LA SECONDA GUERRA MONDIALE
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FUGA DA LERO Una sigaretta sotto il temporale Angelo Martelli 2a parte-la fuga |
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In quel momento forse nemmeno un cane poliziotto avrebbe avvertito la nostra presenza e tanto meno, quindi, lo poteva la sentinella germanica che, sotto la volta del portone della Regia Dogana, stava fumando una sigaretta. Mai tanto propizia e gradita quella violazione del regolamento militare che vieta di fumare durante un servizio di guardia, e mai tanto utile è stata una sigaretta; essa era infatti l’unico mezzo che ci collegava e ci informava, su quell’individuo del quale avevamo bisogno di conoscere i movimenti. Sganciai la catena e la lasciai cadere in acqua, ma lo sguardo era fisso su quella sigaretta. Sarà una cicca o avrà appena cominciato a fumare? Era la domanda che mi assillava in quel momento. 11 rumore dell’acqua piovana sull’acqua del mare, non poteva coprire i rumori che avremmo prodotto salendo in barca; occorreva spingere la barca lontano e possibilmente fuori dalla baia. |
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Cominciammo a spingere in direzione dell’uscita
cercando di stare più sottocosta possibile per evitare il fascio di luce
della fotoelettrica che, ogni tanto, i tedeschi della postazione di
Punta Marina accendevano per sorvegliare lo specchio d’acqua
dell’ingresso in rada. Quella notte però gli unici riflettori venivano
dal cielo, erano i lampi. Spingevo la barca nuotando con i piedi e con
una mano sola, ma continuavo a guardare quella “lucciola” là, sotto il
portone, finché la distanza e l’acqua che veniva giù, non la resero
prima un filino rosso, poi invisibile. Per un attimo pensai al peggio,
poi non udii nessun segnale d’allarme, e mi resi conto che poteva anche
essere finita la fumatina della sentinella. Passò un’ora interminabile,
un’eternità, senza che si potesse sapere con attendibile approssimazione
dove eravamo; una ora durante la quale la mente non pensava ad altro.
Poi ci accorgemmo di essere sotto la postazione tedesca dalle voci
festanti che di là giungevano; bevevano e ogni tanto l’urlo del brindisi
collettivo con il coro di Lily Marlen. Era un canto del paradiso al
quale evidentemente partecipava anche la sentinella. “Bevete, bevete,”
pensavo mentre spingevo, “bevete in onore del vostro Fuhrer, bevete alla
salute delle vostre famiglie, delle vostre fidanzate, delle amanti, di
chi volete, ma bevete.” Questo mio desiderio, debbo dire che fu
esaudito; loro bevettero certamente sino alla sbronza, e noi riuscimmo a
passare senza essere né visti né uditi. La sagoma nera del Monte Castro che si getta sul mare sotto il Castello di Lero, non ci lasciava e noi le stavamo vicini perché seguendola saremmo giunti sul luogo ove ci attendevano i compagni di fuga. Pioveva ancora, ma il temporale era passato per cui non bisognava fare alcun rumore che il silenzio della notte potesse amplificare e trasportare lontano. All’altezza del monte Appeticì — eravamo da poco saliti in barca ed iniziato a remare — avvistammo il primo segnale dei nostri, convenuto con un “punto linea punto” dell’alfabeto Morse. Era visibile solo dal mare e rispondemmo con un debole fischio; avuta conferma della presenza dei nostri, da altri due “punti”, accostammo fra gli scogli e cominciò l’imbarco tutto in silenzio. Sistemati gli altri due remi negli scalmi, la barca si mosse in direzione est. Il maresciallo Corazza dimostrò subito di non gradire molto lo stato di conservazione dell’imbarcazione perché sul fondo aveva acqua; non teneva conto che per più di due ore era piovuto e anche bene. Italo era sceso in acqua per fare da cuscinetto fra uno scoglio e la barca mentr’ io aiutavo gli altri a mettere i piedi nel posto giusto per evitare al massimo i rumori. Anche la pioggia stava ormai cessando di cadere e non era il momento per far commenti o complimenti. |
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Il napoletano Francesco stava infatti per parlare e
aveva cominciato a gesticolare con le mani, ma Italo gli piazzò una
mano- tampone sulla bocca che impedì a tutti di udire il dolce idioma di
“O sole mio”. Nessuno fiatò, ma gli occhi di tutti — se si fossero
potuti vedere — parlavano, chiedevano, cercavano e forse quelli di
qualcuno, pregavano anche. Poi ci fu un momento di imbarazzo; tutti,
istintivamente, avvertimmo la necessità di un comandante o di qualcuno
che indicasse la via da seguire. Il maresciallo Corazza, un po’ per
l’abitudine al comando, un po’ perché aveva capito la necessità del
momento, guardò in giro alla ricerca di qualche stella, ma nulla da
fare, le nuvole non permettevano di individuare le stelle. Conoscendo
1’esposizione dell’isola e del luogo di partenza si puntò, con l’aiuto
della bussola, a est perché in quella direzione doveva esserci la
Turchia. Con la corrente in favore e un’ora di remi, Lero doveva ormai
essere lontana alle nostre spalle. Le bocche non riuscivano più a star
cucite e a me di tanto in tanto veniva in mente la frase che a Lero
avevo sentito tante volte: “Cosa, la Turchia?, è a un’ora di barca”.
