Il diario di Nicola Santecchia

continua .... Prigioniero in India

Gennaio 1941 - 1946

Reduci dalla strenua difesa di Bardia (Africa Settentrionale Italiana), protrattasi dal 16 dicembre 1940 al 3 gennaio 1941, ove caddero prigionieri degli Inglesi 40.000 soldati italiani, fummo raccolti, smistati e imbarcati a Suez, diretti in India. Bombay, dove giungemmo, era una grande città. Nel porto era schierato un reggimento di soldati indiani dell’esercito inglese, essi fecero ala lungo l'ampio viale che conduceva alla stazione ferroviaria, per evitare che qualcuno di noi, nella confusione, se la svignasse. Fummo riforniti con un tascapane ciascuno contenente varie scatolette di carne, tonno, prugne, datteri, uva passita e fichi secchi. Ci fecero poi salire su di una tradotta militare a carbone molto lenta, diretta al campo di concentramento di Bangalore. Siamo arrivati al campo di prigionia n. 11 Wing 4 di Bangalore, con diversi campi vicini contenevano circa 1.400 - 1.500 soldati ciascuno. La mia matricola di prigioniero di guerra è n. 126968. Il comandante, un capitano inglese d'origine maltese, era cattolico e parlava bene l’italiano, ma era prevenuto nei nostri confronti. “Voi Italiani non fate i furbi anche qui, perché qualcuno potrebbe buscarsi una fucilata”
All’ospedale
Dopo poco tempo dall’arrivo, contrassi l’itterizia; ero diventato completamente giallo come una zucca, compresi occhi ed unghie e quindi fui ricoverato ad un ospedale civile di Bangalore. Il mio amico Pierino, in seguito, mi raccontò come si svolsero i fatti. «Dopo alcuni giorni che eri all’ospedale i medici ritenevano seria la tua malattia tanto che si presentò al campo un ufficiale chiedendo: “Chi è parente di Nicola Santecchia? Chi è di Colmurano di Macerata?” Risposi che ero dello stesso paese, ma non parente, allora l’ufficiale mi fece accompagnare all’ospedale al tuo capezzale ove sembravi morente, infatti mi dicesti: “Salutami la mia famiglia, io non ritornerò più in Italia morirò qui!”. Ma non morii, dopo un mese ero di nuovo al campo.
 Al campo

 ….. I reticolati del campo di prigionia erano alti 3 - 4 metri con sulla sommità il filo spinato, di giorno ci si poteva avvicinare, ma di notte erano accesi i riflettori ed era proibito. Le sentinelle che vigilavano il perimetro esterno erano indiane, indossavano un casco coloniale bianco e la loro paga era di circa venti Rupie al mese, mentre gli altri militari erano Inglesi. Tra gli Indiani serpeggiavano già sentimenti di ribellione anti inglese, li abbiamo sentiti dire: "Presto raggiungeremo l'indipendenza dalla Gran Bretagna". In seguito Pierino mi ha raccontato che, negli ultimi anni di prigionia, giunsero dei soldati indiani impegnati sul fronte italiano e richiamati in patria per far servizio nei campi di prigionia. Queste guardie avevano imparato un po’ d’italiano e ne approfittavano in modo  per nulla elegante  mostrando delle foto che si erano fatti in Italia con delle ragazze e dicendo beffardi: «Questa è tua sorella, tua moglie,  ecc…. vedi !»……Due volte al giorno dovevamo fare adunata per essere contati in uno spiazzale detto anticampo, alla presenza del comandante del campo e di alcuni sottufficiali dell’esercito britannico chiamati quarter’master (sergenti di acquartieramento). Spesso accadeva che si sbagliavano a contare, eravamo così costretti a stare tre o quattro ore sotto il sole che picchiava. Per evitare di prendere insolazioni, ci avevano dato in dotazione dei caschi di colore chiaro leggeri e freschi fatti con le foglie della pianta di banana. Il rancio comprendeva farinaccio fatto con farina di riso, orzo e grano; anche i maiali italiani mangiavano qualcosa di simile!. Per i pasti usavamo i piatti, un giorno mentre avevo ritirato la mia porzione di farinaccio con un bel pezzo di bollito e stavo apprestandomi a mangiare, una cornacchia scese fulminea in picchiata dal cielo, mi rubò la carne, rovesciò la minestra e mi lasciò senza pranzo. La domenica veniva nel campo un cappellano militare cattolico inglese per celebrare la Messa. Alfredo, calzolaio di professione, oltre a riparare le scarpe ai prigionieri, su richiesta tagliava anche i capelli. Inoltre cucendo degli asciugamani era riuscito anche a confezionare pantaloni, magliette, mutande ed altra biancheria. Una volta fece un paio di scarpe numero 47 al tenente Mocchegiani di Tolentino. Per gli acquisti all’interno del campo di prigionia erano usate delle apposite banconote con valore in Rupie indiane, non spendibili all’esterno, ogni Rupia indiana era divisa in 16 Annas.

