La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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Il gesuita moderno

di  Vincenzo Gioberti

Dalla Treccani  Gioberti, Vincenzo. - Filosofo e uomo politico (Torino 1801 - Parigi 1852). Sacerdote, fu ministro (1848) e presidente del Consiglio (1848-49) del Regno di Sardegna e sostenitore del processo di unificazione dell’Italia sotto l’egida sabauda, come espresso in una delle sue maggiori opere (Del rinnovamento civile d'Italia, 1851). Nato da famiglia di modeste condizioni economiche, si laureò nel 1823 in teologia e nel 1825 fu ordinato sacerdote. Cappellano di corte dal 1826, divenne presto noto per gli studi teologici e per la professione di repubblicanesimo (nel 1834 la rivista mazziniana Giovine Italia pubblicò la sua lettera "Della repubblica e del cristianesimo").

dal profilo di Francesco Traniello L'abito di prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833 (aprile), arrestato con pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici. (Ndr: congiura meno famosa di quella dell'anno successivo che vide anche anche l'esilio di Garibaldi)

Visse a Parigi e a Bruxelles dal 1834 al 1845, insegnando e scrivendo gran parte delle opere. Nel 1843 pubblicò "Del primato morale e civile degli italiani" in cui perorava una soluzione federalista del problema nazionale sotto l'egida del papa, ritenendo l'afflato ideale e la tradizione monarchica del cattolicesimo in grado di sostenere l'aspirazione all'indipendenza nazionale e armonizzare gli interessi particolari. L'opera ebbe grande risonanza dal momento in cui, salito Pio IX al soglio pontificio (1846), la politica vaticana sembrò orientarsi nella direzione indicata da G., e questi, rientrato a Torino lo stesso anno, venne coinvolto nella direzione politica del Regno di Sardegna (nell'ag. 1848 fu ministro del governo Casati e dal dic. 1848 al febbr. 1849 presidente del Consiglio), assistendo da quell'osservatorio al tramonto dell'ipotesi neoguelfa. Dopo un breve periodo nel quale fu ambasciatore a Parigi, ritornò alla vita privata e agli studi. Nel "rinnovamento civile d'Italia",  riconosce gli errori di previsione sulle potenzialità della politica ecclesiastica, tornò a perorare la causa nazionale affidandone i destini ai principi sabaudi cui sarebbe spettato l'onere dell’unificazione d'Italia e dell'elevazione di Roma a capitale.

.... Su posizioni molto distanti dai liberali erano schierati i cosiddetti neoguelfi, un movimento costituito da moderati cattolici. Il loro nome derivava da quello dei guelfi del Medioevo, sostenitori del pontefice. Essi vedevano nel papato la guida del movimento per l'indipendenza nazionale. Vincenzo Gioberti (1801-52), il neoguelfo più autorevole, con il suo libro più importante (Il primato morale e civile degli italiani) propose di creare una confederazione dei vari Stati italiani sotto la presidenza del papa. Quando divenne papa Pio IX (1846), un pontefice che pareva abbastanza vicino ai liberali, le speranze di molti italiani resero il movimento neoguelfo assai popolare. Anche se l'idea di Gioberti si dimostrò poi irrealizzabile, il movimento neoguelfo ebbe grande importanza nell'Italia del tempo: molti cattolici si avvicinarono all'idea dell'indipendenza italiana. Così Luigi Settembrini (1813-76 Ricordanze della mia vita ) dice del libro di Gioberti" Il primato morale e civile degli italiani"(1843)- Il Primato del Gioberti fu un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta Italia. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati, spregiati dagli stranieri; noi stessi ci ritenevamo inferiori a tutti gli altri e per tanti secoli di misera servitù avevamo offuscato lo nostra coscienza quando costui ci dice: «Voi Italiani siete il primo popolo del mondo». «Noi?». «Sì, voi avete il primato morale e civile sopra tutti». Non mai libro di filosofo, e neppure di poeta o di altro scrittore, è stato più potente di questo.

