La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

97

ISONZO 1917

 Mario Silvestri

«Sfido qualsiasi patriota a venire a passare, come semplice soldato, solamente mille notti in prima linea, senza odiare la patria ». (dialogo fra due soldati francesi, un giorno di primavera del 1917).

Prefazione
Non sono uno storico e non ho inteso scrivere di storia, ma più modestamente un libro di rievocazione. Le fonti utilizzate nel presente volume sono quindi tutte accessibili e chiunque può, con una certa fatica, rintracciarle nelle biblioteche o sul mercato librario. Delle fonti disponibili, poi, ho utilizzato solo una parte, poiché, nel breve intervallo di cinquemila ore lavorative, non sarei riuscito a mettere a confronto ed intrecciare tutte le versioni, spesso controverse, fornite su molte circostanze e su molti episodi, dalle pubblicazioni dedicate, nel corso dei passati cinquant'anni, alla prima guerra mondiale, alla parte che vi ebbe l'Italia e alla porzione, di questa parte, che riguarda la primavera, l'estate e l'autunno del 1917. Debbo aggiungere che si tratta di una narrazione fatta da un punto di vista strettamente italiano, utilizzando in grandissima prevalenza materiale italiano, mentre le fonti straniere, in particolare quelle austriache e tedesche, sono - salvo poche eccezioni - d'accatto o di seconda mano. Per chi è curioso di dati statistici dirò che, oltre a numerosi periodici d'epoca, quotidiani o mensili, ho tratto informazioni utili da circa cinquecento libri che si occupano in varia misura delle vicende che vanno dal maggio all'ottobre del 1917. Quale interesse possono avere avvenimenti apparentemente cosi lontani per l'Italiano odierno? Quale interesse può mai concentrarsi in un periodo tanto ristretto (6 mesi) e in uno spazio così limitato, le rive dell'Isonzo da Plezzo alle foci del Timavo? Il semestre descritto è certo un breve spicchio di storia, ma è altrettanto vero che fu un momento di importanza decisiva, per lo meno per il mondo di oggi, anche se forse non sarà più così fra un secolo. Basta ricordare che nel corso di quei mesi prese forza in Russia un processo rivoluzionario che, a sentire i dirigenti sovietici, sarebbe tuttora in corso. Basta ricordare che l'entrata in guerra degli Stati Uniti d'America a fianco dell'Intesa significò il primo affermarsi di un grande paese, che da allora continuò a partecipare in misura crescente, fino a divenire oggi preponderante, al mantenimento dell'equilibrio di potenza esistente nel mondo. Senza gli Stati Uniti è difficile credere che le nazioni dissanguate e avvilite del vecchio continente, dilaniate dopo altri vent'anni da una seconda guerra fratricida, sarebbero in grado di rappresentare da sole i valori fondamentali della civiltà occidentale. Ho fatto del mio meglio, affinché la narrazione fosse obbiettiva e l'ho seminata, per questo, di numerose citazioni. Riportando brani di altri, è agevole far dire al citato tutto o il contrario di tutto: assicuro tuttavia che non ho scelto le citazioni con le pinze del partito preso, dell'opinione preconcetta - che d'altronde non avevo -, ma col criterio, sempre necessariamente; soggettivo, ma ispirato da onestà di intenti, di far rivivere le passioni e I sentimenti da cui i protagonisti erano mossi. Ciò sia una spiegazione per le molte contraddizioni che la lettura sembra mettere in evidenza. Era