 

Niente che è molto molto brutto o molto molto bello dura tanto a lungo. Proverbio orientale

Il tempo è un grande insegnante, ma sfortunatamente uccide tutti i suoi alunni. Hector Berlioz

 

La prima parte è stata pubblicata alla pagina http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/diari/santecchia.htm con la recensione al libro "Così trascorsi gli anni migliori" uscito in tempi successivi. 

Ti autorizzo a riprodurre integralmente l'articolo corredandolo con foto d'archivio. enosantecchia@gmail.com Copyright © 2001 Eno Santecchia Tutti i diritti riservati.

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  I CANCELLI SI APRONO PER CHI VUOLE COOPERARE pag. 82 segg.
I prigionieri italiani che scelsero di cooperare, per ritornare da Yol a Bangalore, percorsero in autocarro una tra le più grandi strade dell’India di allora. Era molto larga, con la pavimentazione in cemento, fiancheggiata da alberi di tamarindo che ospitavano numerose scimmie. La squadra di Nicola era composta di 30 uomini; era addetta al montaggio dei pali e dei fili, ed aveva in dotazione un autocarro. Il capitano aveva un’autovettura e il tenente una motocicletta. Il lavoro consisteva nella costruzione di una linea telefonica parallela alla ferrovia, che da Bangalore conduceva a Madras, ma successivamente furono costruite anche altre linee verso Nuova Delhi. Erano alloggiati in tende da quattro posti, che venivano spostate una volta al mese in direzione della linea telefonica in costruzione. Siccome le zanzare erano fameliche, ognuno aveva una propria zanzariera, perché senza di essa era impossibile dormire. Una grande tenda con la cucina da campo era adibita a locale mensa, dove c’era anche una radio ricevente e grazie ad essa si potevano ascoltare i comunicati e le notizie. L’attività iniziava alle ore sette e terminava alle dodici; il pomeriggio non si lavorava a causa dell’elevata temperatura che raggiungeva anche i cinquanta gradi all’ombra. La paga era di circa 8/9 rupie il mese: una rupia indiana valeva circa cinque lire italiane.
Per salire sui pali di legno e collegare i fili si usavano dei ramponi metallici; per tirare i fili impiegavano un piccolo argano a mano. Lungo la strada ferrata transitavano spesso convogli ferroviari composti di numerosi vagoni; le locomotive andavano a carbone. Le buche nel terreno erano scavate da operai indiani, che sebbene percepissero la stessa paga dei prigionieri italiani, non si distinguevano certo per produttività. Nicola mi raccontava, sorridendo che un indiano, per scavare una semplice buca, impiegava molte ore! Ogni tanto incontravano qualche serpente cobra, pronto ad ergersi e mordere chi gli capitava a tiro. Nicola girava alla larga perché sapeva benissimo quanto fosse letale il morso del cobra. Un soldato certo Proietti di Roma, andava spesso a caccia di questi serpenti; era talmente abile che riusciva ad ucciderli con un bastone, senza farsi mordere.
Ill pomeriggio i lavoratori si riposavano ed ascoltavano la radio britannica BBC per apprendere notizie sulla guerra. Grazie alla radio ed ai documentari informativi (simili ai film Luce) che erano proiettati nelle sale cinematografiche, riuscirono a conoscere gran parte degli avvenimenti che accadevano nel mondo in quel tormentato periodo. Nicola, come gli altri, era interessato a sapere le notizie di ciò che accadeva fuori dall’India. Delle notizie che i giapponesi si erano avvicinati ai confini dell’India, vale a dire che avevano occupato la Birmania e Singapore ne venne a conoscenza solo in seguito. Gli inglesi, per motivi di sicurezza, non avevano ritenuto opportuno divulgare, quelle notizie per evitare sommosse e rivolte nei campi di prigionia