Gli oppositori al "Primato" naturalmente non mancarono. Da un lato i governi del Lombardo Veneto (austriaco), dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie proibirono il "Primato", dall'altro attaccarono il Gioberti i mazziniani e gli anticlericali. Ma quelli che si scagliarono più aspramente contro il Gioberti furono i Gesuiti, i quali coi loro attacchi provocarono una fiera risposta del filosofo torinese, che nel 1845 pubblicò i "Prolegomeni* al Primato": "Giunta è l'ora - diceva - in cui l'Italia non vuol più essere lo zimbello e lo scherno d'Europa, non vuol più cedere in potenza ed in fiore a nessuno degli Stati che la circondano". Quindi con calda eloquenza si scagliava contro l'Austria e il re delle Due Sicilie, il cui dispotismo era inconciliabile con la libertà e la civiltà, e a quest'ultimo rimproverava il martirio dei fratelli Bandiera; assaliva vigorosamente i Gesuiti, favorevoli al dispotismo più per desiderio di potere temporale che non di dominio spirituale, e i più responsabili (come consiglieri) del malgoverno dei principi e del Papa; augurava la fratellanza del chiericato con il laicato civile ed auspicava la grandezza e la libertà della patria che non potevano mancare se concordemente volute da tutti gli Italiani. Il successo e la polemica scatenata dai "Prolegomeni" (1846) mise in campo altri personaggi dell’epoca (gesuiti) come Padre Francesco Pellico, fratello di Silvio, padre Romano, padre Luigi Taparelli fratello di Massimo d'Azeglio, e il padre Carlo Curci. Dopo gli attacchi il Gioberti si mise a scrivere il "Gesuita moderno", dove con impeto e calore, ma con prolissità e un'asprezza eccessiva, censura la dottrina e la pratica dei Gesuiti e i loro sistemi educativi che avevano favorito il distacco dell'azione dal pensiero. I prolegomeni erano nati perché la prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo appunto di Prolegomeni del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia come detto

(* Con il termine prolegomeni (dal greco proléghein "dire prima") si intende una trattazione introduttiva e semplificata allo studio di una materia, di un personaggio, di un testo, ecc da Treccani: Esposizione preliminare dei principî o proposizioni fondamentali di una dottrina o di una disciplina, che s’intende svolgere più sistematicamente, altrove o in seguito; anche, introduzione sistematica a un problema o a una disciplina: più genericamente, titolo di trattato che si consideri come introduzione a una scienza)

Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro in 5 volumi scritto dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare anche di  spionaggio da parte di emissari della Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G. prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. Luigi Taparelli d'Azeglio (fratello di Massimo) nel saggio Della nazionalità (1846), dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d’Italia, che ha portato Gioberti ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno in patria. I Gesuiti, tuttavia, si sono radunati attorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma (da Gaeta) e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all’indice.

