LA SECONDA 

GUERRA MONDIALE  

 

FUGA DA LERO

Una sigaretta sotto il temporale

Angelo Martelli

1a parte-la preparazione
appendice: dietro il filo spinato
 

Angelo Martelli è nato in Romagna nel 1925. Nel 1936 si trasferì con la famiglia nell'Egeo, a Rodi, poi dal '40 a Lero dove suo padre aveva incarichi nelle opere pubbliche. Nel dicembre 1943, all'atto della leva repubblichina della sua classe, fugge da Lero e dall'occupazione nazista riparando in Turchia (il racconto). Da qui in divisa inglese è nei campi di prigionia di Aleppo, El Burrej (Gaza), Abu Qir (Egitto). Qui impara a guidare i camion e viene utilizzato anche per le grandi tratte lungo il Nilo fino al Sudan. Rientra in Italia alla fine del 1945.  Dopo pochi anni inizia la collaborazione con testate giornalistiche  e riviste di tecnica ed economia agraria. Per cinque anni, dal '78 al '83, ha curato la pagina dell'Agricoltura della "Gazzetta di Parma". Gastronomo oltre che economo, ha pubblicato - Una sigaretta sotto il temporale - (1988) -La cucina povera in Emilia Romagna-(1989) -Alessandro Malaspina - (1991) - Che si mangia oggi - (1993) -La grande colpa -(1994) -Dal bordello alla strada-(1997) -Giosuè Carducci tra massoneria e religione-(1997)

In quel dicembre 1943, l’isola (Lero), con le sue grandi ferite ancora aperte (la battaglia era terminata il 16 novembre), tentava di riprendersi; mio padre, internato civile, venne rimesso al suo posto di lavoro e si poteva fare qualche assunzione per la riparazione delle strade bombardate; essere assunti al lavoro significava una razione alimentare e maggior libertà di movimento, grazie al “Pass” che il “Kommandantur” tedesco rilasciava. Giungevano intanto le prime notizie dall’Italia. Il fronte alleato si spostava verso nord, le città distrutte dai bombardamenti: e un giorno circolò anche la voce secondo la quale la Repubblica di Salò aveva chiamato alle armi la classe del '25. La notizia mi venne confermata da un impiegato del municipio e, anche se si trattava di una conferma ufficiosa, iniziò per me un nuovo periodo di ansie e di preoccupazioni. Per prima cosa, cercai di farmi trovare in casa il meno possibile, anche se il nascondersi in montagna era rischioso per i numerosi campi minati che erano stati predisposti in difesa delle batterie. Avvertii mio padre che, se mi avessero cercato, doveva sempre dire che ero andato al lavoro; cominciai a prendere i primi cauti contatti per esaminare la possibilità di una fuga in Turchia. Le notizie di mitragliamenti aerei su barche di fuggiaschi, erano di tutti i giorni e anche quelle di delazioni per denaro, dopo aver venduto agli stessi fuggiaschi la barca. Era un po’ come muoversi in un campo di mine che gli artificieri non potevano rimuovere, ma era un rischio che bisognava correre. Anche da parte dei proprietari di barche, pescatori o no, non vi era minor diffidenza e precauzione; le spie che operavano per i tedeschi agivano sui due contraenti, colui che comprava e colui che vendeva la barca per cui la difficoltà era doppia e non facile da superare, specie per un giovane di 18 anni le cui disponibilità economiche non erano del tutto note o attendibili. Infine dovevo anche tenere conto delle insistenti raccomandazioni di mio padre; lui riteneva la fuga una impresa disperata e sino ad ora non indispensabile posto che la chiamata alle armi non era ancora arrivata. A S. Marina, il porto commerciale e diciamo anche turistico dell’isola, situato nella grande Baia di Alinda, esisteva un “cfenio”, o caffè greco, aperto giorno e notte, che non aveva chiuso nemmeno durante i tremendi giorni di novembre. In questo locale si davano ritrovo i portuali, i proprietari di barche e caicchi e chiunque avesse a che fare col mare. Gli stessi militari tedeschi vi si recavano alla ricerca di manodopera. Il locale era quasi a ridosso della “Regia Dogana” e dai vetri delle piccole finestre si poteva osservare il movimento del naviglio piccolo e la banchina.
Con il primo “caffe” che andai a consumare in quel bar mi resi conto che era il posto dove potevo trovare ciò che cercavo e che lì, si combinavano gli “affari” per le fughe. Occorreva quindi entrare nella fiducia di qualcuno che garantisse sia sulla serietà del venditore della barca, sia sulla qualità del cliente compratore. Era un locale, a dir poco, affumicato, grande e pieno di piccoli tavolini con clienti abituali che sedevano per una intera mattinata, e a volte anche il pomeriggio con un caffé, un pezzo di pane e ricotta secca. Ai tavoli erano tipi certamente poco raccomandabili, assieme ad altri col viso consumato dalla salsedine e la pelle aggrinzita fra mille rughe, barbe e baffi di ogni tipo e berretti di lana blu alla marinara. Certamente i tedeschi sapevano che in quel locale si organizzavano le fughe di prigionieri imboscati e non si poteva né si doveva quindi escludere che il locale stesso fosse tenuto d’occhio. Questa considerazione mi fece riflettere sui commenti e sospetti che la presenza di un italiano giovane poteva suscitare e decisi di stame alla larga, anche se bisognava pur sempre organizzare la fuga. Rientrando a Platano, la “city” dell’isola, ho girato al largo della piazza per evitare incontri pericolosi e mi sono diretto verso casa passando in alto, per la via del cimitero; in quel tratto ho incontrato Italo, un amico anch’esso della classe del 1925 che abitava in periferia a Portolago: il padre, nativo di Costantinopoli ma cittadino italiano, lavorava a S. Giorgio.
«E vera la notizia della chiamata alle armi della nostra classe?» mi chiese a bruciapelo.
«A me han detto di sì, però manifesti non ne ho visti. . . »
«Con tutto quel che c’è stato» ribadì l’amico, «capirai se arrivano i manifesti.»
Poi dopo una breve pausa quasi che ognuno di noi attendesse che parlasse prima l’altro...
«E tu cosa fai,» disse Italo.
«Guarda» risposi, «te lo dico molto francamente, se mi si presenta l’occasione taglio la corda.»
«Per la Turchia?»
«Certo, lo sai che non c’è altra possibilità.»
«Penso che farò così anch’io, non mi va di andare a fare il militare, magari a Rodi, o al fronte in Italia sotto i tedeschi.»