(nota del sito: in Italia si chiamava propaganda).
II militari inglesi che avevano combattuto contro i giapponesi, raccontavano che i soldati del Sol Levante piuttosto che farsi prendere prigionieri, preferivano suicidarsi, infilandosi la sciabola nella pancia facendo il cosiddetto harakiri. Di conseguenza i campi di prigionia indiani destinati ai giapponesi erano deserti.
Quando gli addetti alla costruzione delle linee telefoniche si trovavano vicino a qualche città, come Bangalore, Davangere, Indupur, approfittavano per recarsi al cinema o a gustare della birra o del tè in qualche locale. La birra era la bevanda più apprezzata dagli inglesi, una parte di essa era prodotta in loco. Nicola notò numerosi campi coltivati a orzo, però di una varietà dal colore più scuro di quello italiano. C’erano grandi risaie e la semina avveniva prima che arrivassero i monsoni, così poi con le piogge le risaie si allagavano naturalmente. In India c’erano vaste piantagioni di banane, di ananas, di canne da zucchero, di palme da datteri e di noci di cocco. Nelle praterie pascolavano mandrie di bufali dal mantello scuro, i quali non trascuravano nemmeno una pozzanghera d’acqua, per rotolarci dentro e trovare così un po’ di refrigerio all’afa e togliersi dalla pelle i parassiti. I bufali venivano utilizzati anche per l’aratura.
Nella tenda di Nicola non mancò mai un bel casco di banane mature di cui era molto ghiotto; un casco gli bastava poco più di una settimana. Le piante delle banane selvatiche erano alte intorno ai due metri, le foglie erano utilizzate per fare cappelli coloniali. Apprezzava anche il mango, allora quasi sconosciuto in Italia, frutto simile al melone ma con un grande nocciolo come quello della pesca. La pianta del mango può essere molto alta, il frutto dalla polpa color giallo chiaro ha un gradevole sapore dolce-acidulo, per essere consumato deve essere però maturo al punto giusto.
Nei campi, non avendo un contatto diretto con l’esterno, tra l’India e l’Italia Nicola riuscì a notare solo la differenza del clima. Appena fuori si rese conto delle grandi diversità delle lingue, dei costumi, delle religioni, delle piante e degli animali. Le piantagioni di canna da zucchero venivano tagliate a mano, circa ogni due anni, quando avevano raggiunto l’altezza di circa due metri, poi venivano inviate negli stabilimenti d’essiccazione e lavorazione per estrarne lo zucchero biondo di canna. Nicola vide per la prima volta gli elefanti in libertà; animali molto longevi, che gli indiani addomesticavano e usavano per il lavoro. Nelle piantagioni di legno teak, che fornivano tronchi alti e dritti usati per l’alberatura delle navi a vela, una gran parte del lavoro di sollevamento e accatastamento del legname, era svolto dagli elefanti ammaestrati. Gli abitanti della penisola indiana erano divisi in rigide caste ed erano tutti pervasi da grande religiosità, molto di più degli europei. Si nutrivano prevalentemente di riso, di verdure e di frutta: banane, ananas, noci di cocco, manghi, ecc. L’uva essendo d’importazione era troppo costosa. Non usavano sedie e tavoli, bensì solo stuoie e tappeti. Nicola si meravigliò vedendo i fachiri che si sdraiavano su letti con chiodi dalla punta acuminata. 
