Il diario di Adamo Salati

 BRANI TRATTI DA VITA DI UNA FAMIGLIA CONTADINA DELLA BASSA EMILIANA

1942-45

Nato a Carpi il 7 Settembre 1923 frequenta le scuole elementari sino alla classe 3°. Gli studi non vennero terminati poiché, come avvenne per i suoi fratelli, era necessario il suo lavoro nei campi soprattutto dopo la partenza per la guerra dei suoi tre fratelli maggiori. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939 non ha ancora raggiunto l’età per la leva, ma quella della premilitare si. Nel 42 risulta idoneo alla visita dei tre giorni e viene assegnato al corpo Bersaglieri, caserma di Verona

I.T.I.S VINCI DI CARPI/MO 5AM Artioli Giulio  ANNO SCOLASTICO 1999/2000: INTERVISTE E DOCUMENTI  http://www.itisvinci.com/matura/2000/Artioli/artiol.htm#INTRO 

D (domanda)- Vi fu un primo periodo di addestramento o veniste mandati subito al fronte? 
R (Risposta)- Anche se ci trovavamo in piena guerra il prima anno lo passammo di caserma in caserma ad addestrarci. Dopo i primi otto mesi passati a Verona ad apprendere le basi della vita militare, l’addestramento continuò presso Folgaria. Il trasferimento avvenne a piedi, tramite marcia notturna perché di giorno vi era il pericolo di bombardamenti. Da Folgaria ripartimmo per Merano e poi per il lago di Garda, sempre a piedi e sempre accampati in luoghi di fortuna come, per esempio, un convento abbandonato. Come conseguenza delle lunghe marce e del campo in alta montagna, mi ammalai di pleurite. L’ufficiale medico prescrisse un mese di convalescenza all’ospedale militare di Bologna, dove mi ripresi completamente. Quei giorni trascorsero talmente tranquillamente che mi scordai della scadenza della licenza e tornai al mio Reggimento presso Peschiera del Garda con un giorno di ritardo. Per questo mi toccò scontare qualche giorno di prigione. Quando uscii venni assegnato al corpo di guardia del carcere di Peschiera che ospitava i detenuti del carcere di Gaeta da poco bombardato. 
Interno Rocca di Montefiorino/MoD- Questi fatti accaddero, se non sbaglio, nell’estate del 1943. Dove si trovava e cosa accadde l’8 Settembre ? 
R- L’8 Settembre ero sempre di guardia al carcere di Peschiera. Alla notizia dell’armistizio festeggiammo tutti perché, anche se la guerra continuava, speravamo in una rapida conclusione grazie all’avanzata degli americani da Sud. Quella sera, verso le 10.00, un ufficiale venne nella nostra baracca dicendo di interrompere i festeggiamenti, spegnere le luci e andare a letto vestiti, restando all’erta per ogni evenienza. L’ufficiale chiese inoltre 16 uomini per effettuare un pattugliamento notturno, tra i quali capitai anch’io. In un clima di paura ed incertezza lasciammo il campo nel buio più totale. Dopo un breve tragitto in aperta campagna giungemmo ad un fortino di legno dove erano stipate armi, munizioni e bombe. Il tenente ci disse di appostarci e sparare su chiunque non si fosse identificato, poi sparì. La notte trascorse tra la paura, i rumori di spari lontani e la voce rassicurante del tenete che ogni tanto veniva a controllare la situazione. All’alba l’ufficiale ritornò accompagnato da una squadra di carabinieri che appostò tra l’erba alta ad un centinaio di metri davanti a noi. A noi, invece, fece approntare due mitragliatrici pesanti nell’attesa dell’imminente arrivo dei tedeschi che già dalla sera prima avevano iniziato a rastrellare la zona. Dopo circa un’ora i primi elmetti tedeschi spuntarono dal bordo di un fossato a circa 200 metri. Da lì spararono una raffica sostenuta che sterminò in un attimo l’intera squadra di carabinieri. Fortunatamente i tedeschi, credendo di aver liquidato tutta la guarnigione del forte, se ne andarono.Il tenente, che aveva assistito alla scena senza fiatare, ordinò la ritirata verso un ponte alle nostre spalle da cui si dominava l’intera zona. Mentre ci recavamo al ponte, l’ufficiale ci spiegò che i tedeschi stavano uccidendo o catturando tutti i soldati italiani prima che potessero organizzarsi e reagire. Quelle parole non ci fecero certo coraggio, ma ancora più preoccupante fu la scena che ci si presento una volta arrivati al ponte: l’intera zona brulicava di soldati, cari armati ed autoblindo tedeschi che rastrellavano le campagne.Capimmo subito che qualsiasi tentativo di resistenza sarebbe stato inutile così decidemmo di arrenderci. 
