MEMORIE DI UN RIBELLE

Il diario di Adelio e Fausta Fiore

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ISTITUTO PER LA STORIA
DELL’UMBRIA CONTEMPORANEA
EDITORIALE UMBRA
 

... Giustizia partigiana
…. La sede del battaglione Mameli si fissò a Mosciano nel territorio di Nocera Umbra ma assai vicino a quello folignate. Il comandante di brigata (Cantarelli), che non aveva ceduto alle sofferenze prodotte dalla menomazione alla mandibola, e aveva riacquistato il solito sguardo intenso e lampeggiante, vi passò ai primi di marzo riprendendo il suo compito. Egli fu successivamente anche comandante ferito e decorato
di un plotone del 22° reggimento di fanteria Cremona (in cui molti partigiani del centro Italia confluiscono per rimpiazzare i quadri). Il comandante di brigata era stato chiamato a Roccafranca di Verchiano (m. 830 alt.), sede temporanea del comando, per giudicare una spia tenuta prigioniera. Chiese all’amico d’accompagnarlo. Da Mosciano (m. 780 alt.) che si trova nei pressi di monte Pennino (m. 1571 alt.), per raggiungere Roccafranca, che è a ridosso del monte Cavallo (m. 1485 alt.), Antero e Adelio impiegarono una giornata di cammino, dovettero portarsi in direzione sud-est di Mosciano, in un cuneo del territorio folignate incastrato fra i comuni di Sellano (Umbria) e di Serravalle del Chienti e di Visso (Marche). Il comando di brigata occupava in quei giorni la casa parrocchiale di Roccafranca incorporata al castello attualmente purtroppo abbandonato e fatiscente, come la chiesa dedicata a Maria Assunta. Il prigioniero che si doveva processare era un trentenne non bene identificato, accusato d’aver fatto ammazzare tre partigiani con una spiata. Il processo si svolse con le testimonianze rese individualmente da uomini e donne del posto. Giudicato da tutti colpevole di quei misfatti, nessuna voce essendo discorde e non sapendosi scagionare, fu condannato alla fucilazione dal tribunale partigiano, che non ebbe mai più da affrontare una simile dolorosa situazione.
Nel senso della liberazione invece fu nello stesso giorno decisa la sorte di tre soldati tedeschi prigionieri da qualche giorno e adibiti alla custodia dei cavalli. Appena videro il comandante gli s’accostarono baciandogli le mani e piangendo. Ed egli si espresse in favore della liberazione, anche commosso per la loro età e presunta innocuità. Ma purtroppo tornarono ben presto con i loro commilitoni e uccisero quattro partigiani in uno spietato attacco alla Romita nei pressi di Forcella (monte Cavallo), zona dove operava il battaglione Angelo Morlupo………
Gli alleati sempre molto sospettosamente (specie gli Inglesi) cominciarono a prendere in considerazione l’attività delle "bande" e stabilirono con loro i primi contatti nel mese di febbraio 1944 iniziando i lanci, in vero rari e magri, di armi e munizioni dagli aerei che molte volte fallivano l’obiettivo lasciando i partigiani a bocca asciutta. Adelio ne ricorda uno solo ben riuscito a Visso, che gli permise di possedere uno sten, simile a un mitra leggero adattissimo per la guerriglia in montagna. I nazifascisti di contro nella primavera di quell’anno misero mano ad una vasta manovra di feroci rastrellamenti. Bisognava fiaccare la Resistenza, incutendo terrore anche nelle popolazioni. Appena un mese dopo in aprile, Cristo, il cielo, le montagne, la terra piansero anzi urlarono... con gli uomini e gli animali... per la strage di Collecroce (Mosciano)... Giunta la domenica di Pasqua del 9 aprile 1944 nella chiesina di Mosciano dedicata a San Giovanni Apostolo celebrò il rito religioso il parroco Alfonso Guerra, un tipo gioviale sui trentacinque anni. Alcuni giovani del battaglione Mameli dormivano al piano superiore della casa parrocchiale (oggi completamente abbandonata) attaccata alla chiesa, e ordinariamente si giovavano per sfamarsi dell’aiuto prezioso e generoso della sorella del parroco. Don Alfonso infuse molto coraggio nell’animo dei combattenti e della popolazione, che si distingueva in modo eccezionale per l’ospitalità generosissima, invitando tutti a partecipare al grande banchetto pasquale preparato all’aperto con dovute precauzioni e massima cura, rallegrato dalla splendida giornata di sole. Una delle due mense fu apparecchiata proprio nell’orticello fra la chiesa e il lavatoio ampio e grazioso del paese;
