LA SECONDA 

GUERRA MONDIALE  

 

FUGA DA LERO

Angelo Martelli

3a parte- l'epilogo e la ferrovia asiatica

 

La mattina di S. Stefano, il 26 dicembre (1943), il fil di fumo arrivò; un caicco uscì dal porto di Bodrum alle prime luci dell’alba, Italo mi avvertì: dovevamo attuare il nostro piano; diedi la sveglia agli altri e ben presto la comune barca da pesca assunse nella nostra immaginazione l’immagine dell’arcangelo Gabriele. Italo ed io ci appostammo dietro a due grossi scogli mentre gli altri sventolavano stracci e fazzoletti; lasciammo che la barca si avvicinasse per poter capire se faceva rotta su di noi o se — come le altre — voleva solo passarci vicino. Il caicco non rispose ai nostri richiami e tendeva ad andarsene mentre uno dell’equipaggio faceva un segno con le braccia.
«Fa segno di no,» dice Corazza.
Uno sguardo di intesa con Italo e subito partì una raffica che colpì la fiancata, mentre io scaricai il tamburo della mia pistola sulla vela.
«Se non accostate, spariamo su di voi,» urlò Italo in greco.
«Se non invertite subito la rotta vi affondiamo,» aggiunsi io bleffando. La prua volse verso l’isola, fu spento il motore e il natante accostò lentamente; un marinaio gettò l’ancora di poppa per evitare l’impatto con i primi scogli. La barca si fermò in un mare calmissimo.
«Non possiamo caricare fuggiaschi italiani» urlò il “capitano”, «le autorità turche ci tolgono la licenza di pesca, dovete arrivare in Turchia con i vostri mezzi»
”Non ne abbiamo” dissi «lasciateci la vostra barca di salvataggio che avete a poppa»
«Non possiamo» fu la risposta «è come se vi portassimo noi.»
«E allora voi siete nostri prigionieri e preparatevi a sbarcare se volete evitare il peggio» dissi con estrema decisione e in un greco pessimo.
A questo punto il comandante del caicco fece una proposta: «Mi impegno di andare indietro a Bodrum a prendere il permesso per venire poi a prelevarvi, più di così non posso fare»
«Fatevi lasciare un ostaggio» suggerì il colonnello. «Bene,” disse Italo, «ma uno di voi resta qui e ricordate che siamo decisi a tutto » I tre sulla barca confabularono fra loro poi tirarono fuori un tavolone che fungeva da passerella e uno di essi scese. Era un uomo sui 40 anni, turco, ma parlava greco come quasi tutti a Bodrum.
«La passerete male con le autorità turche» disse il marinaio. «Questo lo vedremo» risposi.
La situazione nell’isola era decisamente cambiata, ci per mettemmo in un eccesso di euforia di dare fondo alle scorte dei viveri e regalammo al nostro ostaggio il barilotto dell’acqua. Dopo circa un’ora il caicco uscì dal porto e diresse verso di noi, poi manovrò per accostare a quel rudimentale approdo e una volta gettata l’ancora il comandante buttò la passerella.
«Allora?» chiesi. «Vi porto a terra » fu la risposta.
Mi accinsi ad avvertire gli amici di prepararsi per l’imbarco, quando dalla barca saltarono fuori i soldati turchi, una cinquantina che urlavano come i predoni del deserto e armati con moschetti italiani mod. 91 lungo e baionetta inastata, disordinati, con divise a pezzi, calzoni alla zuava senza calzettoni o fasce, scarpe sporche e slacciate e con barbe incolte, questi uomini erano comandati da un graduato che urlava e gesticolava mentre la sua truppa ci depredava di ogni cosa, macchinette accendisigari, catenine d’oro, denaro, orologi e ogni altro oggetto che potesse far gola.
Una accozzaglia di gente che non poteva essere paragonata neppure ai beduini del più squallido deserto. Sempre con accenti minacciosi ed in lingua turca, fummo fatti salire a bordo sotto la minaccia delle armi puntate. Corazza, muovendo appena le labbra, raccomandò di non muoversi perché ogni gesto poteva essere male interpretato e con conseguenze assai gravi. Era gente in cerca di gloria a buon mercato e ammazzare era per loro come sputare in terra. Sbarcati a Bodrum fummo condotti, sempre sotto scorta e con la popolazione che ai lati della strada ci osservava come se fossimo bestie rare, in una casa e rinchiusi.

MAUSOLEO

IL MAUSOLEO ad Alicarnasso (Bodrum)http://www.sailturkey.com/routes/sites/bodrum.htm 

Nel IV secolo a.C. i Persiani controllavano un ampio territorio comprendente Mesopotamia, Egitto, Asia Minore e parte dell'India. Il re, non potendo governare da solo questo vasto Impero, affidava le varie provincie a dei governatori locali (i Satrapi), che godevano di molta autonomia. Fra il 377 ed il 353 a.C la Caria fu governata dal satrapo Mausolo, il quale spostò la capitale ad Alicarnasso (Bodrum). Il termine mausoleo con il quale si intende la tomba a carattere monumentale discende quindi dal suo nome. Si dice fosse Artemisia ad averla voluta per il fratello-sposo Mausolo, ed è per questo che sovente se ne è fatta risalire la datazione al biennio intercorso tra la morte di lui e quella di lei, cioè al 353-351 a.C.. Ma è evidente che la tomba aveva proporzioni troppo vaste perchè in così poco tempo se ne fosse potuto ideare il progetto e completare la costruzione; è più probabile che ciò sia avvenuto mentre Mausolo era ancora in vita, nel 370-365 a.C., e che l'esecuzione terminasse intorno al 350 a.C., poco dopo la morte di Artemisia.
Era una delle delle sette meraviglie del mondo antico e vi lavorarono artisti come Prassitele, Scopas, Timotheos, Leochares. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, ci ha lasciato una descrizione delle dimensioni dell'edificio: … i lati sud e nord hanno una lunghezza di 63 piedi; sulle fronti è più corto. Il perimetro completo è di 440 piedi; in altezza arriva a 25 cubiti ed è circondato da 36 colonne; il perimetro del colonnato è chiamato pteron […]. Skopas scolpì il lato est, Bryaxis il lato nord, Timotheos il lato sud e Leochares quello ovest ma, prima che completassero l'opera, la regina morì. Essi non lasciarono il lavoro comunque, finché non fu completato, decisero che sarebbe stato un monumento sia per la loro gloria sia per quella della loro arte ed anche oggi essi competono gli uni con gli altri. Vi lavorò anche un quinto artista. Sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte bassa dell'edifico che ha 24 scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta: in cima c’è una quadriga di marmo scolpita da Piti. Se si comprende anche questo l'insieme raggiunge l'altezza di 140 piedi ... (corrispondenti ad un'altezza di 45 metri)

