Il diario di Ottone Costantini

Dalla prefazione di Francesco Cataluccio 

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Di Ottone Costantini (1889-1975) l’archivio di famiglia conserva, tra il materiale vario della sua corrispondenza, un folto gruppo di lettere inviate a persone a lui care nel periodo (luglio 1915-novembre 1918) del suo servizio. Sempre in riferimento alla grande guerra vi si trovano un breve saggio rievocativo intitolato “Dalla Bainsizza a Caporetto” che egli scrisse verosimilmente in una occasione celebrativa, ed un certo numero di poesie, riunite sotto il titolo “Ricordi di guerra. 1915-1918”, in cui, già avanti negli anni, ritrovava nella memoria momenti della drammatica avventura, stati d’animo d’allora, aspetti umani e atmosfere ambientali dell’esperienza compiuta. Questo volume contiene soltanto il pacchetto delle lettere, integrate, allo scopo di chiarirne meglio i temi e i toni, dalla voce dei lontani corrispondenti e destinatari, in primo luogo Sandra Andenna, sua collega d’ufficio, divenuta alla mobilitazione sua “madrina di guerra”, poi (1917) fidanzata e che sposerà a fine guerra (settembre 1921).

Per quanto fosse frettoloso e parziale, l’esame del materiale mi diede subito l’impressione d’avere davanti una fonte documentaria ed uno stile epistolare di valida sostanza, sì che fui indotto a pregare il mio amichevole padrone di casa che mi desse modo in altra occasione di riprendere un contatto meno sommario con la corrispondenza. Sorprendevano in esse l’immediatezza di tono, il gusto del particolare, la freschezza dei chiaroscuri, la costante vicinanza dell’orrore della guerra, mai però calcato, e della nostalgia del suo lontano mondo familiare e cittadino. La condizioni di vita, rischi e rancori, slanci e avvilimenti, urli di ribellione e sussurri di speranza, ombrose viltà e luci d’altruismo, sconforti e rimpianti, la gamma cioè di reazioni dei combattenti ai pericoli e alle sofferenze dei loro giorni nella guerra, avevano eco autentica e sensibile, fedele testimonianza nelle lettere di Ottone.

Nato a Osimo, figlio insieme ad altri sette di genitori di piccola borghesia, la mobilitazione lo trovò trasferito a Roma, con un impiego – “contabile” precisa il suo foglio matricolare – alla A.E.G. Nell’ambiente burocratico-sociale della capitale aveva assorbito un certo culto dell’impegno civile inclinante ad un linguaggio un po’ acceso sui valori patriottici e respirato con soddisfazione l’atmosfera interventista di livello d’annunziano. A dado tratto, però, la sua partecipazione alla prova collettiva procede con cauta coerenza, con dignitosi passi, senza veri cedimenti a delusioni di comodo ed opportunismi di calcolo personale, sempre pronto a tonificarsi con l’oculata interpretazione del complesso ingranaggio che pare voler stritolarlo. Non che, come suole accadere nell’età ch’era allora la sua, non reagisca d’istinto ai risvolti lieti e a quelli di segno avverso e che a volte non abbia facili canti di vittoria o esplosioni di acerbe paure del peggio, ma altrettanto rapidamente imbocca la via per un più pacato sguardo su vicende e persone, per un realistico aggiustamento d’impressioni e valutazioni.

Una chiara prova a riguardo è fornita dalle lettere del periodo di Caporetto, quando intorno tutto sembrava franare e per ogni dove si fronteggiavano accuse di codardia e di tradimento, d’incapacità e di premeditato sabotaggio: egli si sposta in fretta dall’avvilito stordimento all’individuazione di motivi di fiducia circa il tamponamento della falla militare, dal collasso psicologico alla valorizzazione dei minimi segni di reazione positiva nei reparti e nel Paese, punta i piedi, condanna il disfattismo, grida il proposito di compiere interamente la sua parte per l’avvio del riscatto nazionale. Allorché, a crisi militare ormai in via di superamento, alcune missive di Sandra gli appaiono troppo ottimiste sugli ulteriori sviluppi del conflitto e troppo esuberanti di sdegno morale per la situazione interna italiana turbata da imboscati accaparratori e speculatori d’ogni veste, insiste (lettere del 23 gennaio e 6 giugno 1918 in particolare) a ricordarle la necessità di “un po’ di moderazione, un po’ di positività”, di non drammatizzare in modo eccessivo avvenimenti e comportamenti, a non giudicare a netti chiaroscuri. …. Caporetto per altro rappresentò una sorta di spartiacque nella maturazione dell’uomo Ottone. Dall’epistolario appare indubbio un balzo nel suo modo di sentire la vita, di concepire la scala dei valori esistenziali. La già citata lettera del 23 gennaio 1918 ricorda a Sandra che il suo antico concetto della vita rimane immutato: “concetto un po’ idealistico e poetico
(i miei amici mi chiamavano il poeta, non so se a torto o a ragione) e un po’ materialistico e crudo, come il sogno d’una fantasia percossa e smussata da una lunga esperienza”.