Cadorna un buon condottiero o un cattivo condottiero? Quale era la personalità del generale Capello? Quali le responsabilità di Badoglio e di  Cavaciocchi nella rotta? Quale l'animo dei soldati? Eran dunque capaci al tempo stesso di eroismo e di viltà? I fatti son quelli che sono e possono rispondere entro certi limiti a cosi impertinenti domande. Per il resto un giudizio assoluto, che prescinda volutamente da prove indiziarie ed eviti con cura ipotesi di lavoro, è ancora impedito dalla mancanza di informazioni; e sarebbe comunque soggetto alla discrezionalità del giudice. Subito dopo la fine della prima guerra mondiale, i fatti narrati, di cui freschissimi erano il ricordo e le sofferenze ad essi collegate, furono oggetto di accanite polemiche. Sorse Cosi, e si impose all'attenzione del pubblico, una vasta letteratura memorialistica e saggistica con un sotto fondo nettamente passionale. Ne furono autori semplici ufficialetti di complemento e generali che avevano ricoperto posti di altissima responsabilità; le diedero esca pubblicazioni ufficiali o brevi articoli di giornali: vi intervennero letterati incalliti, che impugnarono nuovamente la penna, non appena deposta la divisa, ed uomini nuovi, le cui qualità letterarie, fino allora sconosciute, erano state eccitate ed acuite dalle esperienze vissute. Fu una ventata vivace, ma necessariamente breve: l'avvento del fascismo smorzò questo fervore letterario immediato. Né poteva essere diversamente, dato che la polemica sulla guerra e sulle responsabilità connesse mal si conciliava con l'esistenza di un regime che di ogni fatto ammetteva una sola spiegazione, quella ufficiale. Se dunque intorno al 1926 il grande pubblico fu allontanato dal campo di questo dibattito, non eguale sorte subì la cerchia ristretta degli specialisti. Si può anzi affermare che l'analisi critica delle operazioni condotte dall'esercito italiano contro l'Austria cominci soltanto ora, per prolungarsi fino all'inizio del secondo conflitto mondiale. Alla discussione partecipano personaggi intoccabili dalla tirannide: marescialli d'Italia, generali e storici professionisti, cui l'elevatezza o l'oscurità della posizione concedeva il lusso di opinioni eterodosse o anche semplicemente indipendenti. Questo secondo tipo di discussione ebbe naturalmente un carattere più ermetico: fu una conversazione fra iniziati. Al grosso pubblico veniva contemporaneamente ammannito un tipo diverso di letteratura, il cui merito principale consisteva nell'asservire le vicende del passato alle necessità del presente, con tutte le distorsioni che comporta una simile strumentalizzazione della storia. Lo Stato Maggiore dell'esercito continuava nel frattempo a pubblicare, con esasperante lentezza, volumi e volumi, gli ultimi dei quali, editi nel 1953, descrivono proprio le operazioni militari da giugno a settembre del 1917. In essi, mentre si deve elogiarne la sterminata documentazione, anche fotografica, e la minuzia con cui le azioni militari sono descritte, si vorrebbe che, dimesso il tono irritantemente apologetico, un certo spazio fosse dedicato ad altri particolari trascurati (ad esempio condanne e fucilazioni per reati militari,  ammutinamenti, rimozioni di comandanti), la cui descrizione servirebbe a ridimensionare fuor di ogni dubbio certi fenomeni, sui quali, volendoli tacere, si attizza invece la curiosità  ........