CAPITOLO IX
DA BODRUM AD AYDIN

Erano quasi le 11 e la fame, che non ci aveva mai abbandonato, diveniva sempre più impertinente. Da quando “assalimmo” il peschereccio il colonnello non aveva più parlato, era taciturno e pensieroso e nemmeno 1’arrivo in terra ferma, con una sistemazione meno precaria, aveva prodotto ciò che io mi attendevo, cioè lo scioglimento della prudente riservatezza sul suo nome. Una piccola finestra guardava su una strada, con sorpresa ci accorgemmo che era aperta e senza sbarre. Non eravamo quindi in prigione, ma allora che senso aveva chiudere la porta a chiave, forse il fine era quello di tenere fuori i curiosi. Guardai all’esterno: nessuno. Non passarono dieci minuti che arrivò il nostro “carceriere”; aveva con sé un vassoio con del Caluvà, una sorta di melassa in cubetti infarinati con zucchero velo, fichi secchi, uva e pane. L’uomo parlava greco per cui fu abbastanza facile fargli sapere quali erano le nostre più impellenti necessità; si mostrò gentile e comprensivo, poi diede ad ognuno di noi uno stampato da compilare.
«Io torno fra un’ora a prendere il foglio e dopo sarete liberi di girare per il paese, questa sarà la vostra casa sino a quando non partirete »
”Se i soldati” dissi incoraggiato dalla gentilezza e dalla disponibilità dell’uomo, «ci avessero lasciato almeno il denaro che avevamo in tasca, avremmo potuto comperarci da bere, ora” conclusi in greco, «ti cannume, cosa facciamo?» Un cenno di assenso del capo e partì.
Tornò poco dopo con un altro signore ben vestito che aveva tutta l’aria di essere un’autorità.
”Questo signore” disse, «è il sindaco di Bodrum e cercherà di soddisfare tutte le vostre necessità. » Intanto iniziò la consegna dei fogli compilati e il primo di una lunga serie di interrogatori; Italo ed io eravamo gli interpreti dall’italiano al greco e il “carceriere” dal greco al turco. Quando leggemmo il foglio del colonnello, “Ufficiale superiore della Regia Marina Italiana”, il sindaco ci interruppe e in turco disse: «Questo viene subito con me.»
Poi leggemmo tutti gli altri e alla fine ci furono dati cinque buoni per altrettanti pasti da consumare nelle trattorie o taverne del paese e cento lire turche per le piccole spese.
«Le cose cominciano ad andare meglio,» disse Luigi, del quale ormai se ne dubitava l’esistenza.
”Vuoi dire” osservò Corazza «che la nostra permanenza qui è prevista per almeno altri due o tre giorni.»
«Si usa consumare due pasti ai giorno,» aggiunse Italo che di cose turche era un esperto, «ma quello del mezzogiorno da queste parti non è il pasto principale, quello è uno spuntino, il pasto vero e proprio è alla sera.»
«Già» annuì Corazza, «se son due giorni, dovremmo partire la sera del 28 o la mattina del 29 dicembre e se invece si farà un pasto al giorno, allora si andrà al 31 o addirittura all’anno nuovo» «Tanto per non sbagliare» concluse Francesco «stasera andiamo a cena» Tutti d’accordo. Al nostro interlocutore turco avevamo chiesto almeno un panno, per coprirci di notte e per appoggiarvi la testa durante il sonno, e fummo accontentati. Anche la popolazione ci guardava con simpatia e ciò era sufficiente per non farci sentire fra nemici. Nessuna notizia invece del nostro Nicola che aveva tentato la traversata e così, con la partenza del colonnello, la comitiva si era ridotta a cinque unità. Il pomeriggio di quel felice giorno di Santo Stefano trascorse tranquillo in giro per il paese. L’immancabile centrale caffè turco, era l’unico grande ritrovo per gli uomini d’ “affari”; le donne in nero, molte delle quali col viso coperto, andavano e tornavano dal mercato con la cesta degli acquisti sulla testa, in perfetto equilibrio. In due occasioni notai dei signori, certamente europei, vestiti con una certa ricercatezza, non in uso da quelle parti, che ci osservavano; una volta davanti al mercato e l’altra sul lungo- mare o porto di Bodrum. Le poche botteghe di Bodrum erano per generi alimentari ma di merce in vendita non se ne vedeva. Un fornaio e il macellaio, con carni di pecora e capretti, rappresentavano i due più importanti punti di riferimento alimentare; il pesce si vendeva sui banchi volanti o con ambulanti al porto sul lungomare; ve n’era in abbondanza e a prezzi modici. La Turchia in quei tempi era in grado di immettere sui mercati oltre 100 mila tonnellate di pesce all’anno. Il nostro interlocutore turco, che ormai aveva assunto il ruolo di angelo custode, consigliò di consumare i pasti nella trattoria di certo Selgiuk che nel nostro peregrinare individuammo in prossimità del porto e non molto lontano dal nostro ricovero. Con le cento lire turche riuscii ad acquistare una saponetta, un asciugamano, un dentifricio che trovai in una specie di farmacia e che poi si rivelò di pessima qualità, un pullover di lana bianco fatto a mano e un paio di calze. Mi rimasero 28 lire. Rientrai a casa; in terra, a lato della stanza d’ingresso, c’erano una sopra l’altra le cinque coperte, ne presi una e mi scelsi l’angolo “notte”, vi depositai gli acquisti e approfittai del rubinetto libero per darmi una bella lavata col sapone. Quando giunsero gli altri ero pronto per la cena. Anche loro avevano fatto spesa e si affrettarono a far toelette. Intanto si era fatto scuro e potemmo notare che Bodrum di notte era poco illuminata, come si vedeva dall’ isola del “cranio”; le stradine interne avevano una lampadina con piatto smaltato agli angoli delle case e nelle curve, mentre sul lungomare, erano disposti in fila 12 lampioni con lampade più potenti.