   
Giacomo Antonelli raggiunse il rango di cardinale senza mai essere ordinato sacerdote (E' stato possibile fino a 100 anni fa). Antonelli era comunque appena stato ordinato "diacono" (senza aver però mai studiato teologia) che papa Gregorio XVI lo volle fra i propri collaboratori. Tale decisione avrebbe segnato la sua vita. A 22 anni egli divenne assessore presso una delle sezioni di giudizio penale della provincia di Roma e, con rapidissima carriera, fu nominato delegato a Orvieto, poi a Viterbo e, infine, a Macerata. Nel 1841 fu nominato sottosegretario agli interni, quale vice del cardinale Mattei, nel 1844 fu secondo tesoriere nelle Finanze e l'anno successivo Grande Tesoriere, ossia Ministro delle Finanze. In tale veste, con un'abile operazione finanziaria, riuscì a fare in modo che lo Stato Pontificio tornasse in possesso dei beni appartenenti all '"Appannaggio Leuchtemberg"  (fino al 1814 "Appannaggio Beauharnais": ben 2300 tenute agricole e 137 palazzi urbani !!!). Il voltafaccia di cui si rese protagonista a seguito della battaglia di Vicenza, persa, in cui vi erano anche soldati romani, provocò un avvicinamento alla politica austriaca in Italia con non poche proteste a Roma. Antonelli, da dietro le quinte, rimase comunque il conduttore della politica papale. Fu infatti l'Antonelli che, dopo l'assalto del popolo al palazzo del Quirinale il 25 novembre 1848, spinse il Papa a fuggire a Gaeta, dove venne premiato con la seconda nomina a Cardinale Segretario di Stato. Rimesso in "trono" dai francesi l'Antonelli perseguitò i suoi avversari politici e introdusse, in modo deciso e astuto, un regime assolutistico di polizia. Respinse gli avvertimenti delle Potenze europee e gli inviti alla moderazione e all'introduzione di riforme ormai ineludibili. Soleva dire "Dacché dobbiamo finire, meglio è scomparire quali siamo, con i grandi ideali e con tutte le forme della nostra passata grandezza". Quando Antonelli morì, il 6 novembre 1876, lasciò un ingente patrimonio, per la cui successione si aprì un processo, che fece scalpore, fra una sua presunta figlia  (la contessa Lambertini) e i parenti  del medesimo. http://www.treccani.it/enciclopedia/giacomo-antonelli_(Dizionario-Biografico)/  l'Antonelli e il Rosmini a Gaeta  
Antonio Rosmini riassunto da Santi e Beati  
Rosmini nasce a Rovereto (Trento) nel 1797. Sceglie la vocazione ecclesiastica e studia diritto e teologia alla Università di Padova. Nel 1828 fonda a Domodossola l'Istituto della carità mentre a Milano conosce e stringe amicizia col Manzoni. Due anni dopo pubblica il suo scritto filosofico più famoso, "Nuovo Saggio sull'origine delle idee", nel quale sostiene che l'essere è la forma originaria della mente ed è impressa nell'uomo da Dio, ergo visione cattolica del mondo con un linguaggio e un metodo più consoni ai tempi. Rosmini guardava inoltre con crescente attenzione alle vicende che portarono all'unità d'Italia. Nel 1848 viene incaricato dal governo piemontese di una missione a Roma presso Pio IX . Il Papa lo accoglie benevolmente con la promessa di una sua imminente nomina a cardinale. In Italia, però, si moltiplicano gli attacchi contro di lui. I cattolici intransigenti gli rimproverano le aperture del pensiero e la disponibilità al dialogo con i fautori dell'unità d'Italia; i laici gli rinfacciavano la sua ortodossia cattolica. Rosmini si ritira allora a Stresa dove trascorse gli ultimi anni e dove muore nel 1855.
Col “Trattato della coscienza morale”, cominciarono per lui le prime contestazioni degli avversari al suo pensiero, che accusavano le sue dottrine come contrarie alla fede e alla morale. La polemica dopo un suo personale intervento, proseguì con la difesa da parte dei suoi amici e discepoli; dovette intervenire il papa stesso imponendo il silenzio a Rosmini ed al Superiore dei Gesuiti, suo contraddittore. Il Manzoni che da laico lo difendeva disse di lui: “una delle cinque o sei più grandi intelligenze, che l’umanità aveva prodotto a distanza di secoli”. Della porpora cardinalizia non se ne farà più nulla perchè a novembre (1848) scoppia la rivoluzione e Pio IX è costretto a fuggire a Gaeta, chiedendo a Rosmini di seguirlo. Con l’ostilità sempre presente dell’Austria, però si crea un clima sfavorevole per lui, tanto più che poco prima era stato pubblicato il suo libro “Delle cinque piaghe della santa Chiesa”, grande esposizione in veste e
pensiero sacerdotale e frutto di un ardente amore per la Chiesa, sui pericoli che minacciavano l’unità e la libertà della Chiesa e con coraggio denuncia queste ‘piaghe’ e ne indica i rimedi; ma il libro allora venne letto con ben altra visuale. Il governo borbonico di Napoli, non lo vuole sulle sue terre, le udienze al papa gli vengono ostacolate, il papa stesso preoccupato per le ombre che si addensano sulle sue dottrine, nel 1849 lo esorta per iscritto a “riflettere, modificare, correggere o ritrattare le opere stampate”. Ad ogni modo nonostante la sua disponibilità a ‘correggere’, due suoi libri vennero messi all’Indice nel giugno 1849 con suo grande dolore. In quell’oscuro periodo, al seguito del papa a Napoli, scrisse l’ “Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata”, pagine di alta teologia spirituale e di indubbia testimonianza di intima esperienza mistica. In quella situazione di dubbio dottrinario e con due libri condannati, non poteva stare più vicino al papa, che lo lasciò libero di rientrare a Stresa nel 1849, per raggiungere i suoi confratelli. Qualche anno dopo quando le sue opere vennero riviste Rosmini venne riabilitato: “Sia lodato Iddio, che manda di quando in quando di questi uomini per il bene della Chiesa” dirà Pio IX. 40 anni dopo la messa all'indice il Sant'uffizio condanna gli ultimi scritti, non noti al tempo, con 40 proposizioni dei precedenti, perché non sembravano consoni alla verità cattolica. Paolo VI, in occasione dell'udienza del 12 gennaio 1972, lo definì "profeta" che in anticipo di un secolo sente e individua problemi dell'umanità e pastorali, sviluppati in futuro nel Concilio Vaticano II.
Ndr. In altri tempi sarebbe stato bruciato due volte
 