Nel 1917 metà dell'Europa combatteva l'altra metà con la forza ubriaca dell'inerzia. Come pugili malfermi i due contendenti prostrati e ormai incapaci di connettere menano colpi all'impazzata. Siamo dunque alla crisi suprema della guerra mondiale, superata dall'Intesa grazie  all'intervento  americano,  che permise, nonostante la defezione della Russia, di sconfiggere finalmente gli Imperi Centrali.

La tesi difensiva, secondo la quale  era l'Italia che aveva dovuto difendersi da un'aggressione degli Imperi Centrali e non viceversa, risultò anzi cosi appetitosa, da venir accettata e incorporata anche nella tradizione popolare. A che scopo, il 24 maggio 1915, i soldati d'Italia marciavano verso la frontiera?: «a far contro il nemico una barriera ». Una coesione mantenuta con motivi tanto contrari alla verità era condannata a  dissolversi, non  appena venuti meno i pretesti contingentissimi che l'avevano creata. E così avvenne con velocità fulminea, cosi avvenne per la sventura d'Italia.

passi dal commento dell'autore

Nell'estate del 1914 l'Europa fu travolta da una ventata di follia. A cinquant'anni di distanza sembra lecito affermare che, se avessero intuito quel che il futuro teneva in serbo, i governanti di allora si sarebbero ben guardati dallo scatenare le forze infernali che devastarono l'Europa al punto da subirne ancor oggi (1965) le conseguenze. E tuttavia chi si accinge a descrivere quel periodo è ancora sotto l'ipoteca, o meglio, il ricatto dell'enorme sacrificio compiuto in un passato non troppo remoto. Viene quindi meno il coraggio di affermare che tale sacrificio fu sterile, anzi devastatore, che i caduti morirono invano e per delle ragioni ingiuste. La congiura del silenzio offre un modus vivendi più facile. Le giovani generazioni poco sanno di quel periodo e in tale stato di innocente ignoranza sono tenute, come se fosse troppo grave confessare loro la verità, troppo fragili le loro menti per sopportarla. In tutti i paesi del mondo i testi scolastici, i sommari, i riassunti riecheggiano ancora i falsi ideali del 1914, benché essi appaiano grotteschi persino ad una critica superficiale. La verità è detta, naturalmente; ma va cercata in opere ponderose, che nessuno legge salvo gli specialisti, mitridatizzati per definizione. Una verità diluita, comunque, in tal misura, che il distillarla risulta faticosa alchimia.
Nel 1915 una eguale follia accecò l'Italia. Lo schieramento interventista era limitato a due settori che avevano scarsa presa sul popolo italiano: l'estrema destra nazionalista, la destra conservatrice e i partiti di centro sinistra, repubblicani, radicali e socialisti riformisti. Neutralisti erano i tre maggiori schieramenti parlamentari: il centro liberale di ispirazione giolittiana, i cattolici e i socialisti. Sfortunatamente molti dei primi non brillavano per eccessivo coraggio civile, i secondi erano indeboliti dai sentimenti anticlericali largamente diffusi nel popolo italiano, pronto a vedere oscure manovre papaline per il recupero del potere temporale in ogni atteggiamento dei cattolici, e quanto ai socialisti, la loro avversione alla guerra era giustificata con motivi ideologici ed astratti, così poco convincenti e spesso tanto antipatici, che la stessa presenza dei socialisti nello schieramento neutralista forzò un certo numero di deboli, per differenziarsi, a passare nel campo opposto. La maggior parte della nazione era dunque per la neutralità.
Ma la minoranza interventista non era né piccola né trascurabile, poiché una importante frazione dell'opinione pubblica cosiddetta qualificata fu per la guerra. Sotto la sua spinta e confortati dal suo incoraggiamento, i governanti italiani osarono il gran passo, assumendosi una responsabilità certo maggiore di coloro che erano stati sorpresi nell'estate precedente. Lo stellone ci aveva miracolosamente concesso parecchi mesi, durante i quali sarebbe stato possibile meditare sui casi degli altri, ma il vantaggio inestimabile venne bruciato con incredibile leggerezza. Invece di analizzare criticamente quel che succedeva al di là delle frontiere, si scrutava ansiosi da qual parte pencolasse la vittoria, con la folle paura di arrivare troppo tardi, spesso forzando il giudizio per desiderio di parte e torcendo l'interpretazione degli avvenimenti a favore delle proprie convinzioni. All'intervento italiano furono date di volta in volta finalità diverse, nessuna tuttavia abbastanza convincente, come scrisse nel 1930 il maresciallo d'Italia Enrico Caviglia, per giustificare l'entrata in guerra dell'Italia. Si disse che la partecipazione al conflitto ci avrebbe « restituito» Trento e Trieste. A parte che Trento ce l'avrebbero data ugualmente gli Austriaci senza spargimento di sangue, è difficile credere che non ci saremmo potuti prendere Trieste da soli, nel caos successivo alla fine della guerra. Eppure c'era il precedente illustre di Roma, che era stata annessa, quando si era presentata la buona occasione, cioè il momentaneo indebolimento della Francia, custode del potere temporale dei papi. Oppure l'intervento serviva a dimostrare che non è vero che gli Italiani non si battono, che invece si, gli Italiani sanno battersi e morire come tutti i popoli di questa terra, come i Tedeschi, i Francesi, i Russi, i Pellirosse e i selvaggi africani, che insomma gli Italiani non sono l'unico popolo vile esistente al mondo.