L’ora era trascorsa ma la costa turca non la si vedeva. Corazza, che
ormai per tutti era il comandante, ruppe il silenzio: «Facciamo il
cambio ai remi, due alla volta,» disse poco più che sottovoce, «e voi
due che siete stati in acqua copritevi con i panni che sono a prua
assieme all’altra roba, poi con i panni fate capanno ché guardiamo carta
e bussola.» Tutti curvi su di lui per consentirgli di accendere la
torcia e nello stesso tempo per poter vedere la carta. Era una carta di
navigazione di quelle che usa la Marina Militare e sulla quale il
maresciallo posò la bussola; osservando la prua della barca; costatammo
che eravamo diretti a sud-est, il che voleva dire che la corrente ci
avrebbe portati a Coo, la vicina isola italiana anch’essa controllata
dai tedeschi. «La direzione era giusta,» disse Corazza, «però la
corrente potrebbe averci spostati in direzione sud-est. Un breve
silenzio di riflessione. «Bisogna
correggere e puntare su Est-Nord-Est altrimenti andiamo a cantare con i
tedeschi.» Io ed Italo stavamo riposandoci avvolti nei panni; fu in quel
momento che mi resi conto che fra i compagni di viaggio c’era un signore
anziano, un colonnello medico che doveva mantenere il segreto sulla sua
identità. «Non posso dirvi chi sono, ragazzi,» disse con una voce grave e piuttosto stanca, «ma voglio farvi i miei elogi per il fegato che avete avuto. Per ora posso solo offrivi una tazza di caffè caldo.» E così dicendo sfilò da una borsa che aveva a tracolla un grosso termos rettangolare nel cui coperchio erano sistemati due bicchieri abbastanza capienti; ci porse i bicchieri e li riempì. «Non vi nascondo che quando mi fu illustrato il piano di fuga, ebbi un momento di esitazione... e, mi dicevo, ma questi sono pazzi» «Ma» riprese dopo un breve silenzio, «a Lero ne ho visti tanti di eroi non pazzi, che forse, mi son detto, ce n’è ancora qualcuno in giro» Intanto la prua della piccola barca tagliava le onde che si erano fatte docili; la pioggia era cessata e il freddo lo si sentiva più nitido, più asciutto. Erano le due del mattino della vigilia di Natale, ma la costa turca non era in vista. Avevo finito di gustare quel caffè fatto di Rum quando quelli ai remi si fermarono. Allora io e Italo rilevammo i due più anziani e fu proprio durante questa operazione che ci guardammo in faccia l’un l’altro quasi per chiederci: “Ma dove stiamo andando?” Corazza comprese l’amletico dubbio: «Certo» disse, «se avessi un sestante ora che fra gli squarci delle nubi si vede qualche stella, potrei fare il punto-barca, ma in queste condizioni, bisogna affidarsi alla bussola» Riaprì la carta e la sistemò sulla traversa anteriore; tutti i numeri che indicano i fondali, così pure le scritte e la stessa rosa dei venti, sono rivolti a nord e la rotta da seguire era decisamente est ma poiché la corrente ci dirottava a sud-est, bisognava viaggiare in permanente correttivo nord. Lasciammo l’ago della bussola puntato sulla nostra sinistra, cioè a nord, e dirigemmo ancora la prua a est. Nel riprendere il remo mi accorsi che nelle mani, e più nella destra, stavano formandosi delle vesciche; presi allora il fazzoletto che avevo nei pantaloncini corti e lo avvolsi sull’impugnatura del remo; ma me ne pentii ben presto. La prima vescica che si ruppe trovò nel fazzoletto l’acqua salata; mi fu rimpiazzato il fazzoletto con uno straccio asciutto. “Se ci fosse quel maledetto sestante”, pensavo da solo senza sapere cosa fosse, “si potrebbe sapere dove siamo”, ma non dissi nulla agli altri e continuai a remare. «Corazza» disse il colonnello, «controlli che l’ago sia sempre a sinistra della nostra direzione» «È a sinistra, signor colonnello» «Bene”. «Chi ha voglia di bere qualcosa?» disse ancora Corazza, «la cambusa passa acqua e latte in scatola» «Latte?” chiese il rematore di dritta e per un attimo ci riposammo per bere la scatoletta, una per ciascuno. Riprendemmo a remare mentre il colonnello ci guardava in viso uno ad uno poi, come per sottrarsi ad un pensiero doloroso: «Sono le due» disse «alle quattro sorge la luna assieme alle prime luci dell’alba» L’ago della bussola era sempre alla nostra sinistra, cioè a nord, e non ci si poteva permettere di imitare Ulisse o Cristoforo Colombo, posto che ogni giorno i tedeschi affondavano gli emuli dell’uno e dell’altro. Un