Riflettei su questo colloquio e mi chiesi se avevo fatto bene a rivelare le mie intenzioni; è sempre stato un bravo ragazzo e, anche se non ci siamo frequentati, mi è sembrato sincero. A casa, mio padre aveva preparato la cena; l’aiuto della donna lo avevamo solo per la mattina, e l’assenza di carne, pane, riso, zucchero e pasta, suggerì di arrangiarsi con qualcosa di produzione locale che si cominciava a trovare, dopo la partenza dei più di cinquemila prigionieri e di gran parte del contingente tedesco di sbarco. Parlai dell’incontro, con Ba’ (papà), ma sapevo come la pensava circa la fuga e non mi attendevo quindi alcun aiuto né approvazione. La mattina dopo, come ogni giorno, passò da casa nostra il capo operaio che lavorava da anni alle dipendenze di mio padre; Stelio Lulludià voleva le istruzioni per la giornata; lo presi da una parte prima che vedesse mio padre e lo interrogai molto confidenzialmente. Stelio, io voglio scappare in Turchia ma non so a chi rivolgermi, e ho paura che mi prendano i soldi e poi mi denuncino ai tedeschi.»
Stelio mi guarda affatto sorpreso: «Ma tu,» mi disse, «a star qui non corri pericolo»
«Sì il pericolo è quello di dover andare a fare il militare sotto i tedeschi e chissà dove, o essere fucilato per renitenza alla leva»
«Già,» e scosse la testa, poi, come se si stesse svegliando da un sogno, improvvisamente: « non dire nulla a nessuno» Qualche giorno dopo, Stelio mi informò: «C’è qualche posto su un caicco che parte per la pesca il 23, ci vogliono ventimila lire ed è ancorato a S. Marina dove bisogna entrare di notte». Per le ventimila lire non esistevano problemi, ma quella di entrare in un caicco, restarci tutta la notte e nascondersi per l’ispezione che i tedeschi effettuavano sempre ad ogni imbarcazione che partiva o rientrava, era una cosa che non mi andava; una spiata o un colpo di tosse di un altro “clandestino”, ed ero fritto. Mi venne subito alla mente quel “caffè” di Santa Marina.
«Grazie Stelio, dissi, «ci penserò.» «Guarda,» replicò, «che ci sono solo sette posti, bisogna far presto»
Andai subito alla ricerca di Italo e lo informai della cosa. Naturalmente tutti questi colloqui avvenivano in lingua greca; si era quasi certi di non essere compresi dai tedeschi, ma non bisognava dimenticare che le migliori spie tedesche erano del luogo per cui la prudenza suggeriva di parlare sempre sottovoce. Non saprei ora stabilire, per coloro che trasportavano gli italiani in Turchia, dove finisse l’onesto desiderio di aiutare quei poveracci che cercavano la salvezza, e dove iniziasse l’interesse per 1' ”affare”. Spesso i nostri marinai avevano solo ciò che portavano addosso, mangiavano ciò che la carità dei lerioti passava loro e non potevano star lì ad esaminare le offerte di “unbarco” per la fuga.