Gli induisti mangiavano il montone e il maiale, ma non la vacca che è un animale sacro. I musulmani invece solo carne bovina e ovina, mai quella suina perché la loro religione lo proibisce. Le “sacre vacche indiane”, erano in realtà zebù perché possedevano una gobba nei pressi del garrese, girovagavano liberamente per i campi, per le strade e per le periferie delle città; i proprietari le riconoscevano dal marchio. Alcune erano ben pasciute e strigliate, altre avevano il pelo arruffato ed erano pelle ed ossa. Erano impiegate per i lavori agricoli, come l’aratura, con aratri di legno alquanto primitivi, però solo quando il terreno era bagnato, perché erano molto meno robuste dei bovini di razza marchigiana. Gli induisti le allevavano, ma per la carne erano utilizzate solo dai musulmani. I negozi migliori, chiamati semplicemente shop, erano quelli di proprietà degli ebrei, al loro interno si trovava di tutto: vestiti, scarpe, medicinali, sigarette, tè, caffè, pepe, spezie varie, alimentari e frutta, ferramenta. I gioielli e gli oggetti in oro e argento avevano un costo notevolmente inferiore rispetto all’Italia, ma pochi acquistarono qualcosa per paura che venisse requisito durante le perquisizioni. A Bangalore, con i primi risparmi del lavoro, Nicola comprò una bella sahariana di cotone con i pantaloni di colore kaki simili a quelle che indossavano gli inglesi e morbide scarpe nere, spendendo quindici rupie. Con qualche rupia acquistò anche una robusta valigia metallica, completa di lucchetto, dove scrisse subito il nome e cognome. Gli fu molto utile durante gli spostamenti da un campo all’altro, per tenere i pochi capi di abbigliamento e gli effetti personali. In uno di questi empori, acquistò un dizionario inglese - italiano, molto utile per apprendere la lingua britannica, finché non gli fu rubato. Non riuscì mai a capire più di qualche parola della lingua hindi.
Ai lavoratori spettava un periodo di dieci, quindici giorni di licenza che di solito Nicola trascorreva nella città di Bangalore, dove consumava i pasti e alloggiava presso la caserma di qualche reggimento di sua maestà britannica. Aveva imparato a parlare la lingua inglese a sufficienza per farsi capire. I tommies amavano molto bere e prendevano spesso qualche sbronza, da ubriachi offendevano, ma Nicola, per non venire alle mani, li evitava. In verità non apprezzava il modo di cucinare degli inglesi, i loro cibi erano troppo dolciastri e piccanti a causa dell’eccessivo uso di peperoncino. Nel sugo aggiungevano lo zucchero, forse per combattere l’acidità dei pomodori di qualità scadente: non avevano certo a disposizione i dolci pomodori italiani. Inoltre non si riusciva a distinguere se i maccheroni erano asciutti o in brodo perché troppo scotti e perché gli inglesi non si curavano di scegliere il corretto formato di pasta. Per il resto Nicola si adattò e si trovò abbastanza bene. I britannici nutrivano grande fiducia nei confronti del loro primo ministro sir Winston Churchill ed erano sicuri che alla sua guida sarebbero riusciti a vincere la guerra. Nicola non poté fare a meno di ammirare la loro fermezza, la chiarezza di intenti e il grande attaccamento alla democrazia.