D- Durante la prigionia che seguì quell’episodio, cosa successe? 
R- Dopo la resa la nostra paura più grande era di venire fucilati sul posto. Ciò non avvenne ma fummo portati alla nostra vecchia caserma già trasformata in campo di prigionia. Dopo qualche giorno di permanenza ci fu chiaro il piano dei tedeschi: riuscire a condurre, via treno,più gente possibile nei campi di concentramento. Infatti ogni giorno partiva un convoglio diretto in Germania. Decidemmo quindi di tentare la fuga che sarebbe avvenuta nel punto meno difeso del campo ovvero dove il reticolato si interrompeva per lasciare il posto alle rotaie della linea ferroviaria. Ovviamente quel punto era sorvegliato ma le sentinelle percorrevano sempre lo stesso percorso e vi erano alcuni secondi in cui si poteva passare perché le guardie davano le spalle alle rotaie. Così un giorno io e due amici decidemmo di tentare la fuga. Fingendo una innocua passeggiata aspettammo che le guardie fossero abbastanza lontane poi iniziò una disperata corsa verso i binari. Nell’attraversare questi le nostre scarpe picchiarono sulle rotaie attirando l’attenzione delle guardie che si voltarono sparando all’impazzata, senza nemmeno lanciare un avvertimento. Tra i proiettili che fischiavano ovunque ci gettammo nell’erba alta che costeggiava la ferrovia, procedendo a "gattoni" per evitare le pallottole nemiche. Riuscimmo così a seminare i nostri inseguitori evitando, per quel momento, la minaccia del lager. 
D- Comunque penso che nella zona vi fossero posti di blocco tedeschi e che voi indossaste ancora le divise, come vi comportaste? 
R- Usciti illesi dalla fuga, il nostro primo pensiero fu quello di salire su qualche treno per fare ritorno alle nostre case. Prima però bisognava allontanarsi il più possibile dal campo e procurarsi abiti civili. Per questo procedevamo a piedi, di notte, in aperta campagna stando alla larga dalle case in cui si parlava tedesco, mentre entravamo in quelle dove vi erano italiani poiché acqua e cibo non ci venivano mai negati. Intanto a noi si erano uniti un gruppetto di soldati sbandati che cercavano anche loro un mezzo per tornare a casa. Una sera arrivammo presso una casa in cui viveva un’anziana signora che ci dette abiti civili e bruciò le nostre divise. Ci dette inoltre indicazioni per raggiungere una linea ferroviaria non controllata dai tedeschi che portava in Emilia- Romagna. Il giorno seguente raggiungemmo quella ferrovia e, al momento del passaggio del treno, salimmo a bordo (a quei tempi i treni erano molto lenti). I vagoni erano stracarichi di ex soldati che fuggivano dalla minaccia nazista, alcuni con ancora la divisa addosso. Il viaggio proseguì senza intoppi sino al Po dove, in prossimità di un ponte, la locomotiva si fermò di colpo. Quando capimmo il motivo della fermata, il sangue mi si gelò nelle vene: un nutrito reparto di SS aveva approntato un posto di blocco lungo i binari. Valutai la situazione e capii che eravamo completamente circondati, vi erano persino postazioni di mitragliatrici lungo l’argine del Po. Immediatamente quattro soldati salirono a bordo e, facendosi largo con il calcio dei fucili, cominciarono ad indicare un passeggero si ed uno no. I malcapitati che erano stati segnati dovevano scendere e montare su pesanti camion parcheggiati li vicino. Io, bagnato di sudore, ringraziavo la sorte che per la seconda volta mi aveva risparmiato il campo di concentramento. Finalmente il treno potè proseguire senza più soste sino a Modena. Da li raggiunsi Carpi dove potei ricongiungermi ai miei cari. 
Tedeschi su una topolino di guerraD- La guerra, però, continuava e so che la vita era difficile per i ragazzi che non si volevano unire alla Repubblica di Salò. 
R- E’ vero, infatti dovevo sempre rimanere nascosto e, anche se di giorno lavoravo nei campi con i miei genitori ed i miei fratelli più piccoli, bisognava sempre stare all’erta per evitare di essere visto da qualche nazifascista. Questa condizione durò sei mesi, sino a quando in paese venne affisso un manifesto, firmato dal Duce, che obbligava tutti i maschi dai 18 ai 38 anni a presentarsi al distretto militare più vicino, pena la fucilazione immediata. Io, un po’ per paura, un po’ per accontentare mia madre che temeva un’esecuzione sommaria, decisi di recarmi a Modena. Durante il viaggio penavo che chi si consegnava spontaneamente sarebbe stato trattato meglio dei fuggiaschi catturati nei rastrellamenti. 