Ma noi eravamo civili, avevamo una famiglia alle spalle e quindi denaro, e qualcuno che avrebbe potuto punire eventuali scherzi mancini. Un maresciallo palombaro aveva assicurato Italo che poteva disporre di argenteria della “Regia Marina”, in quel momento in fondo al mare della baia di Portolago. ”Voi trovate la barca e io la pago in argento” aveva detto il maresciallo Corazza con estrema sicurezza di sé. Con la prospettiva offerta dal maresciallo, Italo e io fummo d’accordo di rinunciare al posto nel caicco; era troppo rischioso e in caso di pericolo non vi era alcuna possibilità di difendersi.
Si era ormai a metà dicembre e un piano per la fuga non esisteva ancora. Esisteva tuttavia un bagaglio di conoscenze dei vari aspetti della questione, tutti importanti, che dovevano essere tenuti nella giusta considerazione come, ad esempio, quello di non rivelare, mai a nessuno, la data della fuga, né il numero dei fuggiaschi. La barca a remi era certamente più faticosa che non il nascondiglio nel caicco e, se vogliamo, presentava anche molte incognite, ma escludeva il pericolo della spiata e non era cosa di poco conto. Solo che si fosse in quattro ai remi, e con una intera nottata a disposizione, si poteva raggiungere la costa dell’Anatolia in cinque o sei ore con il mare in favore. Sulla barca occorreva disporre di scatolette di latte e di carne, zucchero, una carta di navigazione, una bussola, un barile d’acqua, qualche coperta e qualche arma leggera. Tutte cose facili da reperire in un ambiente come quello di Lero dove non erano ancora ultimati i rastrellamenti del materiale bellico, ma la barca era il difficile.
L’amico di Italo, sottufficiale di Marina che viveva anch’esso nascosto, aveva prospettato la possibilità di fuggire dalla baia di Portolago. C’era la barca e la spesa era contenuta, ma il luogo di imbarco era molto sorvegliato e movimentato; l’uscita in mare aperto doveva avvenire attraverso una strettoia anch‘essa sorvegliatissima, poi bisognava costeggiare un lungo tratto di costa prima di guadagnare la rotta per la Turchia. Il piano si presentava troppo rischioso e fu scartato.
Ormai, nelle case, molti si apprestavano a celebrare il Natale di quel 1943, un Natale che, a parte i contenuti religiosi, non poteva certo dirsi “soddisfatto” nei suoi valori essenziali, nella “festa della famiglia”. Il panettone era un sogno per chi lo conosceva, ne sentivo parlare ma non l’avevo mai visto, lo spumante altrettanto; era sufficiente il pranzo di sempre se tutto andava bene; un po’ di pasta e pesce se il mare avesse consentito alle barche di uscire. La mattina del 18 dicembre non sembrava nemmeno inverno; un bel sole riscaldava l’aria e il termometro si era sistemato sui 16 gradi. Per un attimo, affacciandomi alla finestra, avevo dimenticato il mio problema e commisi l’imprudenza di espormi. Con la persiana socchiusa diedi una occhiata in giro per essere certo che nessuno mi avesse notato, ma non era così. Proprio lì, sotto la mia finestra, c’era un uomo che non avevo mai visto prima, con un maglione azzurro, un berretto di lana anch’esso azzurro, baffi e barba incolta.
«Ha bisogno di qualcuno?» chiesi ostentando una certa disinvoltura.
«Sì, di lei» rispose in perfetto greco.
«Entrate, vengo ad aprirvi»