l’altra alle Serre. Le Serre che stanno dirimpetto a Mosciano, a breve distanza in linea d’aria al di là della profonda valle che separa i due paesi, erano una vedetta utilissima per scambiarsi rapide segnalazioni fra i vari nuclei e abbracciare orgogliosamente con lo sguardo l’intero anello dei monti circostanti; partendo dal grugno aggressivo del monte Pennino (m. 1571 alt.) sino a valle verso i paesini di Sorifa e Stravignano-Bagni sormontati dall’immagine suggestiva di Nocera Umbra potente baluardo con la maestosa cattedrale, per chiudere il circuito con la vista del monte Subasio (m. 1290 alt.). Su questo paradiso di profonda umanità e gentilezza si scatenò la "bufera infernale". I fascisti avevano in Nocera Umbra un caposaldo particolarmente presidiato, dove la "Garibaldi" aveva avuto la peggio, come s’è detto. Che essi potessero giungere per la via dei monti ora descritta era da escludere, poiché oltre alle scontate difficoltà orografiche, bisognava fare un cammino troppo lento e pieno d’insidie per la boscaglia con la probabilità di essere segnalati da qualche staffetta. L’unica possibile strada era quella a partire dal territorio folignate attraverso Colfiorito-Annifo, che conduceva diritto a Collecroce (m. 872 alt.) per un tratto ripidissimo e stretto. Poco più avanti sulla piazzetta di Collecroce, isolato, spoglio, severo, non può passare inosservato un altro monumento: "Aprile 1944 -Aprile 1988. Ai caduti per la Liberazione", E i nomi di ventitre martiri
Contemporaneamente alle operazioni di rastrellamento furono previste da parte delle autorità tedesche, in accordo con il prefetto Rocchi, le trattative di "resa" che s’andavano svolgendo con incontri densi di pesanti avvertimenti e diplomatiche intimidazioni. Insomma i tedeschi volevano in tutte le maniere avere le spalle libere in previsione dell’ avvicinarsi del fronte. Anche presso il battaglione Mameli giunsero due emissari della Guardia nazionale repubblicana (fascisti della Repubblica di Salò detti comunemente "repubblichini") a chiedere un colloquio per trattare la resa con garanzia di piena incolumità per i combattenti che dovevano ovviamente consegnare le armi. La mossa forse nascondeva anche qualche piano mostruoso, se si considera che i partigiani avrebbero dovuto arrendersi con la propria banda nella fabbrica statale di Scanzano (Vescia) pronta a riceverne mille o duemila. Decisero di andare al colloquio usando l’astuzia: promettere la resa, chiedendo una "tregua" giustificata dal fatto di dover informare del disegno in atto tutti i compagni. In tal modo avrebbero ottenuto del tempo per effettuare il trasferimento programmato e sempre più urgente. Ma avrebbero potuto carpire anche qualche notizia circa i rastrellamenti. Insomma tra nemici incontrandosi avrebbero giocato tutti di furberia. Scesero da Mosciano, come sempre a piedi, il bravo e prestante comandante Giacinto Cecconelli e il commissario politico del Mameli giungendo nei dintorni di Nocera Umbra, a valle di Stravignano-Bagni, in un luogo pianeggiante (m. 400 alt.) sovrastato da una collinetta col suo pugno di case chiamato Le Cese. Riconobbero il vecchio mulino da olio e da grano che era stato loro indicato per l’incontro. Per timore di qualche imboscata erano stati scortati da due ali di compagni che avanzavano nascondendosi tra gli alberi del bosco che costeggiava la strada. In attesa c’era l’intermediario un trentacinquenne, e subito arrivarono con una macchina militare due ufficiali della Guardia nazionale repubblicana vestiti in grigioverde, un capitano e un tenente dall’aspetto molto distinto. Era il pomeriggio del lunedì o martedì dopo Pasqua. L’ anziano proprietario del mulino introdusse gli ospiti in una sala raccomandando fervorosamente "tranquillità e pace". Gli ufficiali con maniere e parole bellissime fecero la loro richiesta di resa: — Desideriamo di por fine a una guerra fratricida. Il nostro discorso non è di marca fascista. Siamo in questa divisa perché solo così potevamo evitare il campo di concentramento. A loro volta i partigiani fecero la loro richiesta di tregua. E furono avvertiti che se la resa non fosse avvenuta sarebbero state impiegate forze imponenti per rastrellamenti ad ampio raggio e di lunga durata. Si era dunque in stato d’allarme sul cocuzzolo di Collecroce. Gli uomini del battaglione Mameli avevano disposto sin dalla fine di marzo la mitragliatrice con le sentinelle in un ottimo punto d’avvistamento (dove ora si trova il cippo funebre) per tenere d’occhio tutto il piano d’ Annifo che è mediano fra quello di Colfiorito e quello di Collecroce. Da laggiù poteva arrivare il nemico, da lontano, a piedi non essendoci allora strade rotabili, e allo scoperto. Questi erano elementi a tutto vantaggio dei partigiani. L’ allarme doveva essere dato a colpi di fucile.