D- Cosa accadde una volta giunto a Modena? 
R- Al distretto militare c’erano circa una cinquantina di uomini che avevano fatto la mia stessa scelta. Insieme a loro venni portato all’Accademia Militare che allora fungeva da quartier generale dei tedeschi. Dopo essere stato schedato una guardia mi condusse in una stanza all’ultimo piano dell’edificio che sarebbe stata la cella per me e per altre cinquanta persone. Dopo 40 giorni infernali passati là dentro in mezzo ai nostri stessi escrementi, potemmo uscire dalla prigione per riunirci nel piazzale dell’Accademia. Li due caporali repubblichini dall’accento napoletano dissero di mettersi in marcia e che la nostra meta sarebbe stata la stazione dei treni. Durante il tragitto, sebbene i due caporali impugnassero due pistole ognuno, alcuni coraggiosi riuscirono a dileguarsi nelle viuzze trasversali a quella che percorrevamo. 
D- E Lei non tentò di fuggire? 
R- No, perché la paura era troppa. Però, come spiegherò più avanti, feci bene a proseguire. Arrivati in stazione ci condussero su una banchina in attesa del treno, dicendo che si trattava di un trasferimento di routine. Io mi guardavo intorno e tra le facce spaventate dei miei compagni ne scorsi una nota: era mio zio paterno, che lavorava come manutentore della linea ferroviaria Modena- Soliera. Sorpreso nel vedermi li mi si accostò chiedendomi informazioni; quando gli ebbi spiegato l’accaduto, la sua risposta fu terribile: il treno che stavamo aspettando portava dritto ai campi di sterminio nazisti. Senza dare nell’occhio alle guardie che presidiavano la stazione (non so ancora come ci riuscimmo) ci recammo al bar della stazione per prendere un caffè, anche se lo rovesciai quasi tutto poiché tremavo come una foglia. Dopo quell’azione diversiva andammo in una baracca poco distante che fungeva da spogliatoio e deposito per gli operai. Li, mentre mi infilavo una tuta da manutentore, mio zio mi disse di camminare il più tranquillamente possibile verso Soliera costeggiando sempre i binari e di fingere ogni tanto qualche lavoro di riparazione. Col fiato sospeso seguii i suoi consigli ed infatti in qualche ora arrivai di nuovo a casa. Li presi una decisione solenne: quella sarebbe stata l’ultima volta che rischiavo l’internamento in un lager da civile! 
D- Intende dire che si unì ai partigiani? 
R- Si, era il 13 Agosto 1944 quando mi arruolai nella formazione partigiana "Brigata Guidetti", che operava nella zona di Modena. Le missioni principali cui era assegnata la mia brigata erano impedire ai tedeschi presenti in zona di sequestrare cibo e bestiame ai contadini e fare imboscate per procurarsi armi e munizioni. 
D- Può portare un esempio di una missione? 
R- Si. Una volta, mentre stavo lavorando in campagna con alcuni amici partigiani, arrivò una staffetta con la notizia che una ventina di tedeschi aveva requisito dei capi di bestiame all’Appalto di Soliera e li stavano conducendo a Carpi dove li avrebbero macellati. Presi i fucili corremmo subito al punto di riunione prestabilito dove ci aspettavano i compagni già informati dell’accaduto. Così ci appostammo in un gruppo di casolari che costeggiavano la strada su cui sarebbero passati i tedeschi. Infatti, pochi minuti dopo, fece la sua comparsa la colonna formata da 20 tedeschi a piedi e 15 tra vacche e vitelli. All’ordine del nostro capo fu gettata in mezzo alla strada una bomba a mano che, contrariamente a quello che si pensa, crea più che altro rumore e fumo spaventando e disorientando il nemico. A quel punto iniziò una breve ma intensa sparatoria tra noi ed i tedeschi. Quando il fumo si diradò alzammo prudentemente la testa dai nostri nascondigli e vedemmo solo le bestie: non era morto nemmeno un tedesco ma era tutti scappati nei campi circostanti. Comunque la missione era compiuta ed il nostro comandante uscì dalla casa per raggiungere la strada ma, appena voltato l’angolo, un proiettile lo centrò in piena fronte. L’uomo cadde al suolo mentre un tedesco, rimasto fino ad allora in un fosso li vicino, se la dava a gambe in un campo di frumento. Sparammo alcune raffiche ma il cecchino riuscì a fuggire. Così, carichi di tristezza per la morte del nostro amico, riportammo gli animali al legittimo proprietario. 
D- Vi erano mai rappresaglie in seguito alle vostre azioni? 