Selgiuk ci attendeva, anche se era un pò presto, per la cena; era presto per le nostre abitudini, ma da quelle parti si mangia a tutte le ore per cui non sorprese il nostro oste il fatto che alle 18,30 si fosse seduti attorno ad un tavolo grande e rettangolare in quel locale semibuio e nel quale la mano dell’imbianchino non vi entrava da almeno un secolo. In un tavolo, infatti, due avventori turchi erano a tavola da almeno due ore — così ci riferì Selgiuk — per consumare il mezzé. E uno strano, ma non troppo, modo di mangiare; consiste in una trentina di mini- portate in mini-piattini, come insalate, formaggi, tonno, olive, patate fritte, due spaghetti, cipolle ripiene, pesce in vari modi, zanzichi, carne di maiale e di capretto, salsicce ecc. ma tutto in dosi minime; come bevanda, si usa la “Mastika”, una specie di anice che si ottiene dalla distillazion dei fichi secchi, allungata con acqua. Di solito il mezzé si ordina quando due o più persone debbono trattare affari o discutere di cose importanti per le quali occorre stare a tavola delle ore; anziché stare in un ufficio, lo si fa all’osteria. Consegnammo il primo dei cinque buoni e notammo con piacere che Selgiuk parlava anche greco. Arrivarono tre caraffe di vino bianco, un gran piatto di olive, tre filoni di pane e formaggio di capra.
«Io ordino... aveva abbozzato “O sole mio”...
«Ma cosa ordini,» disse Italo, «dove credi di essere a Posillipo, qui bisogna prendere ciò che arriva.”
«Caso mai vedremo di ottenere qualche bis se tutto andrà bene» aggiunsi mentre intingevo una fetta di pane nel vino.
Al centro di questa sala rettangolare e addossato alla parete di fronte all’ingresso, vi era il bancone di mescita del vino e del caffè turco; nella scansia dietro la testa di Selgiuk, qualche bottiglia di liquore ma primeggiava la Mastika.
Olive e formaggio? Un’apparizione; erano passate come una meteora e ce ne rendemmo conto quando l’oste tornò con altre olive, altro pane e altro formaggio.
«Dhenine etimo to creas, non è pronta la carne,» disse, per lasciarci capire che le olive non erano la cena ma solo un passatempo. Poco dopo infatti portò cinque grosse bistecche cotte alla brace con un grosso piatto di patate fritte.
«Ho fatto io senza chiedervi niente,» disse compiaciuto l’oste, «perché ormai conosco i gusti di voi europei, ho un cliente di una ambasciata che mangia sempre così.»
«Quale ambasciata,» chiesi.
«Ma, da come parla,» rispose Selgiuk, «sembra un tedesco. . .»
Infatti, carne ai ferri e patate lo confermavano. La faccenda mi fece pensare a quei signori del pomeriggio, ma ciò non mi tolse l’appetito; la carne era ottima e le patate pure. Finalmente si era mangiato a sazietà e la notte trascorse nel sonno più profondo; il legno del pavimento non era certo un materasso di lana, ma reggeva bene il confronto con i sassi dell’isola del “cranio”. Il nostro angelo custode venne di buon mattino, non so se per controllare le presenze o altro, ma fu gentile, chiese se avevamo mangiato bene e se occorreva qualcosa.

«Spiegami» gli chiesi in lingua greca «perché qui non usano i letti con i cuscini, le lenzuola e così via. »
«E molto facile,» rispose, «che i mobili di legno e i materassi divengano nascondigli per insetti vari, allora saremmo costretti a bruciare tutto.)
«E il pavimento, è pur di legno»
«Sì, è vero, ma lo teniamo disinfettato con alcool e creolina.»
«E ci potresti dire quanto tempo dovremmo stare a Bodrum e dove ci manderanno?»
«L’unica cosa che posso dirti, rispose cortesemente, «è che in altre parti dell’Anatolia si stanno concentrando molti militari italiani fuggiti dalle isole dell’Egeo, in particolare da Samos e Coo (Kos), e quando la colonna sarà pronta passerà da Bodrum e voi con un camion andrete a incontrarla in altra parte. Non so altro.»
Da Bodrum, infatti, non si poteva partire che con un mezzo stradale o via mare. Il centro più vicino per la ferrovia era Aydin da dove si poteva proseguire verso nord o verso est. Non ci restava che attendere.
«I buoni che ci avete dato li possiamo usare in qualsiasi momento?»
Sorridendo rispose che erano per il pasto serale, quello principale. A mezzogiorno si arrangiava con poche cose, olive, pane e caluvà. Ciò significava — come aveva considerato Corazza , che la permanenza poteva protrarsi anche sino alla fine dell’anno.
L’appuntamento per la cena del giorno successivo, il 27 dicembre, era sempre da Selgiuk, alle 19. A questa conclusione si giunse quando “O sole mio” fece capire di voler girare da solo e naturalmente al navigatissimo maresciallo Corazza non ci volle la scala per capire che tipo di programma qualcuno aveva messo in cantiere. Mi guardò e mi fece, con la mano, il gesto di quando uno vuole andare a donne.
«Francesco» dissi, «non fare che poi ti ritroviamo in qualche vicolo con un coltello nella schiena, guarda che qui sono mussulmani e per loro pugnalare uno, sorpreso con una loro donna, è cosa da ridere »
L’avvertimento fu convincente e, alle 19 del giorno dopo, eravamo ancora tutti a cena. Quella sera c’erano alcuni avventori al banco e un commensale, da solo, in un tavolo all’angolo della sala, quasi in penombra.
Arrivò l’oste, ritirò i cinque buoni e nel disporre i bicchieri con la caraffa dell’acqua disse: «To vradi eco psaria, questa sera ho pesce.»
Lo pregammo di farlo ai ferri e senza economia, intanto cominciammo con il solito antipasto a base di olive, formaggio e zanzichi. Mentre mangiavo, osservavo quel signore nell’angolo vestito di chiaro, nella speranza di vederne bene il viso; per me era uno di quei due che ci seguì il giorno prima.
Mentre facevo queste riflessioni, la mia attenzione fu attratta da un signore che, entrando, ci salutò con un “buona sera” molto londinese e andò poi a sedersi nell’angolo opposto a quello occupato dall’ altro ospite elegante. Gli inchini e le riverenze dell’oste, verso quei due signori, mi convinsero che si trattava di pezzi grossi, ma di che genere? La sera si faceva interessante, infatti l’ultimo arrivato, preceduto dal buon Selgiuk con in mano una bottiglia di Mastika, venne verso di noi e chiese il permesso di sedersi al nostro tavolo.
«Scusate il mio pessimo italiano» disse, «sono Davidson dell’ ambasciata inglese di Ankara ed ho il compito di avvicinare gli italiani che fuggono dalle isole per informarli di ciò che può accadere per la scelta che, in questo paese neutrale, debbono fare sulla loro destinazione”
«Prego, mangiate» proseguì l’inglese «intanto io vi parlo. Questa notte partirete per Aydin; la colonna con una decina di camion è in allestimento e voi la raggiungerete a Karoava, ma se qui c’è il numero sufficiente, un camion verrà a prendervi verso la mezzanotte. Ad Aydin vi aspettano due treni con vagoni bestiame perché, in Turchia in questo momento non c’è altro; uno è diretto, dicono, in Italia attraverso la Bulgaria e Jugoslavia e uno è diretto nella base inglese di Aleppo in Siria. Le autorità turche chiederanno ad ognuno di voi dove vuole andare e dovrete essere pronti a rispondere perché, nei casi di incertezza, procedono all’internamento in Turchia»
«Noi siamo fuggiti dalle mani dei tedeschi che hanno occupato Leros e lei pensa che potremo metterci con loro per essere fucilati?»
«Certo,» annuì Davidson «il viaggio per Aleppo è più lungo, porta anch’esso in Italia ma solo a guerra finita, e la fine è prossima. Vi è anche una terza possibilità ma non potete sceglierla voi perché è prerogativa del governo turco di internarvi e non ve lo auguro; i campi turchi sono a Isparta, ma cercate di non essere destinati in quelle fogne.»
Restammo un po’ tutti senza parole; il mister Davidson tornò al suo tavolo e iniziò a consumare il suo pasto mentre noi passammo a fare alcune considerazioni.
«Come mai» disse Corazza «di questa faccenda non se ne interessa l’ambasciata italiana.»
«Le cose non cambierebbero» risposi «poi bisogna vedere se esiste in Turchia un’ambasciata italiana. E ammesso che ci fosse, sarà monarchica o repubblichina o nessuno dei due?»
«Non c’è tanto da scegliere» concluse Italo, raduniamo i nostri stracci e andiamo in Siria, ad Aleppo » Con un brindisi rivolto al signor Davidson concludemmo l’ultima travagliata cena consumata a Bodrum. Si unì al brindisi anche il nostro angelo custode che era venuto ad avvertirci di tenerci pronti a partire in nottata. La già scura stanza dell’osteria era diventata ancor più buia, restituimmo i buoni pasto rimasti, pensando a quando avremmo mangiato ancora, e dove. Tornammo a casa piuttosto ammosciati; ci si doveva preparare a lasciare quella cittadina nella quale cominciavamo a trovarci bene.
«La vita senza guai» disse Luigi, «è come una minestra senza sale. »
«Io ci sto a mangiare sempre insipido,» rispose Corazza.
«Il tedesco che era nell’altro angolo dell’osteria” ci informò il custode mentre ci accompagnava a casa, «voleva dal sindaco i vostri nomi e grado militare, ma gli è stato detto solo che siete tutti civili » Finalmente avevo saputo cosa ci faceva a Bodrum quel signore in abito chiaro.