All’alba del 17 aprile si udirono "tre colpi di moschetto" e "subito la raffica delle mitragliatrici" (nemiche), racconta don Guerra. E Adelio nota: — Dice "subito". Perciò qualcosa non aveva funzionato. Qual era stato l’errore? l’imprevisto? l’inganno? Giunsero disperati alcuni partigiani gridando: — I tedeschi sono in corsa contro di noi ...le sentinelle dormivano. Adelio corse incontro ai compagni con i calzoni in mano. A distanza di tanti anni è ancora accorato e non riesce a farsi una ragione dell’accaduto: — Avevo accompagnato le sentinelle nella postazione, ero sceso nella fossa con loro, avevamo puntato insieme la mitragliatrice e avevo dato tutte le istruzioni necessarie raccomandando di non dormire. Infatti rompendo i tedeschi il punto di prima difesa, non c’era più possibilità di fermarli. Mentre invece bastava una mezz’ora di fuoco per ritardare l’attacco nemico, e avremmo potuto difenderci dando battaglia o trovando scampo sul monte Pennino nostro alleato. Con tutta la sua foga Fausta gli risponde che sicuramente s’era consumata all’alba del 17 aprile su quell’avamposto una tragedia, non perché le sentinelle dormissero; o per un agguato teso nel momento in cui gli uccelli ed altri animali del bosco rompono il silenzio con i loro fruscii o per un banco di nebbia persistente che può coprire la vista o per qualsiasi altra macchinazione infernale, le sentinelle sarebbero state assalite e disarmate, ma non dormivano.

Dal 17 aprile e per tre settimane: forze tedesche e fasciste, una forza di circa 1000 uomini, investono una vasta area compresa tra Colfiorito, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, sbandando completamente la IV Brigata Garibaldi di Foligno. Tra il 17 e il 23 aprile nelle frazioni di Colle Croce, Mosciano, Serre e Sorifa unità SS tedesche massacrano circa 24 civili. 120 persone, rastrellate nel territorio comunale di Nocera Umbra, vengono deportate nel campo di concentramento di Cinecittà a Roma transito per la Germania.