Scriveva Ugo Ojetti nel luglio del 1919:  Su quel che avveniva in Italia [durante la guerra] i tecnici e gli studiosi di arte militare in America  non hanno mai potuto avere un solo libro, un solo opuscolo stampato ....  L'Ufficio Storico del CSM  ha  ad esempio  finito nel 1908 di pubblicare la storia della guerra del 1866. 43 anni. No. Il silenzio di questi 5 anni in confronto alla rumorosa abile loquacità altrui ci ha già fatto troppo male. Se continuasse non dico  per altri 42 anni ma solo per altri pochi mesi, sarebbe  un suicidio:  e  per giunta stupido come tutti i suicidi.

Una terza tendenza aspirava a consolidare, attraverso il comune sacrificio, la sacra unione di tutti gli Italiani, protesi all'affermazione della potenza di Roma, maestra di vita come duemila anni prima, in poche parole: «affinché l'Italia sia grande ». Il fango sanguigno delle trincee del Carso - scrisse il senatore Ruffini - era cemento miracoloso che avrebbe reso per secoli il nostro edificio nazionale, troppo rapidamente e troppo agevolmente costruito, un blocco di granitica solidità: era, il fango del Carso, un cemento a rapida presa per l'unità nazionale, conseguita con immeritata e sfacciata fortuna. La vacuità di simili proposizioni è ben dimostrata dalla possibilità di capovolgerle, ottenendone sentenze più rispondenti al vero.

Come infatti disse Giustino Fortunato nel 1921: - [noi ci siamo troppo illusi] di essere assai più e meglio di quel che due mila anni di servitù ci han fatti; che un popolo come il nostro, se avventurosamente conquistò la libertà, non ancora può dire di aver appresa l'arte di bene usarne, dacché gli istinti suoi primi e il suo costume san rimasti pressoché immutati.-
La guerra doveva rappresentare la forte emozione, il mattone in testa, che gli stregoni dell'antichità usavano per guarire i malati di mente. Ma gli stregoni del 1915 diedero scarsa importanza al sacrificio di beni, inevitabile compagno del sacrificio di vite. Nella prima guerra mondiale, più che nella seconda, questo sacrificio fu vasto e spaventoso: pari al reddito quinquennale dell'Italia di allora o, se si preferisce, pari agli investimenti di capitale per la durata di un trentennio. Per giustificare la neutralità italiana nel conflitto mondiale bastavano poche semplici considerazioni. Se non era dubbio che gli Italiani avrebbero saputo combattere, una volta messi in condizione di farlo, era altrettanto vero che l'Italia come Stato non aveva la capacità di sostenere questa prova immane. L'Italia era una nazione povera, che solo da pochi anni aveva cominciato ad accumulare i capitali indispensabili per la sua espansione industriale. Già la guerra libica era stato un errore rivelatore: l'esercito ne era uscito gravemente disorganizzato, e svuotati i magazzini militari, che nell'agosto del 19iL4 erano ben lungi dall'essere ricostituiti. Del resto è sintomatico il paragone con l'Impero germanico, che dal 1870 al 19'14 aveva fatto assai meno guerre del regno d'Italia. E che forse l'Impero austroungarico era andato in cerca di colonie? Può sembrare un paradosso - ma non è - che, se avesse speso per armamenti le ricchezze profuse nelle prime guerre d'Africa, l'Italia sarebbe arrivata al conflitto mondiale assai più forte e un po' meno povera.
L'intervento non giovò dunque a nessuno. Non giovò ai nazionalisti, che sognavano un'Italia virile e guerriera, e nel 1919 scoprirono, dopo la perdita di settecentomila vite, di aver evocato 1'« igiene del mondo» alla rovescia. Non giovò agli industriali, che la fine della guerra sorprese con un apparato produttivo distorto ed inutile per i bisogni di pace - cioè per quelli permanenti - e dovettero regolare i conti con una classe operaia raccogliticcia, mentre le migliori leve erano state mandate a farsi ammazzare. Non giovò alla piccola borghesia, che pagò duramente con le persone e con gli averi. Non giovò, naturalmente, né alla classe operaia né a quella contadina. Dopo mezzo secolo quello che resta del trattato di pace è, pressappoco, l'Alto Adige. Distribuendo ai nuovi cittadini italiani di lingua tedesca il controvalore del costo della guerra, di ogni famiglia avremmo fatto dei miliardari: a questo prezzo avremmo potuto acquistare il mondo. Non dunque gli aspiranti cittadini italiani sarebbero mancati, ma i quattrini. Chi tuttavia avesse paradossalmente avanzato una simile proposta, sarebbe stato tacciato di pazzo e rinchiuso in manicomio. Ma se la proposta fosse stata modificata nel senso non di beneficare gli irredenti, ma di conquistarli con la violenza, completando il preventivo con settecentomila morti e un milione e mezzo di feriti, quegli sarebbe stato giudicato saggio e amante della patria.