Lero base degli incursori http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/borghese.htm

Una volta in casa l’individuo andò per le spicce. «Sono Antonio Carpadachi e mi manda Stelio: mi ha detto che tu hai bisogno e io posso aiutarti» In quel momento Stelio stava entrando in casa; i nostri sguardi si incontrarono; il mio chiese e il suo rispose, con l’aggiunta di un cenno di assenso del capo. Poi, mentre stava per lasciarci, si voltò e disse: «Stai tranquillo. »
Entrò in argomento ed io lo ascoltavo; aveva una barca di 5 metri con 4 remi ancorata proprio davanti alla Regia Dogana di Santa Marina, a circa venti metri dalla banchina, in mezzo ad altre barche da piccola pesca, di quelle per la pesca con la lampara ma inutilizzate perché i tedeschi avevano proibito la pesca notturna, peraltro già ferma da anni per motivi bellici e di oscuramento. La dogana era sorvegliata giorno e notte da una sentinella tedesca e per poter portar fuori la barca, e passare sotto Punta Marina dove era insediata una postazione di mitragliere, occorrevano due condizioni: un grosso temporale e una notte senza luna. Avvertii subito Italo e verso l’imbrunire di quello stesso giorno ci trovammo a Santa Marina con Antonio che, da una certa distanza mentre con fare disinvolto accendeva una sigaretta, ci indicava qual era la barca. Era verde con due remi in vista e due sotto, agganciata ad una catena che faceva capo ad un’ancora segnata da un galleggiante bianco. Il gancio che univa catena e barca era un moschettone e ciò agevolava molto l’operazione di “furto” poiché evitava rumori di ferri. Bisognava proprio parlare di furto dal momento che, a fuga avvenuta, si doveva denunciare alla Capitaneria di Porto la scomparsa della barca.
Nel retro della mia casa, a Platano, avevo da tempo sotterrato, ben lubrificate e avvolte in carta catramata e stracci, un mitra Sten ed una enorme pistola a tamburo, un modello americano di quelle che si aprono come le doppiette da caccia. Italo avvertì il maresciallo suo amico e altri due amici che lavoravano a S. Giorgio e io a mia volta trovai un vicino di casa, certo sig. Francesco, un napoletano simpatico e che viveva fuori dal mondo reale. Fu facile raccogliere le ventimila lire. Si era già in atmosfera natalizia quando accompagnai mio padre al porto di Santa Marina.
”Vedi, Ba’, quando quella barchetta verde, là in mezzo, attaccata al galleggiante bianco, non sarà più al suo posto, aspetta 24 ore poi vai a denunciare la mia scomparsa al comando dei carabinieri, non dire come sono fuggito né dove sono andato, dì soltanto che non sono rientrato a casa»
«Guarda che rischi troppo» ribattè mio padre, «vedi là?» e con lo sguardo mi indicò Punta Marina, «ci sono i tedeschi.»
«Non ti preoccupare» dissi cercando di tranquillizzarlo, «vedrai che andrà tutto bene». Nei giorni che precedeva il Natale era consuetudine, fra gli italiani residenti nell’isola, incontrarsi a casa dell’uno o dell’altro per cui un po’ di via vai non doveva dare nell’occhio e così il 22, a casa di mio padre, si trovavano alcuni soci dell’avventura, per stabilire il piano di fuga. In quei giorni eravamo in luna morta e bisognava attendere solo il temporale. «Se il tempo brutto viene da ovest» avvertì il maresciallo, «vuol dire che è brutto sul serio e duraturo per cui bisogna approfittarne. La mano del destino volle fare la sua parte; non si poteva ignorare questa astratta componente che pur in qualche modo entrava nel piano di fuga. E, appunto, destino volle che la notte giusta fu proprio quella del giorno dopo, il 23 dicembre; già nel pomeriggio grosse nubi nere si adunarono sull’abitato di Portolago e i tuoni, in principio lontani, si udivano sempre più nitidi e ravvicinati. Mi diressi verso Portolago a piedi, ma quando fui all’Ancora aggirai la polveriera e giunsi in città dalla parte della caserma di fanteria. Da quelle parti abitava Italo. Passai due volte davanti alla casa, fui notato e mi fecero entrare da un passaggio laterale dove il muro di cinta era franato. Italo era in cantina ove lavorava ai tacchi di un paio di scarpe.
«Vedi, qui dentro?» e mi mostrava i tacchi, «vi sono nascoste alcune sterline d’oro, non si sa mai cosa ci attende e dove si andrà a finire» «Bene» soggiunsi, «allora sbrigati perché questa notte è quella buona. La luna è morta e il tempo si sta mettendo al peggio».
«E il piano resta quello?» mi chiese.
«Certo, io e te andiamo verso le 21 a prelevare la barca, raggiungiamo gli altri sulla punta nord della baia di Vromolito e proseguiamo. Nessun segnale dovrà esser fatto dalla barca, eventualmente solo da terra con la torcia per individuare al buio la posizione di attracco» «Sta bene» concluse Italo, «alle 21 a Santa Marina»