grande desiderio di libertà e l’insostituibile pesante contributo dello spirito di conservazione, hanno caricato al massimo le nostre “batterie” anche se le vesciche nelle mani di noi rematori si ingrossavano a vista d’occhio. L’aurora non doveva trovarci in mare. L’altra coppia ai remi era stanca ed ebbe il cambio. L’unico a non partecipare era il colonnello, si teneva distaccato da questo “compito” che quasi non lo interessava ma era già calcolato che non avrebbe remato non foss’altro per l’età. Marino, un ragazzo taciturno ma che sprigionava voglia di vivere, si alzò per dare il posto a “O sole mio” e si fermò in piedi a cavallo del sedile come incantato: «Ma non sono monti quelli là?» La barca si fermò come per incanto e tutti cercammo di distinguere nel buio uno scuro più intenso, di vedere quella linea che doveva dividere la sagoma del monte dallo sfondo azzurro-nero del cielo. «Sì, sono monti turchi,» rispose Corazza. «Non c’è l’hanno mica scritto che sono turchi,» aggiunse Francesco. «Taci Napoli, è sotto coi remi.» Passò ancora mezz’ora e non vi furono dubbi; la carta e la bussola dicevano che quella era Turchia. Puntammo decisamente sulla sagoma più alta che sembrava anche il punto più prossimo; l’euforia e la gioia di avercela fatta stavano per esplodere quando il colonnello, quel personaggio misterioso che non poteva rivelare il suo nome, saggiamente richiamò tutti alla realtà. «Aspettiamo di essere a terra.» Lo disse fra il serio e la battuta, ma l’effetto fu quello di una doccia fredda e... il freddo non mancava. Il mare leggermente increspato ma docile, ci guardava come se si aspettasse un grazie per essere stato calmo e buono, ma noi eravamo stanchi ed ora che la terra era vicina cominciavamo a sentire lo sforzo compiuto. Io avevo ancora i panni, quei pochi, bagnati addosso e il panno invece di conservare il calore del corpo, conservava il freddo. «Voi avete freddo”. disse il colonnello rivolto ad Italo e a me, «bevete ancora un po’di caffé.» Intanto la barca si avvicinava a terra e si distinguevano le rocce degli scogli e i cespugli, ma nessuna luce e nessun chiarore di case che di solito sono tutte bianche. «Si vede che è un punto disabitato dell’Anatolia,» disse Corazza, e mentre in quella sorta di chiaroscuro in cui però si cominciava a distinguere l’azzurro cupo del cielo, si facevano tutte queste considerazioni; io ed Italo aprimmo il pozzetto di prua per prendere le armi. Fu in quel momento che scoprimmo l’esistenza di panni per vestire che avremmo dovuto indossare dopo usciti dall’acqua, a Lero. Il buon Carpadachi aveva pensato anche a quello. Rinfrancati da questa felice scoperta, tirammo fuori il mitra, i due caricatori e la pistola a tamburo; Corazza ricuperò tutto il materiale di navigazione, Francesco il barile dell’acqua ancora quasi pieno, Nicola, un barese che aveva sempre e solo remato, ricuperò le scatolette del latte rimaste e con i primissimi lumi del giorno; l’allegra brigata, mise piede in terra turca dove il benvenuto ci fu portato da alcuni conigli selvatici. CAPITOLO VIII NELL’ISOLA DI ZATTAGLIA (KARA) «La prima cosa da fare,» disse Corazza, «è quella di affondare la barca per non essere individuati da aerei tedeschi. » «Non mi dirai mica che vengono a mitragliare anche in Turchia?» eccepì Italo. «Sì, spesso violano gli spazi aerei e i confini territoriali,» puntualizzò con una punta di ironia il maresciallo. Erano quasi le quattro di quel 24 dicembre 1943 e, con le prime luci di una embrionale aurora, ai nostri occhi si presentarono le cime dei monti innevate di quella regione peninsulare dell’Asia Minore che si chiama Anatolia, e che in greco significa “Oriente”, caratterizzata da un insieme di aridi altipiani racchiusi nelle catene dei monti del Ponto. Ci accorgemmo anche, con nostra grande sorpresa, che l’odissea non era finita; a destra e a sinistra del punto di sbarco c’era mare e con ogni probabilità si era su un isolotto e non nel continente. Recuperare la barca era impossibile anche se adagiata su un fondale di soli quattro metri poi le nostre forze erano pressoché esaurite. Con gli occhi su quella cara e piccola barca sul fondo del mare ma ben visibile, ci sedemmo per studiare il da farsi mentre di fronte a noi si cominciava a delineare la sagoma di una isola; era