È penoso dover constatare tutto ciò: un sacrificio immenso ed inutile, affrontato in nome di ideali irrazionali, che erano la negazione dei veri interessi d'Italia. In questa occasione Giovanni Giolitti fu il solo a percepire chiaramente i motivi sostanziali, per i quali l'Italia avrebbe dovuto astenersi dal conflitto. Né le sue convinzioni furono scosse, dopo la rotta di Caporetto, dal prevaricatore embrassons-nous che la minoranza interventista impose alla maggioranza ex neutralista in nome, non di un superiore ed implorato interesse della patria, ma di una arrogante pretesa di aver avuto ragione a partecipare alla crociata contro gli Imperi Centrali. Dopo Caporetto, dopo l'invasione del Friuli e del Cadore, finalmente l'Italia ebbe il falso scopo, capace di catalizzare quell'unione sacra (o quasi), che nessuna propaganda era riuscita prima a suscitare.

La Commissione d'inchiesta su Caporetto tentò di presentare un quadro di tutti i fatti, fuorché di uno: il comportamento del XXVII Corpo e del suo comandante. Cosi mutilata, la relazione risultò incompleta e ingiustamente partigiana. Ad evitare ulteriori grane, più pericolose - si diceva durante la prima guerra mondiale - delle granate, l'Ufficio storico del Corpo di Stato Maggiore si è ben guardato dal toccare l'argomento Caporetto. Ma ciò non fa tale meraviglia, quanto la perpetua fiducia (regolarmente smentita) di ogni generazione di Italiani in un futuro migliore dei passato. Quando scriveva Ojetti non era un giovinetto di primo pelo, ma un attempato signore tangente al mezzo secolo, età alla quale si arriva solitamente spogli delle illusioni dell'adolescenza. Ma la carica infantile della sua illusione è misurata dal fatto che non pochi mesi, non 43 anni, ma 48 anni dopo gli avvenimenti narrati, l'Italia ufficiale ancora tace, forse attendendo che scompaiano nella tomba anche i testimoni centenari.

Alla fine del 1964 il ministro della Difesa ha promesso la pubblicazione della storia ufficiale di Caporetto, entro due anni. [La "storia ufficiale" fu messa in distribuzione nei primi mesi del 1968 - nota all'attuale edizione del 1971]

   

Spiace anche, dopo il "Piave..", che il nostro più celebre bollettino, l'ultimo, cominci con due riconosciute menzogne:
La guerra contro l'Austria-Ungheria, che sotto l'alta guida di S. M. il Re - Duce Supremo - l'esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per quarantun mesi, è vinta ...
Né il Re guidò mai la guerra, né l'esercito italiano fu mai inferiore per numero e per mezzi, salvo un breve periodo susseguente al 24 ottobre 1917, a quello austriaco schierato contro di noi. Se si fosse riconosciuta apertamente la verità, forse il desiderio di indagine ne sarebbe stato stimolato.