- Ò innanzi a me un piccolo quadruccio di paesaggio invernale! In un velario scialbo di bruma radi alberelli intristiti e grondanti di pioggia. Anche le belle voci della natura festosa dei giorni di sole tacciono, quasi soffocate dallo scroscio interminabile delle acque. È un piccolo spettacolo malinconico e quieto che sto osservando attraverso il finestrino della mia sconnessa baracca, volando col pensiero a cose meno tristi e meno fredde del paesaggio intorno, certo. Un contrasto nuovo di sentimenti, una dissonanza meravigliosa tra l’espressione e l’impressione che farebbe credere sorgere la letizia dalla tristezza delle cose. È un ridestarsi di cari ricordi d’infanzia, un risorgere di momenti indimenticabili del mondo, tanto diverso e buono, della fanciullezza. Non so perché con più insistenza mi si riaffaccia il ricordo delle or lontanissime visite al cimitero, nel giorno dei morti, quando ancor bambino seguivo il babbo per la passeggiata tanto nuova fuori città, con un freddo così intenso. E la mia meraviglia di allora vedere tanta gente, in giornate così oscure. E quell’andare movimentato e pur solenne come un corteo, quell’insolito bisbigliare sommesso... Forse in quei lontani giorni si formava nella meditazione sui poveri tumuli nascosti e sulle pompose tombe il mio carattere muto. O quando più tardi, nell’età che ai ragazzi è nutrimento il sollazzo chiassoso,  il mio animo cercava le rive solitarie e oscure del [fiume] per sbrigliarsi in sogni infiniti, in speculazioni sublimi. Ricordo le interminabili ore avvolto e confuso nell’ombra lunare, coll’immobilità contemplativa di un vecchio filosofo, preso in una visione di luce nuova. E fuggivo spesso da quei luoghi deserti, impaurito dal mistero dell’infinito, dell’universo, del creato, dell’inafferrabilità del tempo, dello spazio. Dissolvevo l’universo nel caos per rintracciarne le origini e lo spettacolo mi spaventava!... Più tardi ancora il mio pensiero sviscerava con affetto temi più afferrabili e si dilettava portare la vita in forme nuove di progresso e di giustizia che accomunavano l’antico col nuovo. E mai Licurgo o Pericle o Napoleone osarono più di me!...

Gli impulsi di acre sfiducia e di amara revisione della propria concezione esistenziale, che lo agitarono in quella fase dell’esperienza di guerra, non oltrepassarono però i confini che gli dettava il suo carattere incline all’equilibrio reattivo e all’autocontrollo. Sopraggiunsero poi le “ore indimenticabili” che, a partire dalla vittoriosa battaglia difensiva del giugno sulla linea del Piave – “ti sembra verosimile che con questi leoni fosse possibile il caso Caporetto?”, la commenta nella lettera a Sandra del 25 giugno, facendo eco velatamente alla polemica ancor viva sulle responsabilità di quanto avvenuto nell’ottobre precedente. Mentre “attende con fiducia e orgoglio l’epilogo delle meravigliose notizie che giungono giornalmente”, trova la via del conforto per Sandra, che gli ha comunicato, assai depressa, la morte della propria sorella minore per attacco della micidiale influenza “spagnola” –

In una riflessione riassume la lezione umana da lui tratta dall’avventura bellica che l’ha coinvolto: “
In quattro anni di questa vita tormentosa di guerra mi sono trovato in condizioni così tragiche ed ò (ho) attraversato periodi così critici, che avevo allora la convinzione di non poter sopportare. Eppure tutto passò e oggi appena ne resta un pallido ricordo. La vita normale non ha nulla di diverso da quella di guerra, all’infuori del ritmo un po’ più lento. Si attraversano momenti tormentosi di apprensione e ci sembra che tutto il mondo debba crollare, poi il sereno ritorna improvviso e più splendente di prima. Noi tutti - le scrive - uomini di fede, abbiamo fatto voto di sacrificio della nostra vita, per la causa che combattiamo, ma non dimenticare soprattutto che la causa è l’umanità, che il nemico è il militarismo (questo mostruoso complice dei più bassi istinti di cupidigia e di ambizione) Ottone rifiniva così, in grande dignità, il suo io umano e civile che era maturato, tra slanci e sconforti, nel corso del conflitto.

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