troppo vicina per essere Lero. Corazza aprì la carta e constatò che l’isola più vicina alla Turchia era Coo (Kos) il che significava che la corrente marina ci aveva trascinati a sud-est e che quindi dovevamo essere nei pressi dell’abitato turco di Bodrum. Cosa ci attendesse dall’altra parte di questo isolotto che la carta indicava con il nome di Zattaglia o Kara, dovevamo accertarlo. «Dividiamoci in due gruppi,» disse il colonnello, «percorriamo il perimetro e se è una isola lo vedremo, intanto ci togliamo da questa parte perché se quella è Kos, con un buon binocolo, ci possono vedere.» Così fu fatto; da una parte Italo con il mitra e con tre uomini, dall’altra io con la pistola e gli altri due. Ci muovemmo verso le cinque tenendo sempre d’occhio la vetta di questo mammellone di cespugli e senza un albero. In meno di un’ora ci ritrovammo dall’altra parte con l’amara conclusione che si trattava proprio, e purtroppo, ‘di una isola stretta e lunga con la punta a nord-ovest che guarda dritto dritto l’abitato e il porto di Bodrum da cui dista meno di un chilometro. Eravamo dunque prigionieri della nostra libertà così faticosamente conquistata. La punta dell’isola di Kara era la parte più pianeggiante e disponeva di un rudimentale approdo. Era la mattina della vigilia di Natale del 1943 e anche questa giornata dovevamo dedicarla alla lotta e alla speranza. «Un caicco sta uscendo dal porto,» fece osservare Italo, «e dirige da questa parte.» «Meno male che ci hanno visto,» aggiunse “O sole mio”, «così questa sera spaghetti “ ”Non correre troppo,» disse Corazza, e non aggiunse altro, anche se le parole erano lì pronte, non aggiunse altro perché il caicco, tipica imbarcazione da pesca, stava proprio dirigendo verso di noi. Trascorsero circa dieci minuti in assoluto silenzio sino a quando si ebbe netta la certezza che quel caicco avrebbe tirato dritto passandoci sotto il naso. Urlammo, sventolando fazzoletti, gridammo in greco chi eravamo e da dove venivamo, ma i tre uomini che erano a bordo sembravano ciechi e sordi; nemmeno un cenno di saluto con la mano, nulla. «Eppure ci devono aver visti,» dissi, «e allora perché questo comportamento?» «Erano a meno di cento metri da noi,» aggiunse Nicola. La cosa parve strana a tutti ma nessuno azzardò una spiegazione. «Se va così, caro Francesco, invece degli spaghetti, sarà bene prepararci per la notte.» «Cominciamo con il razionare l’acqua e il latte rimasto, di scatolette di carne c’ è ne sono dieci,» disse Corazza, «quindi sappiamoci regolare. » «Ma il Natale qua non lo voglio passare,» mugugnò Francesco. «E vai,» risposi, «se sai camminare sull’acqua o se hai una soluzione da proporre, sputala fuori.» «Sarà meglio andare sulla cima e vedere se c’è qualche ricovero per la notte. » Dallo sterco ovino o caprino presente per terra fra i cespugli era chiaro che saltuariamente i pastori portavano le greggi di capre al pascolo per cui poteva anche esservi un rifugio, o qualcosa per ripararsi la notte. Francesco andò. «Un altro caicco sta uscendo,» avverti ancora Italo che non aveva staccato gli occhi dal porto di Bodrum. «Speriamo che ci ascolti almeno questo, » disse il colonnello al quale la prospettiva di dormire all’aperto il 24 dicembre non garbava molto. Nicola si tolse la camicia e cominciò ad agitarla. Intanto si erano fatte le nove antimeridiane e avevamo tutti un po’ fame. Il razionamento consentiva mezza scatoletta di latte a testa al giorno, calcolando una permanenza di tre giorni, e una scatoletta di carne per tutto il tempo a testa. L’acqua a stima era sufficiente in ragione di due bicchieri a testa al giorno. Intanto anche il secondo caicco si comportò esattamente come il primo. «Ma qui c’è l’hanno con noi,» mormorò Nicola guardandosi in giro. Di pescherecci non ne uscirono più e quei due non rientrarono durante la giornata, per cui bisognava effettivamente pensare alla sera avendo cura e attenzione di non esporsi mai e per nessuna ragione sul lato dell’isola rivolto a sud, verso Kos. I tedeschi avrebbero potuto mandare una vedetta a catturarci; questo pensiero trovava una valida ragione nel mistero che avvolgeva quel “colonnello” e nel fatto che episodi simili erano accaduti. La Turchia con la sua neutralità, stava con tutti e specie dove aveva interesse o paura. Italo ed io