Torna all'indice libri

Detto della guerra e del nostro intervento tutto il male che meritano, è opportuno spendere alcune parole a commento delle operazioni militari del 1917. Si dice che queste, e le precedenti, soffrirono molto del disaccordo fra il Comando Supremo dell'esercito e l'autorità politica, responsabilità attribuita solitamente al generale Cadorna, per voce di popolo scorbutico e insofferente. In effetti Cadorna rappresentò la testa di turco per molte responsabilità che gli furono surrettiziamente lasciate, benché non gli spettassero, o che si assunse in silenzio. L'intrattabilità di Cadorna forni un comodo alibi ai nostri governanti, i quali credevano di aver compiuto il loro dovere, dichiarando la guerra, dopo di che sarebbero andati in vacanza per alcuni mesi, in attesa che l'esercito italiano si congiungesse con i Russi a Budapest e con i Serbo-Montenegrini in Bosnia: solo allora la diplomazia avrebbe ripreso le fila del gioco momentaneamente interrotto. Se Cadorna, invece di essere il caratteraccio che era, si fosse disciplinatamente rivolto al Governo, per essere illuminato sulle migliori coloriture politiche da dare alle sue operazioni militari, probabilmente Salandra o Boselli avrebbero saputo rispondergli solo un imbarazzato: faccia lei, se pure non lo avrebbero pregato di smetterla con le stragi insensate (Orlando glielo disse). Ma la guerra stessa era insensata, e la nostra non più di quella degli altri: una volta entrativi, si era travolti dalla. forza della sua logica paranoica.
È doveroso aggiungere che i nostri errori militari non furono peggiori di quelli commessi dai Francesi, dagli Inglesi e, perché no, dagli Americani; e di fronte a figuri come Joffre e Douglas Haig, il generale Cadorna e persino Capello appaiono dei cuori teneri. 'La nostra tattica guerresca fu pazzesca in senso assoluto, ma non in senso relativo. È pura leggenda, di cui noi stessi siamo in parte responsabili, che le nostre perdite in combattimento fossero eccezionalmente elevate ed i nostri comandanti più macellatori degli altri: lo erano anzi un po' meno. Le perdi te (in morti, feriti e dispersi ) subite dagli Italiani, dai Francesi e dagli Inglesi nei primi nove mesi del 1917 (periodo durante il quale tutti e tre gli eserciti ebbero l'iniziativa delle operazioni) furono le seguenti: Italiani 450000 Francesi 460000 Inglesi 590000 
Ed è inutile fatica cercare di spiegare in senso classista il grande spreco di uomini perpetrato sul fronte italiano nel 1915-18, sostenendo che una ecatombe cosi ampia è manifestazione del capitalismo di rapina in auge presso di noi a quell'epoca e alla poca cura degli imprenditori di pace e dei generali in guerra per le forze di lavoro, allora in numero sovrabbondante e non qualificate. La verità è che la mentalità livellatrice caratteristica degli Stati Maggiori della prima guerra mondiale (e degli Stati Maggiori sovietico e giapponese nella seconda guerra mondiale) fiori specialmente presso l'Intesa; e fu che; per ragioni inspiegabili, combatté, erigendo il disprezzo dell'individuo a simbolo di vigore guerriero e trattò le masse umane alla stregua di sterminati greggi di esseri uguali e privi di sentimenti, La concezione della guerra, che in Italia una tradizione non completamente giustificata chiama cadorniana, è solo un pallido riflesso di quella di Joffre e di Douglas Haig.
Uno scrittore francese ha riassunto in brevi parole il principale sentimento eccitato dalla rievocazione degli avvenimenti della prima guerra mondiale: «Odio la guerra, ma amo coloro che l'hanno fatta », Tuttavia questo affetto e questo amore proiettati verso un passato eroico non debbono condurre all'indulgenza nei riguardi delle cause, che gettarono l'Italia nel conflitto e che ancor oggi potrebbero, in circostanze e situazioni molto diverse, operare nello stesso senso e nello stesso modo. Non è lusinghiero dover constatare che molte delle storture di allora sono storture anche oggi. Contro di esse esiste una sola arma di difesa: l'educazione del popolo italiano. Ed a chi sostenga che questo è uno dei tanti problemi, io rispondo che è il solo problema.