Bangalore, come altre città visitate da Nicola, era divisa in quartieri europei, moderni e ben tenuti e c’era una zona indiana chiamata “out of bounds” (vietato entrare) dove per un occidentale era molto pericoloso andare. Esistevano grandi e lussuose sale da ballo che rimanevano aperte fino al mattino. Insieme ad alcuni amici, Nicola una volta ci andò, c’erano bellissime donne inglesi e anglo-indiane da mozzare il fiato; i pavimenti erano di marmo e c’erano lussuosi lampadari di cristallo. A parte la diffidenza verso di loro, per entrare occorreva l’abito da sera o almeno elegante; purtroppo la misera paga non concedeva loro questo lusso. Questa bella città aveva diversi cinema, uno si chiamava “New Opera”; c’erano anche tre chiese cattoliche delle quali quelle di St. John e di St. Joseph dove la domenica ci si recava a Messa, allora celebrata in latino.
Un aspetto comune delle città indiane durante la stagione afosa era che la gente disertava in massa i soffocanti alloggi per allungarsi comodamente sul duro suolo dei marciapiedi dove, nell’oscurità creavano un problema per i passanti. Il clima di Bangalore, comunque, si avvicinava di più a quello delle Marche, non era soffocante come quello di Bhopal. Poco dopo il 29 aprile 1945, un tenente inglese di Malta invitò i cooperatori italiani a recarsi a vedere un documentario presso una sala cinematografica di Bangalore. Qui vennero a conoscenza che Benito Mussolini e la sua amante 33enne Claretta Petacci erano stati catturati dai partigiani italiani mentre cercavano di fuggire in Svizzera. Il Duce si era travestito da soldato tedesco. Erano poi stati giustiziati sommariamente e appesi a testa in giù sulla tettoia del rifornimento di carburante di piazzale Loreto a Milano.
Nel febbraio del 1942 l’offensiva giapponese investì la Birmania, c’era qualche speranza che i giapponesi arrivassero in India per liberare i prigionieri dai campi inglesi. I più fanatici già fantasticavano di aggregarsi ai ranghi nipponici per combattere contro gli inglesi, anche se nel frattempo erano diventati alleati del Regno d’Italia. Non tutti quindi, ce l’avevano con chi li aveva gettati a capofitto in quella guerra sbagliata. Un giorno, mentre Nicola era in permesso e stava andando in treno a Madras, diretto verso una caserma dell’esercito inglese, incontrò alcuni soldati indiani, che parlavano anche italiano. Questi indiani si erano appena congedati dall’esercito inglese ed erano reduci dalla campagna d’Italia. Sbarcati con gli americani al sud della penisola erano arrivati a Roma, Macerata e ad Ancona, combattendo contro i tedeschi, sfondando la line Gustav e la linea Gotica. Essi conservavano nel loro cuore un buon ricordo dell’Italia, dell’ottimo clima e dell’umanità della gente.
Nell’agosto del 1945, tramite la radio, seppero che nelle città giapponesi d Hiroshima e Nagasaki i bombardieri americani del generale Mac Arthur avevano sganciato due bombe atomiche. Queste avevano raso al suolo le due città provocando centinaia di migliaia di morti; si sosteneva inoltre, che in quei luoghi per tanti anni non sarebbe ricresciuta nemmeno l’erba. Questa tragedia accelerò la fine della guerra, perché i giapponesi poco dopo firmarono la resa incondizionata a bordo della corazzata americana Missouri ancorata nella baia di Tokyo. Questa notizia riempì i cuori dei prigionieri di grande gioia, essi speravano in un rientro in patria entro brevissimo tempo Gli italiani chiedevano insistentemente agli inglesi: “Cosa aspettate a rimpatriarci?”, ma la risposta era sempre la stessa: “Non ci sono navi disponibili per ritornare in Europa”. Una risposta alquanto amara per chi sapeva benissimo che i britannici disponevano della flotta più grande del mondo, le loro navi solcavano tutti i mari e attraccavano in tutti i porti….

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