ci dividemmo la scatoletta di latte di quel giorno, ma pensare alla sera significava anche cercare qualcosa da mangiare, e una pietra o un masso a ridosso del quale dormire tenendo conto della direzione del vento. Non era proprio vento quello che spirava a Zattaglia in quei giorni, era una brezza che non abbandona mai quelle isole, ma che a lungo andare, con l’umidità della notte marina, porta il suo contributo di freddo. In quanto al mangiare non vi era tanto da scegliere e ben difficilmente altri esseri umani avrebbero potuto rispettare il digiuno della “vigilia” in modo migliore. Con l’avvicinarsi di quella mezzanotte che secondo la tradizione e la storia cristiana aveva un ben preciso significato riconducibile alla nascita di Cristo, e guardando le montagne dell’Anatolia, mi son chiesto più di una volta se tutto ciò che stava accadendo nel mondo era cristiano, e se Dio che lo permetteva si fosse dimenticato dei più poveri, dei martiri, di tante vittime dell’ingiustizia, della tirannide. Poi riflettendo sul fatto che l’uomo è l’immagine di Dio già nella sua singolarità e, forse anche per trovare una facile spiegazione o risposta a questi miei ragionamenti, ho concluso che forse Dio vuole così, e ho continuato a cercare. Un grosso sasso in distanza luccicava ai raggi del sole, mi avvicinai e notai una pietra a forma di teschio, era grossa e aveva la parte cranica incavata; sembrava una bacinella e il temporale della notte precedente l’aveva riempita d’acqua. Sul fondo di questa “bacinella” vi erano numerose palline nere o deiezioni di capre che però non avevano intorbidito l’acqua; essa era invece limpida e trasparente e quindi bevibile posto che non c’era modo per un’analisi batteriologica. Mi avvicinai con le labbra molto delicatamente alla superficie e succhiai senza apportare alcun turbamento alla massa liquida. Valutai quella scorta naturale attorno ai tre litri e se nessuno la scopriva ne avevo per almeno tre giorni. Italo guardava con ostinazione verso l’imboccatura del porto di Bodrum, l’antica Alicarnasso la citta del Mausoleo, e io tirai le somme gastronomiche: radicchio selvatico lavato in acqua di mare, patelle, la scatoletta di carne, mezza scatoletta di latte e acqua ancora per qualche giorno; non va poi male del tutto. Assieme a Nicola raccolsi dall’acqua una manciata di patelle, le guardai bene nel loro alloggio, da dove le distaccai e, ostentando una certa indifferenza, come d’altra parte faceva Nicola, le mangiai guardandomi bene dal masticarle. Praticamente questi molluschi poco più grossi di una vongola, li mangiammo vivi e Nicola apprezzò molto l’offerta di un po’ di radicchi da usare come contorno. «Più vigilia di così” disse sorridendo. Sì,i proseguì il colonnello, «domani è Natale e forse i pescherecci non usciranno quindi prepariamoci a restare qui almeno un giorno ancora.» «Ma perché non ci vengono a prendere, di cosa hanno paura,» disse disperato il settimo della comitiva, un civile che lavorava a Lero, originano delle Marche, forse di Falconara o Ancona, di nome Luigi. «Ma,» dissi, «qualcosa deve esserci perché è impossibile che non ci abbiano notati.” «Se questi pescatori sono mussulmani, domani per loro è giorno feriale ed usciranno per la pesca, ma se sono ortodossi, siamo fregati. Ma alla sera le barche non uscirono, come avviene di solito, per rifornire il mercato di pesce fresco il giorno dopo, e ciò mi portò a considerare che la nostra permanenza a Kara si sarebbe facilmente prolungata. Arrivò il momento dei falò o dei fuochi cari all’amico napoletano ma utili a tutti perché ci saremmo riscaldati; l’unico pericolo era che il fuoco si propagasse fra i cespugli per cui tutt’attorno fu fatta piazza pulita di ogni cosa incendiabile e durante la “manifestazione” ogni fuoco era attentamente sorvegliato. Erano distanti circa dieci metri l’uno dall’altro, in modo che dalla costa potessero essere notati distintamente, e furono tenuti accesi per circa un ‘ora. Sull’altra sponda, ma fuori dall’abitato di Bodrum, si accesero tre fuochi; magari saranno stati dei ragazzi che intendevano giocare ai pirati, comunque era certo che la nostra presenza era stata notata da qualcuno. Non restava che attendere, al fresco e sotto le stelle, il giorno di Natale; alle 22 qualcuno già dormiva e Italo fu il