"Sganciamento" e "scioglimento" del battaglione Mameli.
Il battaglione prese allora l’immediata decisione di dileguarsi velocissimamente. C’ era a fianco della chiesetta di Mosciano un burrone che porta quasi a picco dentro la gola strettissima, in cui si precipitarono gli scampati al massacro per risalire poi il fianco anch’esso ripido del monte opposto, cercando d’uscire dalla traiettoria dei probabili tiri nemici. Sparirono così, costeggiando il monte boscoso e scendendo sino a Giove (m. 557 alt.) dove si riunirono. Si contarono: erano una trentina. Aspettarono che facesse buio e quindi raggiunsero il paese di Valtopina. Bisognò attraversare prima il fiume Topino su una passerella e i binari della linea ferroviaria Roma-Ancona e la statale Flaminia frequentata dai tedeschi e poi nascondersi di gran corsa nuovamente nel bosco più vicino. Si erano ancor più assottigliati lungo quest’ultimo percorso, erano rimasti una ventina. Presero gli ultimi accordi prima di lasciarsi. Bisognava uscire dalle maglie del terzo rastrellamento il più terribile. Sciogliere il battaglione, sparpagliarsi, sparire. Si salvi chi può e come può. In quei paraggi scoprirono una adattissima grotta asciutta e ben chiusa anche all’esterno, dove nascosero le armi (che ritrovarono intatte). Disperata era la loro situazione di renitenti alla leva, e di persone sin troppo conosciute, nessuno dei quali poteva far ritorno alle proprie abitazioni senza correre gravissimi pericoli. Neppure potevano avvicinarsi ai paesi perché la gente, informata delle stragi, appena avvistava i partigiani si metteva a urlare con le mani nei capelli, cacciandoli immediatamente. Tutta la popolazione sapeva cosa toccava a chi li ospitava o li aiutava in qualche modo. Le spiate erano facili e all’ordine del giorno. Al più veniva loro lanciato un pezzo di pane, proprio come ai lebbrosi di vecchia memoria. I più giovani e i meno esperti di quei luoghi furono consigliati e (in)stradati nelle più diverse direzioni; partito anche l’ultimo uomo, scapparono i quattro fra i maggiori responsabili, amici nella buona e cattiva ventura, Cantarelli, Cucciarelli, Franceschini, Fiore. Era una sera chiara quando si misero in cammino affidandosi al sentiero in salita che più s’addentrava negli anfratti scoscesi e profondi del sacro monte occupato dai nazifascisti sull’uno e sull’altro fianco. Fu necessario chiedere indicazioni per salire ad Armenzano, da cui bisognava passare per scendere poi in Assisi. La salvezza insomma questa volta poteva venire soltanto dal mistico monte Subasio (m. 1290 alt.). E fortunatamente trovarono una casa abitata dove attinsero le informazioni per continuare il viaggio. Attraversando i verdi labirinti disabitati di boschi di querce, castagni e cedui, all’altitudine di circa seicento metri s’imbatterono affamati in due o tre case isolate (località chiamata il Falcione) dove tutti dormivano, ché era passata la mezzanotte. Sperando che lassù non fosse giunta la notizia delle recenti stragi, bussarono a una porta al pianterreno. S’affacciò una donna dal piano superiore che disse:
— Non possiamo aprire. Siamo donne sole.
Erano della famiglia Carpisassi, originaria di Armenzano, probabilmente sfollate nella loro casa di campagna isolata nell’universo verde del monte. Gli uomini si sa che in quei frangenti non si trovavano mai nelle abitazioni, anzi c’erano ma invisibili. Fausto, uno dei quattro, ovviamente fingendo, minacciò di far saltare la casa con un tubo di gelatina. Si sentirono allora le donne gridare: — No, no, no!
E tirato il paletto, dischiusero la porta di casa. In fretta e furia vennero fatti accomodare e furono serviti di ogni ben di Dio da sette distinte signore, affaccendate intorno a loro: prosciutto, salame, pecorino, pane di casa, e una grandissima frittata cotta alla fiamma dell’ampio focolare. Con tanti ringraziamenti scapparono, facendosi accompagnare da un malcapitato montanaro. Al seminario regionale di Assisi furono accolti da un amico monsignore, Dino Tomassini, che poi sarebbe diventato vescovo di Assisi e Nocera Umbra. Si fermarono giusto per dormire, 24 ore. In fretta un boccone e via come il vento scappando da una porta segreta, poiché infuriavano i rastrellamenti proprio nei conventi della città. A Spello si rifocillarono a casa del compagno comunista Persiano Ridolfi che, più fortunato di loro, si era già messo al riparo. …..

Ernesto Melis è capitano dei bersaglieri, ferito in Libia e sorpreso dall’armistizio mentre era istruttore all’Accademia di Modena. Di origine sarda, militare di carriera, apparteneva ad una famiglia di servitori dello stato; probabilmente monarchico, voleva tener fede al giuramento prestato. Raggiunge, con due colleghi, suo padre a Spoleto (il direttore della prigione della Rocca) e assume senza esitazione, come per un piano preordinato, l’iniziativa del reclutamento e del reperimento delle armi. Ma i partigiani umbri non sono soli, aggregano soldati ed ufficiali italiani sbandati, raccolgono militari britannici e sudafricani fuggiti dai campi di prigionia (Colfiorito), detenuti antifascisti slavi ed italiani. Solo dalla Rocca di Spoleto ne evadono (con il favore del direttore) circa un centinaio. Prende corpo la brigata sopra la Val Nerina e i monti Sibillini. E. Melis, si trasferisce con altri partigiani a Gavelli, sulla Nera. In questo periodo Melis subisce i ricatti dei fascisti, che , con bandi affissi nei paesi della montagna, lo avvertono della rappresaglia contro i familiari (il padre non era fuggito), se continuerà nelle sue imprese partigiane. Fra gli evasi c'è il tenente slavo Dobrich Milan, che dapprima si unisce alla formazione del capitano Melis per poi staccarsi per andare a fondare, con l'aiuto della famiglia Del Sero, alcuni gruppi partigiani denominati "Banda dei Monti Martani" Secondo una tattica geniale le forze, organizzate a squadre, operano su vaste aree, con grande mobilità e autonomia d’iniziativa, richiamando e disperdendo così ingenti reparti fascisti e della Gestapo.
Nota
Dopo il 22 settembre 1943, data dell’evasione di massa da Colfiorito di circa 1200 dei 1500 internati montenegrini allora presenti nel campo, molti di questi andarono ad ingrossare le file partigiane che si stavano formando fra i monti dell’Appennino Umbro Marchigiano.  

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