Da Piazza Platano, in direzione di Santa Marina, scendono due strade che poco prima del porto si congiungono e formano una Y capovolta e alla cui base sta la banchina del lungomare dove ormeggiano piroscafi di piccola stazza. A circa cento metri sulla destra, è il fabbricato della Regia Dogana e, oltre, una piccola spiaggia, alcune officine e falegnamerie per la costruzione di barche. Al termine della spiaggetta, un piccolo portile, e una breve strada che conduce a due case e alla rocca di Punta Marina dove i tedeschi avevano piazzato un osservatorio armato per sorvegliare l’ingresso della baia.
La prima operazione, quella di trasferimento a Santa Marina, era riuscita bene nel senso che non feci incontri pericolosi; ora bisognava passare dietro la Dogana su una strada breve ma dove c’erano un “cate” e una osteria. Le luci erano accese in entrambi i locali ma il fumo non permetteva di vedere se c’erano clienti e quanti. Questo aspetto aveva una certa importanza posto che l’unico pericolo in quel momento era rappresentato dall’incontrare qualcuno che uscisse.
Intanto la pioggia, quasi a comando, aveva iniziato il suo ruolo ma non con violenza temporalesca e i tuoni erano ancora a distanza; dalla parte opposta, cioè in direzione di Alinda, si vedeva la luce del “caffè” dove bazzicavano i “commercianti” di barche. Mi trovavo fra due muri, quello di una casa e quello della sua recinzione, dietro di me un mucchio di immondizie che, a parte l’olezzo, era un buon nascondiglio per non esser visto da chi entrasse o uscisse dal cafè o da qualche tedesco che rientrasse alla postazione. Qualcuno stava arrivando alla mia sinistra, trattenni il respiro senza guardare, ma quando passò davanti alla mia “postazione” mi accorsi che era Italo. Lo chiamai ed entrò anche lui fra i due muri.
«Bisogna passare senza esser notati» dissi, «perché lì dentro potrebbe esserci anche qualche tedesco ». «Andiamo» fu la risposta.
Uscimmo dal nascondiglio e, appena davanti ai due locali, ci chinammo per passare sotto le finestre illuminate e in due secondi fummo dall’altra parte, in zona di “sicurezza”, fra la sentinella della Dogana e i militari della postazione di Punta Marina. La pioggia intanto si era fatta più intensa e il tuono aveva finalmente portato il temporale sull’isola. Non saprei dire quanta parte abbia giocato la fortuna e quanta il calcolo, sta di fatto che l’appuntamento con la natura in quel suo tipo di manifestazione, fu perfetto.
Dovevamo ora dare inizio alla seconda e più pericolosa fase del piano, prendere la barca. Ma di questo pericolo non ne eravamo coscienti più di tanto. Ciò che stavamo facendo si doveva fare, era un atto quasi dovuto nel rispetto di una logica che pur traendo origine da una scelta di fondo, appariva come la prosecuzione naturale di ciò che era accaduto nell’isola. E tutto era tanto scontato e normale per me che non ebbi alcuna esitazione o ripensamento; era, insomma, come alzarsi o andare a letto. La differenza era che qui occorreva coraggio: ecco, possiamo dire che si è trattato di un’azione coraggiosa compiuta con estrema tranquillità, quasi con leggerezza, ma non con incoscienza; la valutazione del pericolo era stata fatta e anche attentamente. Vero è che pericoloso era anche vivere con un mandato di cattura sulla testa, con la prospettiva del tribunale militare e di una condanna a morte, per cui fra le due “possibilità” ho scelto quella meno “possibile”. Italo ed io ci trovammo scalzi sulla sabbia della piccola spiaggetta a circa 50 metri dalla Dogana, sotto un’acqua mai vista a Lero tutta in una volta; ci siamo guardati e, fatto il segno della Croce, siamo entrati in acqua con molta delicatezza camminando sino a dove non si toccava più. Poi, nuotando a rana ma con il corpo in posizione eretta per circa quindici lunghi minuti, abbiamo raggiunto la barca. Prima di metter mano al moschettone che la teneva legata alla catena, abbiamo guardato verso la Dogana.
In quel momento forse nemmeno un cane poliziotto avrebbe avvertito la nostra presenza e tanto meno, quindi, lo poteva la sentinella germanica che, sotto la volta del portone della Regia Dogana, stava fumando una sigaretta. Mai tanto propizia e gradita quella violazione del regolamento militare che vieta di fumare durante un servizio di guardia, e mai tanto utile è stata una sigaretta; essa era infatti l’unico mezzo che ci collegava e ci informava, su quell’individuo del quale avevamo bisogno di conoscere i movimenti. Sganciai la catena e la lasciai cadere in acqua, ma lo sguardo era fisso su quella sigaretta. Sarà una cicca o avrà appena cominciato a fumare? Era la domanda che mi assillava in quel momento. Il rumore dell’acqua piovana sull’acqua del mare, non poteva coprire i rumori che avremmo prodotto salendo in barca; occorreva spingere la barca lontano e possibilmente fuori dalla baia.     ---  ............ Segue alla seconda parte ...............