primo a montare di guardia. Il luogo prescelto per la garitta era buono; poteva vedere dall’ alto il “campo” e tenere sott ‘occhio 1’ approdo. Alle spalle ci guardava il buon Dio perché se un comando tedesco fosse sbarcato dove noi avevamo affondato la nostra barca e avesse risalito il piccolo monte, ci avrebbe preso tutti senza alcuna difficoltà. Dopo poco mi addormentai rannicchiato nel panno, con i vestiti ormai asciugati e, a portata di mano, la pistola con il colpo in canna. Era la prima volta che mi succedeva di dover dormire all’aperto e francamente la cosa non mi entusiasmò. Circa due ore dopo, era appena passata la mezzanotte, Italo mi svegliò per il turno di guardia; la temperatura era bassa ma non rigida e si poteva valutare di essere sui 10-12 gradi. La neve non l’avevamo in casa ma era sulla porta, infatti i monti dell’Anatolia erano bianchi e nella notte “azzurra” si notavano in distanza. Il cielo era limpido, pieno di stelle, non cera vento e il mare non si sentiva, era una notte stupenda, una di quelle notti fatte per pensare. Dal mio posto di guardia vedevo le luci dell’abitato di Bodrum, deboli, quasi spente ma pur sempre esse rappresentavano l’unico aggancio ideale con il mondo che vive. “E se quel mondo, pensavo, fosse l’Italia, se lì a un chilometro vi fosse Trieste, o Ancona o Napoli o Genova.., com’è l’Italia?” mi domandavo. Dopo gli anni di collegio a Fano, fui spedito in Egeo e ricordo solo Venezia, dove mi imbarcarono. Sapevo che gli alleati erano sbarcati in Sicilia e niente più; si sapeva che Mussolini aveva fatto un nuovo governo nell’Italia settentrionale, che era agli ordini delle truppe tedesche le quali tenevano fermi gli alleati da qualche parte della penisola. Ricordai lo zio che mi venne a prendere in collegio al S. Arcangelo di Fano. «Tuo padre,) mi aveva detto, «ti vuole con lui a Rodi, prepara la tua roba ché ti porto a casa. Che belle parole! Ricordai il treno da Ravenna a Venezia con il lungo pennacchio di fumo nero e quell’odore di carbone bruciato che mi piaceva, il rumoroso convoglio che attraversava la bassa Padana, i lunghi filari di viti stancamente appoggiate agli alberi di moro e i covoni sparsi qua e là nei campi, i buoi che tiravano i carri colmi verso l’aia perla trebbiatura. Già, c’era una poesia nell’antologia di italiano, “Il bove”; t’amo pio bove e mite... la mia Italia era piccola, si fermava lì, in un ricordo di scuola e in una grande nave che mi portò lontano. Ero sveglio ma sognavo, finché un rumore mi riportò al presente. Non avevo potuto capire di che rumore si trattasse, era come un fruscio, forse un topo o un coniglio selvatico; già, il coniglio selvatico, non ci avevo pensato, ma potrebbe essere il pranzo di Natale. Le luci di Bodrum erano sempre là; ma cosa ci riservava quel paese che ci rifiutava, che non ci voleva, dove saremmo andati a finire una volta in mano ai turchi. I tedeschi, assieme alle bombe, avevano gettato sull’isola di Lero dei volantini che ammonivano tutti, marinai e soldati, ad unirsi a loro contro gli anglo-americani per essere condotti sani e salvi in Italia. Caso contrario, era sempre scritto sui volantini, saremmo stati considerati traditori ed uccisi. più specifica era la minaccia contro gli ufficiali: Conosciamo i nomi di coloro che vi hanno venduti agli inglesi e quando sbarcheremo li sottoporremo ad orribili torture. I turchi a chi ci avrebbero consegnati?. La mia mente era stanca e il sonno stava per avere il sopravvento. Andai a svegliare Napoli. «Credo sia l’una e mezza.» «Sì, è l’una e quaranta,» confermò dopo aver consultato l’orologio.» «Tieni gli occhi aperti,» gli dissi, «almeno sino alle tre, prendi.» «E ch’è stu’ coso,» replicò. «Cosa vuoi che sia, è il mitra, non lo vedi?.» Sì lo vedo, lo vedo, ma io non lo so usare...» «Per prima cosa,» suggerii, «non lo tenere mai rivolto verso le persone e non tenere il dito sul grilletto, che è questo, e se vedi o senti qualcosa di sospetto, sveglia gli altri ma senza far rumore, il nemico non deve poterci localizzare.» Esagerai con la faccenda del nemico, lo feci per svegliano e anche un po’, lo confesso, per divertirmi. Avevo infatti notato che Francesco non aveva fatto il servizio militare e che aveva anche una buona dose di fifa. «Stai attento alla cima del monte,» aggiunsi, «perché