   
.... In Paraguay, che all'epoca comprendeva anche parte dell'Argentina, del Perù e della Colombia, vennero sperimentate le cosiddette reducciones, villaggi autosufficienti con chiese, officine, mulini, negozi e frutteti, dove gli indios si rifugiavano per scappare dai colonizzatori e dai mercanti di schiavi. Questo trasformismo fece entrare i missionari nel cuore e nelle menti di tanta gente (film MISSION di Roland Joffé con Robert de Niro). Ma non impedì altrettante morti violente. Come quella di Roch Gonzalez, ucciso nel 1628 lungo il Rio de la Plata da uno sciamano, spaventato dal consenso raccolto dal gesuita; o quella di Gabriel Lalemant, missionario in Nuova Francia (Canada), al quale i nativi cavarono gli occhi e li sostituirono con pezzi di carbone ardente (1649). La popolarità dei gesuiti cresceva e, paradossalmente, cresceva anche il pericolo di collassare. I critici della Compagnia asserivano che i gesuiti erano degli opportunisti e che i loro atteggiamenti avevano prodotto due tipi di eccessi: da un lato si erano troppo accostati alle popolazioni indigene, tollerando distorsioni della religione cattolica; dall'altro, si erano messi alla mercé delle grandi potenze e avevano accettato l'idea che niente fosse più convincente di una spada. «La contiguità con il potere» commenta Filoramo «aveva suscitato gelosie e rivalità».
CADUTA E RINASCITA.
I gesuiti nei secoli furono incolpati di aver fomentato il massacro degli ugonotti nella Notte di San Bartolomeo (1572); di aver organizzato la congiura per eliminare Giacomo I d'Inghilterra (1606); di aver sparato a re Giuseppe di Portogallo (1758). Nel loro mirino ci sarebbero stati il Re Sole, Elisabetta I d'Inghilterra, Guglielmo d'Orange, Abraham Lincoln. Avrebbero custodito tesori immensi e praticato la magia nera, corrotto e sottratto fondi agli Stati. Spesso erano voli di fantasia. Ma qualche volta no. Nel 1759, l'ordine fu bandito dal Portogallo e molti adepti furono arrestati; poi toccò alla Francla. Nel 1773, "per il bene della pace cristiana" e sotto le spinte illuministiche, un'epistola di papa Clemente XIV sciolse la congregazione e il padre generale, Lorenzo Ricci, fu messo in cella. Prima di morire, rigettò tutte le imputazioni. I gesuiti, grazie a Caterina II (poco incline a eseguire gli ordini del pontefice), sopravvissero in Russia (Ortodossa). L'oblio durò fino al 1814, quando Pio VII decise di riammettere la Compagnia. Con i gesuiti, si rifecero vivi nemici vecchi e nuovi. L'ex presidente Usa John Adams scrisse: "Ci sarà da meravigliarsi se il loro ritorno non metterà a dura prova la purezza del nostro sistema elettorale". Fu un timore infondato. Oggi, forti di 50 santi e 150 beati, le missioni gesuiti che sono nelle aree più povere del mondo. L'elezione dell'arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, a primo pontefice della Compagnia, onora anche loro. Michele Scozzai da Focus Storia
 
   
Lo stato d'animo di Pio IX in questo periodo è così riassunto dal conte Siccardi, inviato sardo a Gaeta (Siccardi a d'Azeglio, Napoli 28 X 49, in G. RATTI, Contributo alla biografia di Giuseppe Siccardi…. Torino 1968, pp .. 107-197, passo citato p. 191): “il papa non fa più nulla; al povero uomo riescì così male quel che da principio egli fece da sè, che ora lascia. far tutto agli altri, dei quali il più influente e forse il più destro è Antonelli… Il buon Pontefice è angustiato, trovasi circondato da malcontenti che più o meno riverentemente parlando di lui, gli vanno rimproverando la condizione in cui sono caduti per aver egli concesso troppo"


Giuseppe Siccardi (1802/1857).