Debbo ringraziare per questi diari, oltre che Angelo Martelli, il fratello Mario nato nel 1944 a Rodi, come si direbbe in cattività, incontrato in circostanze fortunose e che mi ha parlato della storia.  Walter Amici

APPENDICE - DIETRO IL FILO SPINATO (in Egitto)
GLI ACCENDINI
Alcuni nostri compagni di campo, una trentina in tutto, andavano giornalmente, opportunamente accompagnati a lavorare nel vicino campo d’aviazione militare di Abu Kir. Dopo qualche mese alcuni di loro erano già in grado di trasformare rottami di eliche di aerei (erano in duro alluminio) in accendisigarette anche molto belli.
Alla sera quando rientravano nel campo passavano questi oggetti a noi camionisti affinché li vendessimo in Alessandria, la mattina quando si andava a caricare i viveri da distribuire nei vari campi. Anche questa attività teneva occupati e portava qualche soldino nelle tasche di tanti che non sapevano se in patria avrebbero trovato subito lavoro.
IL POKER
Noi camionisti improvvisati, così come tutti quelli che lavoravano nelle cucine, nei magazzini o nei cantieri che ogni tanto si aprivano nel campo per fare un pezzo di strada o un tratto di fognatura, eravamo pagati con tariffe diverse a seconda del genere di lavoro; gli autisti percepivano sette pound egiziani equivalenti a sette sterline o a settemila lire italiane per cui si era i più “ricchi”.
Gli ufficiali, specie i più giovani, ci corteggiavano per invitarci nelle loro tende dove si giocava a poker e così spennavano i polli. Per mia fortuna non conoscevo quel gioco di carte e mi salvai dallo spennamento.
IL GHIBLI
Un altro episodio accadde nell’aprile del 1945 con il Ghibli; come si sa il Ghibli é un vento africano che sposta intere dune di sabbia; la traduzione del termine “Ghibli” dall’arabo, significa “Meridionale” e spira infatti da Sud-Sud Ovest o da Sud-Est, e, specie in primavera e in autunno, spira anche dalle zone di alta pressione dell’Africa mediterranea. E’ un vento secco e caldo che porta a Nord la sabbia del Sahara. Furono tre giorni di disastri; le cucine e le mense perdettero o tetti che erano costituiti da lamieroni ondulati che volarono via come fossero fogli di carta; le tende, moltissime, si adagiarono sugli occupanti e non volarono via perché ben ancorate al terreno, altre i cui ormeggi cedettero, volarono anch’esse sulle dune fuori dai reticolati del campo. Vi furono cinque morti fra gli italiani; il vento li aveva spinti contro i reticolati della recinzione del campo e stesi come panni al sole. Noi camionisti ricevemmo l’ordine di metterci con i mezzi negli incroci delle strade del campo con i fari accesi per illuminare i percorsi che molti seguivano per cercare di ricuperare le poche cose che potevano raggiungere.
Si mangiò a secco ma con enormi difficoltà; dentro la cabina del camion con tutto chiuso si tentava di bere del latte dalla scatoletta praticando un buco col punteruolo che era nel coltello militare, e portare subito la scatoletta alla bocca, ma c’era già la sabbia.
Furono tre giorni d’ inferno durante i quali furono pochi coloro che riuscirono a fare un sonno e mangiare qualcosa.

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