se sono tedeschi, vengono da quella parte e, invece, se sono predoni turchi arrivano dalla Turchia.» Credo proprio di avergli fatto passare il sonno e mentre mi sistemavo nel “giaciglio” sentivo che biascicava qualcosa che aveva a che fare con il “Carmine”, probabilmente invocava la Madonna. Mi svegliai che il sole era già alto; credo di aver dormito tanto pesantemente da non sentire le cannonate. Andai a vedere il mio “teschio” con la scorta d’acqua; c’era ancora e ne feci un’abbondante bevuta, sempre con ogni riguardo per non “disturbare” il fondo, poi mi portai sugli scogli e mi lavai la faccia con l’acqua marina e mi risciacquai con quella del teschio. Mi raggiunse Italo: «Sai che non è ancora uscito nemmeno un caicco?», mi disse preoccupato. «Ciò significa che sono cristiani ortodossi e festeggiano il Natale,» risposi. «Vuoi dire anche,» concluse Italo, «che dovremo stare qui ancora una notte e un giorno.» «Se tutto va bene,» dissi, « perché tutto vada bene, bisognerà fare uso delle armi non appena se ne presenterà l’occasione.» "E già,» assentì, il primo che passa a tiro bisogna costringerlo ad approdare con una raffica di mitra.» E così dicendo ci siamo avvicinati al gruppo che stava discutendo animatamente. "Nicola dice di essere disposto ad andare di là a nuoto,» ci riferisce tutto soddisfatto “O sole mio”. «E un suicidio,» dissi con l’assenso del colonnello, «è un rischio grande perché c’è più di un chilometro, l’acqua è fredda e sono almeno 48 ore che non si mangia; mancano le forze necessarie ad un’impresa del genere.» «Non può farcela,» aggiunse il colonnello. Nicola insistette dicendo che una volta di là, ci manda a prendere, ma siamo tutti contrari. «Fatemi bere tre scatolette di latte e vi garantisco che riesco a fare la traversata” «Il rischio è grave per i crampi che possono prenderti alle gambe o allo stomaco,» precisò il maresciallo Corazza, «si va a fondo e non ci sono madonne, capisci.» Nicola sembrava convinto a rinunciare poi, dopo qualche minuto di silenzio generale, ci riprova. «Datemi il latte e vado» «No» replicai assieme a Italo, «noi abbiamo un piano più sicuro e meno rischioso.., la prima imbarcazione che domani passa a tiro la costringiamo con due raffiche ad accostare, il resto verrà da sé.» «E se non ne passano?» replica Napoli. «Se non ne passeranno si potrà tentare la carta della traversata a nuoto» conclude Corazza. Erano le 11 del 25 dicembre 1943, mi avviai lentamente tra i cespugli a testa bassa e ormai non sentivo più le voci del gruppo. Il gesto di Nicola era veramente encomiabile, ma non si poteva né si doveva consentirlo. Mi voltai per vedere se discutevano ancora e notai Nicola che stava scolando una scatoletta di latte, tornai verso di loro. "Non siamo riusciti a convincerlo" mi disse sconsolato il colonnello. Un quarto d’ora dopo Nicola era in acqua che nuotava a bracciate lente ma efficaci. Mi sono unito agli altri per seguirlo, ma dopo circa trecento metri non riuscivamo più a veder quel puntino nero che appariva e spariva fra le onde. Il mare era calmo, ma l’acqua era fredda e il pericolo era tutto lì. C’erano ancora cinque scatolette di latte, quelle con la carne e il barile dell’acqua tenuto accuratamente sotto pietre e cespugli per l’ombra; il mio “cranio” di pietra ne aveva ancora ma evitai di lavarmi il viso anche se era Natale. La situazione per me non era chiara. Il maresciallo si era appostato fra i cespugli e con alcuni colpi di mitra era riuscito ad abbattere un coniglio selvatico. Ci fu gran festa, preparai i due muretti di sassi e all’interno vi accesi il fuoco mentre gli altri pulivano la bestiola che valutai non essere nemmeno un chilo, poi, infilata in un bastoncino fu fatta girare lentamente, ci pensò “O sole mio” sulla brace. Aprimmo quattro scatolette di carne e con il contorno di qualche “radicchio” si fece il pranzo di Natale. Fu una “abbuffata” anche se non avevamo bicchieri, posate e piatti. Il sole era alto e una leggera brezza teneva increspata la superficie del mare, non era caldo ma nell’ora centrale della giornata si poteva stare senza panno addosso. Era curioso il gioco di colori che si osservava su quella terra rocciosa e cespugliata man mano che compiva il suo giro attorno al sole; dal verde del mattino all’argento del mezzogiorno, si