Fatto conte da Carlo Alberto nel 1846, fu consigliere di Corte di Cassazione del Regno di Sardegna nel 1847 e trattò invano con lo Stato pontificio la modifica del Concordato nel 1849: alla fine di quello stesso anno fu nominato senatore e ministro della Giustizia e degli Affari ecclesiastici, presentando al Parlamento le leggi che portano il suo nome. Si dimise da ministro della Giustizia l'8 febbraio 1851. Gran cordone dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nel 1855 è sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

Pio IX (1846-1850) Di Padre Giacomo Martina gesuita della Pontificia Università Gregoriana
…Ma gli errori passati, colpevoli o no, non dovevano più ripetersi: e il timore di sbagliare ancora spingeva fatalmente Pio IX ad irrigidirsi, in modo tanto più severo, almeno in apparenza, quanto più viva era in lui la paura di cedere di nuovo al suo grande nemico, il suo cuore: ed eccolo allora uscire in quelle risposte inflessibili, e magari dure, date a chi invocava clemenza. Eccolo agitarsi e perdere le staffe per qualche elogio, tributato in buona fede da qualche ingenuo gesuita alla clemenza usata nei primi anni, elogi secondo il papa ben più pericolosi che le accuse di tirannide, eccolo protestare ripetutamente la sua indipendenza di fronte a tutti..Eppure la coscienza della propria debolezza lo spingeva ad appoggiarsi sempre più a chi gli stava vicino, fidandosi delle doti altrui più che delle proprie, senza accorgersi di essere più di una volta ingannato… I timori espressi con tanta lucidità dal de Rayneval e dal Falloux erano fondati: il segno di conciliazione non appariva, ne poteva essere interpretata come tale la fredda ed evasiva risposta dell’Antonelli, in singolare contrasto con il tono caldo ed appassionato della lettera del F.: “l’ansietà con cui, secondo Ella si esprimeva, oggi gli occhi di tutti sono rivolti a Roma e il desiderio con cui stanno attendendo un segnale di pace o di ostilità voglio confidare che anderà a cessare se si vorrà aver confidenza in quegli da cui si attende e si vorrà ricordare che egli sostiene in terra le veci del Dio della pace e della bontà e che ad onta della perversità del secolo in cui viviamo, non abbandonerà mai lo spirito conciliante di carità e moderazione in tutto ciò che offende i sacri doveri che dal Signore gli sono stati confidati” anche se all’atto pratico la diplomazia pontificia continuò a distinguere fra ideale e realtà, fra principi e applicazioni e non vennero prese alla lettera le drastiche affermazioni di Pio IX, perdurò a lungo nella Chiesa una malcelata diffidenza verso i principi sui quali si reggeva gran parte della società moderna.
Espressione concreta di questo stato d’animo fu la condanna avvenuta il 30 maggio a Napoli nella seduta della congregazione dell’Indice, presieduta dal nuovo prefetto Card. Brignole e sanzionata a Gaeta dal Papa il 6 giugno, di tre autori che tanta eco avevano suscitato negli anni precedenti: Rosmini, Ventura (Discorso funebre per i morti di Vienna recitato il giorno 29 novembre 1848 apologia dei caduti della rivoluzione di Vienna del 48) e Gioberti. Per il prestigio di cui godeva il Gioberti nel 1848, Pio IX, come abbiamo già visto, non aveva voluto condannare l’opera pubblicamente, pur ammonendo personalmente l’autore ed invitandolo a confutare egli stesso gli errori contenuti nella sua opera. L’abate aveva fatto qualche mezza promessa, mai mantenuta.
-Ndr usci subito dopo un’opera di p. Curci che “svelava” a loro dire la vera intenzione del Gioberti, colpire l’autentico cattolicesimo.
Il papa avvertiva (e anche i card. Altieri e Mai che l’anno precedente gli si erano mostrati condiscendenti) più o meno consciamente di non avere capito bene la natura della polemica e di essere stato troppo indulgente con Gioberti, ma , anziché riconoscerlo esplicitamente, cercava di soffocare questi rimorsi, dimenticando e trascurando molti fatti, sino ad accusare chi era stato incaricato della censura romana del Gesuita.. il p. Giusto da Camerino, di avere tradito il suo ufficio per non aver rilevato nulla di censurabile. Eppure il p. Giusto aveva scritto, più di cento pagine di critica! Nei suoi sfoghi privati e confidenziali il papa finiva qualche volta per traviare la realtà storica. Ndr. Oggi si direbbe di tali comportamenti che ha l’Alzheimer
La prima minuta dell’allocuzione del 20 aprile 1849 accennava al libro di Gioberti contro i gesuiti come ad uno scritto pieno di ipocrisie e di calunnie. L’allusione venne poi soppressa per non prevenire la conclusione di un processo già iniziato. Era infatti in corso l’esame dell’opera che si concluse il 30 maggio: Ndr. Condanne e messa all’indice. La compagnia era ormai entrata nelle grazie del papa.
I gesuiti non erano contenti nemmeno dopo la condanna del Gesuita… e anche per dissipare ogni sospetto dopo tante e prolungate accuse , avrebbero voluto che il papa pubblicasse un documento in cui si rivendicasse l’onore dell’ordine. I padri Bresciani e Rossi si presentarono perciò al papa a Gaeta all’inizio di agosto per far presente la “convenienza che vi è di parlare al pubblico e fare conoscere da quale forza egli sia stato spinto alla nostra dispersione”. Pio IX rispose che la domanda era giusta, e che si stava già pensando al modo di secondarla. Il p. Boero inviò allora a mons. Fioramonti, segretario delle lettere latine, una minuta di breve o bolla. Anche i vescovi della provincia ravennate il 4 ottobre 1849 chiesero un atto solenne in favore della compagnia e la condanna delle altre opere giobertiane. …lo stesso fecero altre diocesi…..