Ci portammo alla periferia del paese per attendere il camion diretto ad Aydin. La strada da percorrere era tutta fra le montagne e solo la seconda parte del viaggio si sarebbe svolta a mezza costa e in fondo valle. Dovevamo superare due valichi oltre al primo tratto che da Bodrum dirige su Karaova e quindi , dopo 48 km, su Milas. Ci fu riferito che il viaggio doveva svolgersi di notte per prudenza; gli automezzi erano guidati da militari. Mancavano pochi minuti a mezzanotte, quando udimmo il rumore di un motore avvicinarsi; era un Dodge a benzina, il cassone era coperto dal solito telone. A mezzanotte eravamo già sistemati sul camion. Il viaggio si effettuava di notte perché la strada era stretta e due automezzi non avrebbero potuto incrociarsi; per la stessa ragione era stato chiuso il traffico per Bodrum al fine di consentire alla colonna l’attraversamento dei due valichi innevati senza disagio per i trasporti civili. Un’ora dopo la partenza passammo a lato di un abitato rurale con tre luci stradali in tutto; era Karaova. Dopo un’altra mezz’ora, superata Milas, si cominciò a salire. A Milas ci unimmo alla colonna che era composta di una ventina di automezzi. Ogni camion aveva una sentinella armata con il solito moschetto mod. 91, la nostra ci fece segno con la mano che la strada era in salita. Quell’unica strada attraversa la catena dei monti Kurukantes la cui vetta raggiunge i 1373 metri, per giungere a Yatagan poco a nord di Mugla, poi costeggia il fiume Cineg, l’importante tributario del fiume Menderes Meandro, che bagna tutta la piana di Aydin e i fertili terreni di Mileto e Akkoy sul mar Egeo. Il primo valico, subito dopo l’inizio del tratto montagnoso, portò la colonna a circa quota 800 e ce ne accorgemmo perché la neve e il freddo si erano fatti sentire. Circa un’ora di discesa , i percorsi li valutavamo a ore posto che ci era impossibile stabilire i chilometri che si percorreva, poi di nuovo in salita per raggiungere i 1.350 metri di Stratonikeia da dove sarebbe iniziata la discesa per Yatagan. La neve era alta e la strada era esposta a nord, per fortuna ben illuminata da una luna piena in un cielo sereno. Sollevando appena il telo posteriore del camion si potevano vedere i burroni sulla sinistra della direzione di marcia e a destra, sulla neve, branchi di lupi affamati che tentavano di aggredire i camion. La velocità era ormai “pedonale” per il fondo ghiacciato e i lupi si facevano sempre più minacciosi. I “passeggeri” che non dormivano ammazzavano il tempo ricordando: i brutti momenti trascorsi, i compagni persi di vista o morti, i reparti, le sigle militari, gli ufficiali e così via, tutte cose che però lasciavano estranei noi civili dalla conversazione; chi non dormiva, scambiava qualche impressione col vicino, magari fingendo di non rendersi conto del pericolo che tutti stavamo correndo con un mezzo non attrezzato per viaggiare sulla neve, sia fresca che ghiacciata, e con autisti dei quali non si conosceva capacità ed esperienza.
Ad un tratto ci trovammo fermi; dalle prime macchine della colonna arrivò, alla voce, l’ordine per la sentinella di accendere fuochi verso monte per tenere lontano i lupi che tentavano l’assalto ai teloni e saltavano sul tetto degli automezzi. Il soldato cominciò a sparare sul branco; un lupo restò sul terreno e un altro se ne andò ferito segnando il percorso con il sangue, ma gli altri, tutt’altro che impauriti, continuavano ad attaccare. Sempre alla voce, si seppe che il secondo camion aveva avuto noie al motore ma si trattava di cosa riparabile sul posto. Alcuni camion in attesa erano riusciti a contornarsi di piccoli falò e ciò aveva reso lo scenario, lo spettacolo, un qualcosa di stupendo: questa neve bianca che luccicava ai raggi lunari, i fuochi che davano il tocco di “calore” alla scena e i lupi che creavano il movimento; era una cosa irripetibile, uno spettacolo unico. Anche nel nostro Dodge si radunarono stracci e fazzoletti e quant’altro di inzuppabile, venne sollevata la parte anteriore sinistra del telone, un soldato di marina piuttosto magro — di gente grassa se ne vedeva poca in giro — tenuto per le gambe e i piedi riuscì ad aprire il serbatoio della benzina che si trova sotto il cassone e ad immergervi gli stracci; ne bagnò cinque che con un passamano raggiunsero la parte posteriore del mezzo; uno alla volta vennero appuntati sul mirino del moschetto del soldato turco, incendiati e gettati il più lontano possibile. Quella parte del monte era diventata una fiaccolata, era uno spettacolo che non consentiva di maledire o imprecare contro il guasto che ci aveva imposta la sosta anche se gelida. Intanto, ridendo e scherzando, erano le quattro del mattino quando la marcia ha potuto riprendere. Superato anche il secondo valico, iniziò una discesa che richiedeva maggior perizia e prudenza. Arrivammo a Yatagan che era giorno ed eravamo fuori dai pericoli del ghiaccio e dei lupi. Fu concessa una breve sosta alla periferia del paese che consentì ai più di soddisfare necessità fisiologiche. Ci avvicinammo ad un “care” e con le poche lire turche che avevo, 28, pagai bevande calde per molti perché il proprietario rifiutava altre valute. Lungo la vallata del fiume Cine, e sempre circondati da montagne cariche di neve, percorremmo i 110 chilometri che ci separavano dalla città “promessa”, Aydin, dove esisteva il treno e dove giungemmo verso le 11 di quel mattino del 28 dicembre 1943.