R- Si, ve ne fu una proprio in risposta all’azione che ho appena raccontato. Il giorno seguente i tedeschi organizzarono un rastrellamento per scovare gli autori dell’imboscata. Siccome non ci trovarono (ci eravamo prontamente nascosti nelle stalle) catturarono alcuni vecchi della zona, tra cui mio padre, e li rinchiusero in un casolare cui dettero fuoco. Fortunatamente mio padre riuscì a fuggire dal rogo appena in tempo. 
D- Come vi procuravate armi e munizioni? 
R- Il modo relativamente più semplice era quello di lavorare normalmente nei campi ed aspettare che passasse una pattuglia da tre uomini della Wehrmacht che perlustravano tutto il giorno le campagne. Appena era passata io ed alcuni amici correvamo a mascherarci il viso con un fazzoletto e, a bordo di biciclette, li seguivamo da lontano. Appena si fermavano per bere li raggiungevamo e gli puntavamo una pistola (spesso scarica ) facendoci consegnare le armi e le munizioni, fuggendo poi ad alta velocità. In quel modo, però, si raccoglieva poco. Per quantitativi più ingenti di materiale bellico si doveva assaltare un camion. Questi camion venivano usati dal comando tedesco per trasferire uomini ed armi da una caserma all’altra e viaggiavano di notte per evitare i bombardamenti alleati. Una volta deciso l’attacco partivamo con un cavallo sul quale avremmo sistemato il materiale rubato. Per non creare rumori sospetti agli zoccoli del cavallo venivano applicati dei copri-ferri di gomma di gomma di nostra invenzione. Il luogo più usato per questo tipo di operazioni era lungo la strada Nazionale Carpi Sud presso Ganaceto. Qui, dopo aver nascosto il cavallo, ci acquattavamo nel fosso che costeggiava la strada e aspettavamo il passaggio di un camion. Quando passava uno di noi gettava la solita bomba in strada che costringeva l’autista a fermarsi. Ricordo che quando partecipai ad un’azione del genere, allo scoppio della granata, i tedeschi che si trovavano sul pianale del camion (che era scoperto) cominciarono a sparare all’impazzata verso il nostro nascondiglio, anche se non potevano vederci. In quel momento temetti veramente per la mia vita mentre vedevo i proiettili che si conficcavano nel terreno davanti a me. Comunque anche noi aprimmo il fuoco ed in breve i tedeschi gettarono le armi, scendendo dall’autocarro con le mani alzate, sotto la minaccia dei nostri fucili. Però uno di loro era rimasto a bordo, accovacciato dietro la sponda del pianale, sparò un colpo verso di noi, che nel frattempo eravamo usciti dal fosso. Fortunatamente sbagliò il colpo mentre un mio compagno raggiunse il camion freddando il soldato con un colpo alla tempia. Poi, mentre uno di noi teneva sotto tiro i tedeschi preoccupati di seguire la sorte del loro compagno, io e gli altri caricavamo armi e munizioni sul cavallo. In seguito rinchiudemmo autocarro e uomini nel cortile di una casa adiacente alla strada e fuggimmo per la campagna: la missione era riuscita. 
D- Montefiorino fu un centro nevralgico della resistenza emiliana; lei c’è mai stato? 
R- Si. I partigiani che combattevano stabilmente sugli Appennini avevano, forse più di noi, bisogno continuo di armi e viveri così vi era un flusso costante di partigiani dalla pianura alla montagna e vice versa per portare, appunto, i rifornimenti. Io, più volte, partecipai a questi viaggi. 
D- Come avvenivano questi viaggi? Suppongo che ci fossero molti posti di blocco. 
R- In effetti la strada principale che collegava Modena alla montagna era presidiata in più punti da reparti nazifascisti. Bisognava perciò procedere a piedi seguendo percorsi prestabiliti attraverso le campagne ed i boschi. La durata del viaggio era di circa un giorno ed una notte. Particolarmente interessante era il metodo con cui si portavano in montagna i grandi rifornimenti, che necessitavano l’utilizzo dei camion. Innanzitutto si usavano automezzi militari rubati ai tedeschi, poi i partecipanti all’operazione indossavano divise della Wehrmacht. Tra questi partigiani vi erano alcuni ex soldati tedeschi che, stanchi di combattere una guerra in cui non credevano, avevano disertato unendosi ai partigiani. Ovviamente, quando si incontrava un posto di blocco, venivano fatti parlare loro, assicurando quasi sempre il passaggio del convoglio. Le operazioni che ho qui descritto le svolsi sino al giorno della liberazione, data in cui cessarono ufficialmente le operazioni dei partigiani e potei tornare finalmente alla vita civile.  

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