   

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
Domenica, 3 Settembre 2000
1. Nel contesto dell'Anno Giubilare, è con intima letizia che procedo alla beatificazione di due Pontefici, Pio IX e Giovanni XXIII .....

Beckx, il papa nero

Le reazioni
... Più caute le reazioni di parte liberale, di quella parte, per intenderci, che più litigò con Pio IX. La beatificazione, affermano gli eredi della tradizione liberale cavouriana, non può essere considerata una scelta politica, perché è intrinsecamente religiosa, anche se ha un significato culturale pure per i non cattolici. Certo, il Sillabo conteneva anche affermazioni di rilievo non religioso, ma politico, mentre il rapporto fra cattolici ed ebrei è stato pienamente risolto solo con Giovanni Paolo II. Tuttavia, concludono i liberali di oggi, la domanda che ritorna è: può un Papa antiliberale essere beato?" un interrogativo che non compete e non riguarda i laici liberali. Un deciso pollice verso contro Pio IX è giunto invece da parte della Massoneria. La beatificazione ha suscitato profonda inquietudine nel Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani. Questa beatificazione innalza a simbolo etico universale un uomo tetragono ad ogni forma di evoluzione e di progresso, tenacemente ostile al mondo moderno e per di più espressione degli interessi solo temporali della Chiesa". E continua: "Come massoni, come uomini liberi esprimiamo il nostro profondo rammarico per questa inopinata esaltazione di un uomo-simbolo del potere temporale, la cui beatificazione sembra preludere ad una svolta nella politica di comprensione reciproca e di pur cauta apertura fino ad ora condotta dalla volontà irriducibile di papa Wojtyla". "Tutto ciò - conclude il Gran Maestro - pone un enorme interrogativo sulle effettive finalità giubilari e sul magistero dell'attuale pontefice ... Non può non intravedersi un chiaro disegno tendente a riaffermare un antistorico primato della Chiesa cattolica sull'imperium civile". Perplessità sono state manifestate anche in ambito cattolico. Alcuni teologi progressisti hanno accusato Giovanni Paolo Il di far beato un Papa "assolutista" e "antisemita". Contro si è pronunciato
(anche) padre Giacomo Martina, gesuita 76enne, professore di storia della Chiesa moderna all'Università Gregoriana: "Questa beatificazione non mi pare la cosa più opportuna. Nei primi anni del suo pontificato Pio IX aveva troppo confuso la politica con la religione. In fondo era un emotivo che si era lasciato trascinare dal '48".

E poi c'è il mondo ebraico. Il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane ha voluto ricordare ciò che questo Papa è stato per gli italiani: "Dopo una prima fase, è stato duramente antinazionale e ha stabilito l'infallibilità del Papa, principio preoccupante per gente come noi abituata a discutere e a confrontarsi. Ma è stato anche il responsabile del caso Mortara (un bambino ebreo di Bologna sottratto alla famiglia perché battezzato di nascosto dalla domestica), che ha portato tanto dolore nelle nostre comunità". Da cronologia.it

   

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