... torniamo ai collegamenti ferroviari per l'Asia (progettati), perché l'unica realmente funzionante ( a singhiozzo) è ancora la transiberiana. Attraversa regioni soggette ormai a disordini politici o disordini meteo. Si progettano altre direttrici, una mediana che all'incirca dal Caucaso, Caspio via Kokan arriva a Pechino e una a Sud via Iran e sistema indiano per la Cina meridionale. Questi tre rami saranno interconnessi da tratti con andamento Nord Sud (come l'attraversamento della Mongolia già attuato da Nord verso il braccio centrale o la Samarcanda-Peschawar-Lahore dal centro a quello meridionale). Tre giorni e mezzo per andare da Mosca a Lahore. Vista in termini teorici è un'opera titanica, vista in termini pratici è una illusione. E' o sta per esplodere il continente indiano, quello arabo e quello cinese dopo i fatti dei Boxer. Di queste tre reti la più probabile (almeno nel primo tratto), è quella a Sud che parte da Istanbul (Costantinopoli ) e raggiunge Bassora via Konia, Adana, Aleppo, Diarbekir e Bagdad. Il successivo tronco via Iran, Heyderabad, Calcutta, Mandalay e Cina via Tonkino arriverà a Kanton e Nankino. La favorita terminale di questo progetto, è sicuramente l'Inghilterra. Si capisce quindi anche il lavoro di Lawrence d'Arabia. Fino ad Aleppo in Siria la ferrovia non aveva suscitato grandi scalpori famelici, ma da qui in poi, tutto era stato centellinato e fatto rientrare in un progetto o convenzione internazionale, da cui l'Italia era rimasta praticamente fuori. Per chi non ci credesse, lì comandavano ancora gli ottomani. Molti di questi progetti resteranno nel libro dei sogni.

Le Ferrovie Asiatiche

Tutto questo succedeva all'inizio del XX secolo, lì comandavano ancora gli ottomani con l'appoggio dei tedeschi di cui noi italiani eravamo formalmente alleati. La guerra non era ancora scoppiata e vinta, ma già era stata fatta una spartizione virtuale fra le grandi potenze.

 

http://www.trainsofturkey.com/w/pmwiki.php/History/CIOB

- Inghilterra - La navigazione sul Tigri-Eufrate è dell'Inghilterra, la Bagdad-Bassora, non potrà interconnettersi con i porti sul Golfo. La Bassora-Koweit (Porto) sarà quindi inglese, ma le tariffe sono preconcordate. 
- Francia - La Aleppo-Damasco-Gerusalemme è Francese con diramazioni a Beirut e Giaffa (Porti). Da qui la Francia minaccia di deviare il traffico via mare con una Gerusalemme-Bagdad diretta. Concorrenza agli Inglesi o ai Tedeschi ? La Ferrovia prosegue verso il Sud, Akaba, Medina e la Mecca. In progetto la diramazione via Sinai per il Cairo.  Sarà completata solo nel 1939 coma la Aleppo-Diarbekir.
- Russia - La Diarbekir-Tabriz è Russa. E russe secondo gli accordi con Turchia e Germania devono essere tutte le ferrovie Armene e turche orientali (a est di Siwas). La capacità economica Russa non permette per ora queste costruzioni e quindi la sua concessione è un contributo allo stop. Francia, Inghilterra e la stessa Germania vorrebbero a questo punto ripensare l'accordo. 
- Germania - La Germania per il tronco principale (dispendioso) rinuncia alle diramazioni nella Turchia occidentale e centrale a favore dei Francesi, ad esclusione d'un tratto italiano Adalia-Konia (Adalia o Antalya è sulla "strada di Rodi"). I francesi tengono in sospeso, come la spada di Damocle, la Gerusalemme Bagdad. La Germania ha dovuto fare questo perché è lanciata in spese per il riarmo (e' anche comprensibile se non si vuole far schiacciare fra i giganti). 
- Bagdad -
Ma perché tutta questa attenzione per Bagdad oltre al petrolio. Bagdad conta ora 200.000 abitanti, che non è poco, per la metà circa Ebrei (40%), Cristiani (10) Nestoriani, Greci e Armeni e arabi. Il vilajet importa merci per 64 milioni di lire (Bagdad 40) e la metà è merce inglese. Altrettanta popolazione,  verso Nord nelle cittadine attraversate dalla ferrovia. 

Ben poco distingueva Il Regno di Persia dalla vicina Turchia. La dinastia Qajar, la penultima, quella prima dei Pahlavi, era alla fine. Spese folli e assolutismo avevano messo in ginocchio il paese che veniva svenduto per denaro alle grandi potenze, denaro che finiva nella disponibilità personale dello Shah. Una prima costituzione che aveva ottenuto una camera elettiva (Majlis) era stata contrastata con l'aiuto dei Russi, che nel 1908 facevano bombardare la Camera. Muhammad Ali Shah davanti a una rivolta costituzionale riparò in Russia abdicando l'anno dopo a favore del figlio undicenne Ahmad Shah. Le cose non andarono meglio poichè Russi e Inglesi decisero di spartirsi il paese: a Nord i russi nel resto del paese gli Inglesi. Quando, nel 1911, l'esperto americano William Morgan Shuster, incaricato dal parlamento iraniano di mettere mano alle finanze, inviò ispettori nella zona russa, lo zar rispose con due ultimatum che intimavano la sua rimozione. Al rifiuto della Majlis, truppe russe invasero la Persia settentrionale e occuparono la capitale; in dicembre la Majlis fu sciolta e fu formato un direttorio completamente subalterno alla volontà della Russia. Solo dopo la fine della guerra e a rivoluzione russa conclusa la Majlis riprese la sua funzione passando nel 1925 il potere a Reza Khan, ufficiale dell'Esercito, primo dei Pahlavi. Come Ataturk l'obiettivo era modernizzare il paese e togliere potere alla casta religiosa. Arriverà Khomeini ne 1979 a riportare indietro l'orologio.