passava al rosso del tramonto con tutte le sfumature e le ombre sulle rocce e sui cespugli. Questa osservazione mi indusse a riflettere sui pastori che portavano le capre al pascolo sull’isola; dalla quantità delle deiezioni sparse un po’ ovunque, si doveva concludere che la permanenza di questi animali e dei loro pastori fosse di almeno una settimana; ma allora, come facevano per il bere? L’altra parte dell’isola, quella esposta a Kos, non l’avevamo esplorata per il pericolo di essere notati dai germanici, ma almeno uno di noi doveva farci un giro, magari al tramonto quando la visibilità si riduce, ma bisognava farlo. Verso le quattro del pomeriggio il sole stava già prendendo la via dei monti che sovrastano l’abitato di Bodrum e io mi incamminai per l’ispezione in compagnia della inseparabile pistola. Decisi di seguire un percorso a mezza costa, cioè ad uguale distanza dal mare e dalla vetta del monte. Prima di affacciarmi decisamente sull’altro versante, osservai attentamente il mare che fosse sgombro da imbarcazioni di ogni genere, poi mi avviai. Camminavo da circa dieci minuti quando notai, sulla mia destra, uno spiazzo senza cespugli; era un rettangolo di circa quattro metri di lunghezza scavato al centro come se fosse una vasca. Guardai bene in giro e un pò più in alto, fra i cespugli, notai due pietre un po’ grosse poste una vicina all’altra; prudentemente, per il pericolo di vipere, ne rimossi una con un piede e vidi un buco, tolsi anche l’altra pietra e scoprii che si trattava di un pozzo con dell’acqua sul fondo. Era un pozzo scavato a mano, del diametro di circa 60 centimetri e profondo circa due metri. Sulla parete, appeso ad un ferro conficcato, vi era una scatola vuota, di quelle da conserva, con una corda. La buca nel terreno probabilmente era l’abbeveratoio per le capre; mi sedetti e cercai di stabilire se si trattava di acqua piovana trattenuta in quella specie di pozzo o se si trattava di acqua di falda. In questa seconda ipotesi, il problema acqua era risolto. Usai quell’attrezzatura e ne estrassi un “secchio”; era buona. Richiusi il pozzo e mi avviai all’accampamento con l’acqua. Alle mie spalle iniziava a farsi strada l’ombra della cima del nostro “mammellone” e innanzi a me l’isola di Kos riceveva ancora qualche raggio di sole, forse l’ultimo di quel giorno, nel mare “saporito” azzurro cupo che ci circondava. Pensai a mio padre, a Leros, alla sorte che attendeva gli italiani dell’Egeo, e alla mia sorte una volta in mano ai turchi; ma per ora avevo trovato l’acqua ed era molto importante. «Cos’hai trovato?" fece Italo. «Un filone d’oro” risposi, e tutti vollero bere di quell’acqua che apparve subito gradevole e leggera. Seguì la distribuzione della scatoletta di latte e con quella cena, ma anche con maggior fiducia nel futuro, ognuno si preparò per la notte. «Chissà se Nicola sarà arrivato,» disse il colonnello. «A giudicare dall’effetto ottenuto,» rispose Corazza, «si dovrebbe pensare di no... » «Sì, va bene, ma non dimentichiamo che è Natale e che la gente se ne frega di noi» ribattè Italo. Nella risposta di Italo era presente un pizzico di acredine; figlio di un padre levantino aveva sempre avuto per la Turchia un occhio assai benevolo, non ignorando che l’Italia aveva tolto, proprio alla Turchia, già dal 1912, le isole del mar Egeo con Rodi, particolare questo che i turchi , anche a livello di popolino, non avevano dimenticato. Di qui, il “se ne frega” di Italo. «Comunque,» dissi anche per dare un taglio alla discussione, «domani mattina potremo lavarci il muso e se nessuno ha nulla in contrario, il primo turno di guardia questa sera lo faccio io.» Non passò molto tempo e mi ritrovai solo sotto le stelle, al freddo e con un mitra in mano, ma con tanta voglia di vivere. Trovo abbastanza superfluo dire che io e tutti gli altri soffrivamo la fame; le patelle, l’erba, il latte, la scatoletta di carne e anche il povero coniglio, riuscirono appena ad evitare i crampi allo stomaco o conseguenze peggiori ed è chiaro che in simili condizioni non si poteva resistere ancora per molto. Anche la seconda notte nell’isola turca trascorse tranquilla; Bodrum era sempre là e noi sempre lì ad aspettare... il fil di fumo. - segue alla terza parte .......... |
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