu l'ultimo colpo del destino. Fu una notte burrascosa tremenda veramente infernale. Soffrivano persino i marinai inglesi. Noi, buttati a corpo morto bocconi sui pavimenti dei vani locali o sui fondi delle stive, con davanti alla bocca la gavetta, non proprio per mangiarvi, con le braccia allargate aspettavamo, pallidi e smorti, che il fato si compisse. Ma anche questa passò, e la mattina dopo sbarcavamo a Cherbourg accolti fraternamente dalle baionette francesi. Questa volta protestammo; quindi si attraversò la Francia accompagnati dai soldati francesi, ma senza baionette inastate e senza fucili. Passammo per Le Mans e Lione, non più in veste di prigionieri, salutati con simpatia dalla popolazione. A Modane il primo saluto di quella colonia italiana. Urla di gioia e grida di «Viva l'Italia» al fermarsi del treno sul confine dentro il traforo del Cenisio. Il giorno nove ottobre giungemmo a Torino, accolti dai torinesi con dimostrazioni d'affetto davvero commoventi. Alla stazione ci porse il saluto del Governo e della Patria il ministro Comandini, e quello della città il sindaco senatore Rossi. E la nostra odissea aveva fine.

(parentesi. Dunque posto piede su suolo italiano siamo diventati per la questura, malgrado le belle parole di Torino, soltanto degli stranieri. Non si poteva darci un pezzo di carta che ci distinguesse da un tedesco o da un turco. Che italiani, che irredenti! Ecco qua il «foglio per gli stranieri», e se non lo volete vi mettiamo dentro! - Stranieri e basta. Pazienza! - Chiusa la parentesi.)

L'ordine di arruolamento generale in Trentino arrivò immediatamente dopo l'annuncio dell'entrata in guerra dell'Austria contro la Serbia (4/8/1914). La leva di massa interessò gli uomini tra i 21 e i 42 anni, per cui i reclutati trentini di quei primi mesi furono circa 40mila, pari all'11 per cento della popolazione. Altri 20mila trentini furono arruolati dopo l'ingresso in guerra dell'Italia. La maggior parte dei primi arruolati venne inviata sul fronte orientale soprattutto nella Galizia, dove i Russi avevano scatenato una rabbiosa offensiva. "il 16 agosto arrivammo in Galizia, vicino a Leopoli, in una zona di pianura: arrivammo col treno di notte ed eravamo già sulla linea del fronte. Noi eravamo nei campi di patate e i russi erano trincerati sulle colline. Ci mandarono all'attacco il giorno dopo: attaccammo coi cannoni e coi fucili e riuscimmo a prendere le trincee russe. Mi ricordo che il fondo delle trincee era tutto coperto di scorze di semi di girasole che i russi mangiavano in continuazione. Il 5 di settembre attaccammo nella zona di Bels; ma i russi riuscirono a chiuderci in una specie di ferro di cavallo. Il 7 attaccarono i russi; erano almeno il doppio di noi e ci ritirammo. Io feci una fuga di almeno un chilometro e finii... in bocca a loro. Fui fatto prigioniero nel paese di Rovaruska". (Silvio Zucchelli)

Nel tardo autunno del '14, lo Zar fece un passo ufficiale presso il re italiano impegnandosi a restituire i prigionieri in cambio dell'ingresso in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa. Ma l'offerta venne declinata perché si temeva che tale decisione avrebbe potuto compromettere la neutralità proclamata dall'Italia. Dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia, vi furono varie iniziative da parte italiana per raccogliere i "prigionieri irredenti" (così vennero chiamati), col proposito di farli rientrare in Italia. Con il consenso del ministero russo della guerra, gli "irredenti" sparsi nei 45 governatorati dell'impero furono raccolti nel campo di Kirsànov o Kirsanoff una piccola città nella regione del Don, e in altre due località. Dopo lunghe trattative, finalmente il 16 luglio 1916 da Torino partì per la Russia una missione speciale, composta da 21 ufficiali italiani (tra i quali anche i trentini Guido Larcher, Filiberto Poli e Lorenzo Parisi), con il compito di organizzare l'operazione del rientro dei profughi in Italia. Il campo di Kirsànov, con circa 6mila presenze, stava toccando ormai il limite del collasso. Si imponeva quindi con urgenza lo svuotamento per lasciare libero il posto ai nuovi prigionieri che in maniera capillare, ma continua, affluivano dalle parti più impensate della Russia. A Torino e in altre città italiane i trentini del primo contingente trovarono comunque subito un lavoro, erano stati fortunati. Ad eccezione di un numero piuttosto esiguo, gli ex prigionieri irredenti non vennero arruolati nell'esercito italiano, poiché si temeva che qualora fossero stati catturati, sarebbero stati condannati a morte, come era accaduto a Cesare Battisti.
Lo zar, l'erede al trono e le figlieLa lunga marcia verso il Pacifico
Con l'avvicinarsi dell'inverno, il rimpatrio dei prigionieri subì una stasi, dovuta al fatto che i mari del Nord erano impraticabili a causa dei ghiacci. Nel marzo 1917, inoltre, a Pietroburgo era scoppiata la rivoluzione e la situazione politica da allora diventò alquanto precaria. Kirsànov a metà del '17 si era ripopolato con più di tremila presenze. La vita dei prigionieri trascorreva in mezzo a difficoltà sempre maggiori. "Durante tutta l'epoca dall'ottobre al maggio i poveretti con una mano mangiavano e con l'altra si battevano il corpo, saltando continuamente per evitare il congelamento dei piedi". Fu a questo punto che iniziò ad essere studiato un progetto alquanto macchinoso ed ardito, quasi incredibile. Si trattava di attraversare tutta la parte orientale della Russia fino alla costa del Pacifico e da lì poi puntare verso gli Stati Uniti e l'Europa. Un giro del mondo carico di incognite. Sulla carta il progetto sembrava fattibile. Ma quando giunse il momento di attuarlo, la situazione si complicò ulteriormente perché l'8 novembre era scoppiata la guerra civile, la vera rivoluzione d’ottobre (per loro novembre), che aumentò la confusione. Allora i prigionieri furono divisi in scaglioni di 40 uomini, che alla spicciolata, tre volte al giorno aspettavano di salire sulla Transiberiana, diretti a Vladivostòk. Il primo gruppo partì da Kirsànov il 28 dicembre. Per tutti l'ordine era di ritrovarsi al capolinea sulla costa russa del Pacifico. Nel febbraio 1918 avvenne il ricongiungimento dei circa 2500 "viaggiatori". Gli ex prigionieri (di cui circa 1600 trentini) furono accampati a Tientsin e in altri centri di raccolta. Per loro sembrò l’iniziò una vita migliore, in attesa del ritorno in Italia, ma ad attenderli c’era un’altra guerra, quella dei battaglioni neri.


 

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