CAPITOLO X
IL LUNGO VIAGGIO SINO AD ALEPPO

Il ritardo con cui giungemmo ad Aydin, che pur ci parve utile per quel poco che si era potuto vedere della terra turca, lo abbiamo ben pagato nella fase successiva del viaggio, cioè in treno, nei carri bestiame e in condizioni da invidiare talune specie animali. Per recuperare quel tempo perduto furono infatti soppresse alcune soste lungo il percorso Aydin-Aleppo. Alla stazione di Aydin ci furono concesse due ore di “libertà” prima di affrontare il balzo finale del nostro viaggio. Il comando turco, proprio come aveva detto l’inglese Davidson a Bodrum, ci fece sottoscrivere, assieme ad una specie di giuramento, con la quale ci impegnavamo a non tentare la fuga in territorio turco; Italia o Siria, per la neutralità turca era soltanto una questione geografica che prescindeva dalla presenza in questi due territori di forze belligeranti. Naturalmente, la scelta fu corale e la locomotiva venne posta a oriente del convoglio costituito tutto di vagoni bestiame o merci. In quelle due ore di libertà vi fu la possibilità di consumare, presso la stessa stazione di Aydin, un pasto caldo. Per la prima volta, dopo la partenza da Lero, mi sentivo come il classico pesce fuor d’acqua; io e gli altri civili eravamo ignorati da tutti, non potevamo dire il numero del reggimento, la divisione, il numero della compagnia per cui non eravamo meritevoli di interesse, anzi, ogni tanto ci trovavamo fra i piedi qualcuno. Siamo arrivati alla conclusione che, se non fosse stato per i turchi i quali calcolavano il peso economico del nostro mantenimento, forse saremmo ancora ad Aydin ad attendere l’assegnazione del vagone e l’imbarco. In mezzo ad una confusione tipicamente italiana, resa ancor più confusa dall’inevitabile allentamento della disciplina militare, da atti di disubbidienza e contestazione dei gradi ecc., si stava organizzando una delle tradotte che doveva portare fuori dal territorio turco quasi tutta la divisione di fanteria “Cuneo” che dall’isola di Sainos era riuscita a passare in Turchia dopo la caduta di Lero in mano tedesca.
La ricomposizione delle squadre, dei plotoni, ecc. impegnava a fondo quelli della “Cuneo” e man mano che riuscivano a trovare l’uomo giusto, lo facevano salire. Per una buona mezz‘ora stetti ad osservare questo via vai di gente che si e no dava ascolto agli appelli e ai vari inviti per una disciplinata partenza, tesa soprattutto ad evitare che qualcuno restasse a terra; e ai civili nemmeno un cenno; non che fosse formalmente importante essere invitati o chiamati a salire sul carro, era piuttosto necessario sapere dove salire, posto che i pochi vagoni messi a disposizione dalle ferrovie turche costringevano ad un’alta densità di presenze, circa 45 uomini per carro. Durante questa attesa sul marciapiede del binario, cercai di individuare chi era il cap’in-testa di tutta la faccenda, ma fu impossibile, tutti comandavano; decisi allora, con i miei amici di sventura, di rivolgermi a qualche capoccia delle ferrovie e ciò fu possibile perché trovammo quello che parlava greco.
«Voi siete profughi civili» fu la risposta «vi internano nei campi turchi di Isparta e Tefennj, e non è bene.»
«Grazie per l’avvertimento, ma dove posso trovare un piatto, una scodella, qualcosa da bere durante il viaggio”
”Vieni” disse, «voi avete diritto a un pasto, vieni con me.» E ci portò nel posto ristoro dove eravamo già stati ed avevamo già mangiato, parlò in turco ad un addetto e questi portò, ad ognuno di noi cinque, un piatto di metallo che sembrava stagnato con dentro una bistecca fritta, le posate e una scodella con un minestrone caldo e un pezzo di pane. Mangiammo di nuovo senza alcuna difficoltà e, con il corredo della posateria, delle “porcellane” e una bottiglia d’acqua ci avviammo al treno. Erano ormai le 14 e il treno doveva partire perché la ferrovia per la Siria aveva un binario solo e nelle varie stazioni avvenivano gli incroci con i convogli provenienti da est. Andammo dritti verso uno degli ultimi vagoni nella speranza di trovano vuoto; c’erano invece quattro soldati e un sergente che sembrava volessero far repubblica a parte. «Questo è per militari,» disse il sergente a Italo che era già entrato.
«Appunto,» risposi io salendo, «perché se ci fossero dei civili che vengono da Lero o da Coo o da Samos, li lasceresti a piedi?»
«No» balbettò, «ma dove andate» Il maresciallo Corazza che non aveva mai dichiarato in alcuna occasione di essere un militare, si incaricò della risposta: «Ma, vedi, » disse, «noi abbiamo il biglietto per Bologna però è molto facile che si faccia lo stesso percorso vostro » «Che risposta» disse il sergente seccato. «Ad una domanda stupida cosa ti aspetti la Divina Commedia?»
E così dicendo salì assieme a Francesco e Luigi, poi il con voglio si riempì, i vagoni merci non furono sufficienti ad “ospitare” tutti e molti rimasero a terra in attesa di una seconda tradotta. Nel nostro carro si era in quaranta e quando mi affacciai per vedere a che punto si era, notai il personale della ferrovia intento a chiudere le porte scorrevoli lasciando un’ apertura di circa mezzo metro in entrambi i lati per le eventuali “necessità” che, purtroppo, non tardarono a manifestarsi. Alle 14,30 finalmente il convoglio si mosse; ogni volta che iniziava un nuovo tratto del viaggio, avevo sempre la stessa euforia, la stessa rinnovata passione di andare verso la libertà. La strada ferrata — come abbiamo detto ad un solo binario — si snoda, nella parte iniziale del viaggio, lungo la valle del fiume Buyuk Menderes in parallelo con la strada statale che spesso si interseca con la ferrovia. Dopo quasi un’ora, la prima sosta, a Nazilli, che dista dalla partenza circa 40 chilometri, ove si doveva incrociare un convoglio passeggeri che veniva dalla direzione opposta.  Nel vagone c’era un’aria fetida, pregna di un odore tipico delle persone che non si lavano da lungo tempo. Furono aperti i finestrini rettangolari in alto negli angoli del carro e si ottenne un miglior riciclo dell’aria, ma il grosso problema, cioè lo spazio, rimaneva e non c’era nulla da fare. Non si poteva infatti stare tutti seduti in terra senza accavallarsi gambe e braccia. A turno si dormiva anche in piedi; il molleggio del carro bestiame imponeva, viceversa, un frequente cambio di posizione delle gambe e anche delle stesse natiche. Non si era insomma sull’ Oriente-Express e coi passar delle ore anche i finestrini aperti non erano più sufficienti a smaltire gli odori di sudore impregnato nei panni, odori di piedi, i cosiddetti odori del momento che pure non mancavano e così di seguito; l’aria era irrespirabile. Ad un certo momento un tarantino, credo si chiamasse Gardone, esclamò ad alta voce:
«Se potessimo liberarci di tutti i pidocchi che abbiamo addosso, qui dentro ci sarebbe più posto»
Mi sentii rabbrividire, guardai Corazza che avevo vicino e dopo i primi attimi di sbigottimento, sentii prurito in tutto il corpo. Effettivamente c’era gente che da tempo si grattava, ma la mia mente non è corsa ai pidocchi. «Cosa possiamo fare» chiesi a Corazza. «Niente» disse, «non abbiamo disinfettanti né altri prodotti per la prevenzione; non resta che sperare di non prenderli» «Ma per quanto tempo dovremo stare ancora qui dentro» «Non lo so» rispose l’amico, «dipende da dove ci portano.» «Al confine con la Siria,» replicai. «Sì, dopo quante soste si arriverà a quel benedetto confine, non dimenticare che siamo su un unico binario e che con una locomotiva a carbone modello 1914, si potrebbe anche restare a piedi»
Ero disperato, avevo fretta; mi vennero in mente le piaghe che da piccolo, in collegio, avevo visto sulla schiena di un coetaneo, prodotte dai pidocchi e un senso di schifo mi bloccò la bocca dello stomaco. Quaranta persone costipate fra le quattro pareti di un carro bestiame e delle quali 35 erano cariche di pidocchi; inaudito, assurdo, impossibile. Il treno si era fermato ancora; eravamo a Denizli e quella frazione del percorso mi era fuggita via senza che me ne accorgessi. Guardai fuori e mi accorsi che era buio. Durante la sosta, si presentò un ometto con un grosso secchio e un mestolo per distribuire del tè; a parte l’impossibilità di raggiungere la porta, nel mio stomaco non c’era posto nemmeno per la saliva.
Avevamo percorso, dalla partenza, circa 200 chilometri in poco meno di dieci ore. Era infatti mezzanotte e la media oraria era assai bassa. La maggior parte degli occupanti il carro dormiva, ma qualcosa faceva supporre che durante la notte il “servizio igienico” avesse funzionato. Riprese il viaggio e, dopo i primi chilometri, ebbi netta l’impressione che si andasse a velocità più sostenuta; la gioia fu di breve durata poiché dopo nemmeno un’ora il convoglio era ancora fermo. Eravamo a Isparta; qui molti vennero fatti scendere per essere condotti nei campi di internamento allestiti dai turchi a spese della Croce Rossa Internazionale. Quando si ripartì erano ormai le due del mattino, del 29 dicembre 1943. Il sonno mi colse ancora e al risveglio avevamo superato Konya, che si trova a circa mille metri di quota, poi Cumra ed eravamo giunti a Karaman. Erano le cinque e si intravedevamo le prime luci dell’alba. All’esterno era in corso la distribuzione di qualcosa da mangiare; non ebbi il coraggio di andare alla porta per la paura di peggiorare lo stato generale delle cose, poi, se avessi mangiato, poteva anche sopravvenire la necessità di…. Nell’interno dell’altipiano anatolico forse nessuno dei nativi parlava greco, per cui la domanda che prepotentemente tornava alla mente, “quanto ancora?”, restava senza risposta. Ma dovevo tenere duro e mi imposi un “fino a sera”. Il viaggio continuò senza particolari sussulti ed emozioni; il ripetersi di scene come la prima sull’orlo dell’apertura del carro, ormai non faceva più alcun effetto, mancava la carta così detta igienica e l’unica cosa certa era che i pidocchi aumentavano; ciò lo deducevo dai pruriti sempre più frequenti. Fu una grande fortuna non aver visto una carta geografica e non aver ben presente il percorso che si doveva superare per raggiungere Aleppo in Siria. Alle sei e un quarto eravamo a Eregli e da questa località il treno cominciò di nuovo a salire e ridurre la velocità sino ai 1420 metri di Ulukisla da dove iniziò la discesa che si concluse sui 900 metri di Pozanti, alle 9,30 del mattino.
 Qui la sosta doveva essere lunga perché fu dato ordine a tutti di scendere, e mai un ordine fu più gradito. Furono presi d’assalto gabinetti e bar (si fa per dire) della stazione nonché la scarpata al di là dei binari e tutto in un meraviglioso freddo paesaggio dell’inverno turco con la neve a pochi passi da noi. A ovest la catena innevata dei monti Bolkar Dagalri con la vetta a 3600 metri s.l.m. e a est il monte Ak con i suoi 2470 metri.
Avvicinai uno delle ferrovie e cercai di farmi capire; “dov’è la Siria, a che ora Siria”, l’uomo riuscì, mostrandomi il suo Roskof, a farmi capire che in Siria, ad Aleppo, saremmo giunti in serata entro la mezzanotte. Si ripartì da Pozanti alle 10 e mezza del 29 dicembre e a mezzogiorno eravamo a Yenice, poco a est dell’importante centro di Tarsus, che si affaccia sulla fertilissima piana di Adana attraversata dal fiume Seyhan, emissario del lago omonimo posto a monte o a nord della città, e dal fiume Ceyhan Nehry. La ferrovia attraversa da ovest a est tutti questi cento chilometri di pianura e si porta a Osmaniye. Alla stazione di Adana fu distribuito il rancio e questa volta la fame ha avuto ragione su tutto. Tuttavia ho limitato il pasto ad una tazza di tè ben dolce, una fetta di pane e caluwa. Qualcuno era sceso dai vagoni ma fu subito invitato a rientrare perché, fu precisato in lingua francese, eravamo in prossimità del confine con la Siria e gli inglesi non volevano noie con quel governo. Si ripartì da Adana con i vagoni chiusi cioè senza più la provvidenziale apertura per quei bisognini, per cui, disse qualcuno, niente scherzi; le sentinelle erano nelle cabine esterne dei carri. Da quel momento fu “volo cieco”. Il treno si fermò due volte ma nessuna delle due era la buona; fu la terza.
Dal parlottare esterno si distinsero parole in inglese e ciò fu sufficiente per darci la certezza che eravamo al confine, che la Turchia era finita e che presto, forse, sarebbero finiti anche i pidocchi. Infatti il carico di uomini e bestie alle 18 del 29 dicembre 1943, era giunto in Siria. La gioia all’interno dei vagoni era salita ai sette cieli e, come per incanto, stanchezza e debolezza sparirono. Le autorità siriane avevano controllato che i vagoni fossero chiusi prima di consentirne l’ingresso nel loro territorio; eravamo a Midan, il paesino di frontiera fra Turchia e Siria. Il treno fu poi fatto proseguire sino a Aafrine, sulla strada che conduce ad Aleppo. In quella stazione furono tolti i sigilli alle porte dei vagoni e fummo fatti transitare direttamente entro i camion che erano stati accostati al carro ferroviario con la parte posteriore. L’unica cosa che si potè constatare fu che era buio. La colonna di oltre venti automezzi si mosse per il campo; nei nostri orologi erano quasi le venti. Un sottufficiale inglese parlava correttamente l’italiano e ciò semplificò molte cose a tutti.
Nel vasto piazzale del campo gli automezzi con i fari accesi rendevano una prima idea del posto dove eravamo; certamente sentinelle, reticolati e disciplina militare. Sul lato destro del piazzale, verso l’interno del campo, c’erano tre capannoni, due con tetto curvo, e ciminiere che fumavano, il terzo con tetto normale a capriata metallica ma anch’esso coperto in lamiera ondulata. Davanti a noi, sempre nel piazzale, si vedeva una palazzina “da campo” con uffici, le luci accese e militari al tavolo di lavoro nonostante l’ora. Sullo sfondo, illuminate dai fari posti ai margini del campo, si distinguevano i tetti delle tende. Ora, disse il sergente inglese, «quaranta alla volta entrerete in ogni bagno (per bagno intendeva il capannone con la ciminiera), dovrete rinunciare a tutti i vostri indumenti che andranno nei forni inceneritori e avrete venti minuti di tempo per fare toilette al completo. » Ed aggiunse: «Ad ognuno verrà assegnato un corredo di vestiario nuovo, la tenda, e prima di coricarvi potrete mangiare qualcosa» Tutte notizie gradite.
«Cominceremo da sinistra e gli occupanti degli altri auto- mezzi non dovranno scendere sino a quando non sarà loro impartito l’ordine; allora, 1° e 20 camion, a terra e in ordine per due.» In pochi secondi l’ordine fu eseguito.
«Gli oggetti personali», proseguì il sergente, «denaro o altro, dovranno essere lasciati all’ingresso del bagno in una busta sulla quale scriverete il vostro nome; potrete ricuperare quella busta quando ritirerete il vestiario »
Dopo lunga attesa giunse finalmente il mio turno; appena nel “bagno” mi si appannarono gli occhiali per il gran vapore che c’era nell’aria, mi ritrovai sbalzato in un mondo nuovo anche come immagine oltre che per qualità di vita. Tolti gli occhiali vidi che a destra, in un angolo semibuio, bisognava gettare gli stracci che avevamo addosso, scarpe comprese e restare nudi. Un arabo siriano provvedeva a scaricare sul mucchio il gas di una grossa bombola che aveva sulle spalle. Più avanti, sempre in fila per due, seduto su uno sgabello, un altro arabo in camice bianco, con un rasoio elettrico, ma più che un rasoio era una macchinetta da tagliare i capelli come quelle dei barbieri, provvedeva alla rasatura integrale. Cominciò dalla testa, baffi non ne avevo, ascelle e giù a zero, poi mi girò e: «Apri culo tue mano” disse.
Naturalmente ubbidii posto che avevo capito di che si trattava, poi, non valeva la pena protestare dove nessuno ti dava retta.
«Chiudi occhio e bocca» disse un altro in camice bianco che seguiva al “barbiere” e cominciò a flittare per tutto il corpo. «Prendi, e mi allungò una saponetta dal profumo disinfettante. «Vai doccia. »
Entrai nella prima che trovai libera; acqua calda, saponetta disinfettante, rasato e ora anche pulito; era un sogno. Ma non potevo indugiare poiché altri attendevano di poter sognare come me. Mi lavai bene e poi, fuori. Alla mia destra c’era già la coda di uomini nudi come i lombrichi che pian piano dovevano passare — attraverso una porta interna — in un locale senza nebbia e dove una decina di soldati inglesi, al comando di un sergent-staff, distribuivano abiti scarpe, camicie, calzettoni, sandali, bustina, asciugamani e quant’altro faceva parte del “corredo”. La vestizione avveniva sul luogo senza particolari cerimonie e ciò che non era di misura veniva sostituito subito. Io mi sentivo rinato e debbo confessare che in quel momento, ma solo in quello, gli inglesi mi riuscirono simpatici. Più avanti , e l’uscita era dalla parte opposta a quella dell’entrata, mi fu consegnato un piatto di ferro, una tazza anch’essa metallica, le posate e una ciotola smaltata con il manico; nel piatto c’era un cartoncino con il numero 7.
«This is your bedroom» disse quello, ma io ne sapevo come prima e lo deve aver capito perché con una mano sulla guancia fece l’atto di dormire.
«E il numero della camera da letto” mi suggerì uno che stava dietro me. Ma io avevo visto solo delle tende e non camere. Forse aveva voluto scherzare o cercare di farsi capire. Uscendo dal capannone completamente rifatto e vestito, era quasi mezzanotte, prima di scendere ai camminamenti in cemento fra le varie file di tende, si passava in sala mensa. I tavoli erano per dodici persone, quante ne teneva una tenda, un grosso bancone a sinistra per il self-service e tanta gente allegra che finalmente era rientrata nel consorzio cosiddetto civile. Una bella scodella di tè col latte, tre fette di pan-carré bianchissimo, margarina vegetale e marmellata, fu la colazione di quella notte di quasi fine anno; eravamo infatti entrati da poco nel giorno 30 dicembre 1943.
Fu quella la prima volta che mi trovai separato dai miei compagni di fuga e stavo per introdurmi in una nuova più grande famiglia di sventurati come me che il destino aveva sbattuto sulle sabbie di quella parte di mondo. Era comunque già iniziato il mercato dei posti letto; chi voleva ricongiungersi agli amici destinati ad altra tenda o trovava chi cercava di fare altrettanto, o pagava lo scambio. C’era una bella luna, tutto quella sera era bello e là in fondo, dietro le nostre tende, si vedeva il bagliore delle luci di Aleppo. Cercai di attardarmi in mensa per aspettare i miei soci e fu bene perché giunse Italo, ma la sua “bedroom”, la sua camera da letto, era la numero otto; ci mescolammo in mezzo al “baratto” dei numeri e fummo fortunati.
«Chi vuole Un Otto,» urlò un tizio.
«Noi, ma ti diamo un sette, ti va?”
«Si mi va, okey..
Credo fosse la prima volta che sentivo pronunciare quella parola che poi divenne così familiare e onnipresente in ogni discorso. Aspettammo ancora una buona mezz’ora, ma i nostri soci erano spariti e gli occhi mi si chiudevano. A circa sei chilometri verso il confine turco, gli inglesi avevano impiantato il campo di Aleppo di smistamento e di “igiene” per i reduci e i fuggiaschi provenienti dall’Egeo. Non potei vedere la città, ma i frati francescani del vicino convento giunsero al campo nella più bella e raggiante mattina della mia vita e distribuirono generi di conforto fra cui sigarette, dentifrici, calze, saponette, canottiere e altro. Fra sorrisi e abbracci questi frati ripulirono i cestoni che avevano portato, ma soprattutto distribuirono una carica di fiducia nel prossimo e nell’ avvenire che molti avevano perduto e che, anche nei più ottimisti, stava esaurendosi. Ma ad Aleppo il viaggio non era terminato, fu solo una tappa, poiché mi attendevano ancora il campo di Gaza e quello di EI Burrej, nell’allora Palestina, e quello di Tolumbat nei pressi del castello napoleonico di Abu Qira circa trenta chilometri da Alessandria d’Egitto. Mi attendevano due anni di campi, di reticolati, di sabbia e di sole cocente. Il lavoro di camionista che ottenni dopo aver superato l’esame di guida, mi portò un pò ovunque, dal Libano alla Cirenaica e sino a Khartoum nel Sudan, se pur faticoso, in un clima infuocato dai 40-50 gradi di temperatura, mi ha aiutato molto a dare un senso a quella sorta di prigionia e a superare anche momenti duri e difficili nei rapporti con gli inglesi.

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