La storia è racconto attraverso i libri Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito. 95 Il gesuita moderno di Vincenzo Gioberti |
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Dalla Treccani Gioberti, Vincenzo. - Filosofo e uomo politico (Torino 1801 - Parigi 1852). Sacerdote, fu ministro (1848) e presidente del Consiglio (1848-49) del Regno di Sardegna e sostenitore del processo di unificazione dell’Italia sotto l’egida sabauda, come espresso in una delle sue maggiori opere (Del rinnovamento civile d'Italia, 1851). Nato da famiglia di modeste condizioni economiche, si laureò nel 1823 in teologia e nel 1825 fu ordinato sacerdote. Cappellano di corte dal 1826, divenne presto noto per gli studi teologici e per la professione di repubblicanesimo (nel 1834 la rivista mazziniana Giovine Italia pubblicò la sua lettera "Della repubblica e del cristianesimo"). dal profilo di Francesco Traniello L'abito di prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833 (aprile), arrestato con pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici. (Ndr: congiura meno famosa di quella dell'anno successivo che vide anche anche l'esilio di Garibaldi) Visse a Parigi e a Bruxelles dal 1834 al 1845, insegnando e scrivendo gran parte delle opere. Nel 1843 pubblicò "Del primato morale e civile degli italiani" in cui perorava una soluzione federalista del problema nazionale sotto l'egida del papa, ritenendo l'afflato ideale e la tradizione monarchica del cattolicesimo in grado di sostenere l'aspirazione all'indipendenza nazionale e armonizzare gli interessi particolari. L'opera ebbe grande risonanza dal momento in cui, salito Pio IX al soglio pontificio (1846), la politica vaticana sembrò orientarsi nella direzione indicata da G., e questi, rientrato a Torino lo stesso anno, venne coinvolto nella direzione politica del Regno di Sardegna (nell'ag. 1848 fu ministro del governo Casati e dal dic. 1848 al febbr. 1849 presidente del Consiglio), assistendo da quell'osservatorio al tramonto dell'ipotesi neoguelfa. Dopo un breve periodo nel quale fu ambasciatore a Parigi, ritornò alla vita privata e agli studi. Nel "rinnovamento civile d'Italia", riconosce gli errori di previsione sulle potenzialità della politica ecclesiastica, tornò a perorare la causa nazionale affidandone i destini ai principi sabaudi cui sarebbe spettato l'onere dell’unificazione d'Italia e dell'elevazione di Roma a capitale. |
.... Su posizioni molto distanti dai liberali erano schierati i cosiddetti neoguelfi, un movimento costituito da moderati cattolici. Il loro nome derivava da quello dei guelfi del Medioevo, sostenitori del pontefice. Essi vedevano nel papato la guida del movimento per l'indipendenza nazionale. Vincenzo Gioberti (1801-52), il neoguelfo più autorevole, con il suo libro più importante (Il primato morale e civile degli italiani) propose di creare una confederazione dei vari Stati italiani sotto la presidenza del papa. Quando divenne papa Pio IX (1846), un pontefice che pareva abbastanza vicino ai liberali, le speranze di molti italiani resero il movimento neoguelfo assai popolare. Anche se l'idea di Gioberti si dimostrò poi irrealizzabile, il movimento neoguelfo ebbe grande importanza nell'Italia del tempo: molti cattolici si avvicinarono all'idea dell'indipendenza italiana. Così Luigi Settembrini (1813-76 Ricordanze della mia vita ) dice del libro di Gioberti" Il primato morale e civile degli italiani"(1843)- Il Primato del Gioberti fu un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta Italia. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati, spregiati dagli stranieri; noi stessi ci ritenevamo inferiori a tutti gli altri e per tanti secoli di misera servitù avevamo offuscato lo nostra coscienza quando costui ci dice: «Voi Italiani siete il primo popolo del mondo». «Noi?». «Sì, voi avete il primato morale e civile sopra tutti». Non mai libro di filosofo, e neppure di poeta o di altro scrittore, è stato più potente di questo. |
Gli oppositori al "Primato" naturalmente non mancarono. Da un lato i governi del Lombardo Veneto (austriaco), dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie proibirono il "Primato", dall'altro attaccarono il Gioberti i mazziniani e gli anticlericali. Ma quelli che si scagliarono più aspramente contro il Gioberti furono i Gesuiti, i quali coi loro attacchi provocarono una fiera risposta del filosofo torinese, che nel 1845 pubblicò i "Prolegomeni* al Primato": "Giunta è l'ora - diceva - in cui l'Italia non vuol più essere lo zimbello e lo scherno d'Europa, non vuol più cedere in potenza ed in fiore a nessuno degli Stati che la circondano". Quindi con calda eloquenza si scagliava contro l'Austria e il re delle Due Sicilie, il cui dispotismo era inconciliabile con la libertà e la civiltà, e a quest'ultimo rimproverava il martirio dei fratelli Bandiera; assaliva vigorosamente i Gesuiti, favorevoli al dispotismo più per desiderio di potere temporale che non di dominio spirituale, e i più responsabili (come consiglieri) del malgoverno dei principi e del Papa; augurava la fratellanza del chiericato con il laicato civile ed auspicava la grandezza e la libertà della patria che non potevano mancare se concordemente volute da tutti gli Italiani. Il successo e la polemica scatenata dai "Prolegomeni" (1846) mise in campo altri personaggi dell’epoca (gesuiti) come Padre Francesco Pellico, fratello di Silvio, padre Romano, padre Luigi Taparelli fratello di Massimo d'Azeglio, e il padre Carlo Curci. Dopo gli attacchi il Gioberti si mise a scrivere il "Gesuita moderno", dove con impeto e calore, ma con prolissità e un'asprezza eccessiva, censura la dottrina e la pratica dei Gesuiti e i loro sistemi educativi che avevano favorito il distacco dell'azione dal pensiero. I prolegomeni erano nati perché la prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo appunto di Prolegomeni del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia come detto (* Con il termine prolegomeni (dal greco proléghein "dire prima") si intende una trattazione introduttiva e semplificata allo studio di una materia, di un personaggio, di un testo, ecc da Treccani: Esposizione preliminare dei principî o proposizioni fondamentali di una dottrina o di una disciplina, che s’intende svolgere più sistematicamente, altrove o in seguito; anche, introduzione sistematica a un problema o a una disciplina: più genericamente, titolo di trattato che si consideri come introduzione a una scienza) Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro in 5 volumi scritto dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare anche di spionaggio da parte di emissari della Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G. prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. Luigi Taparelli d'Azeglio (fratello di Massimo) nel saggio Della nazionalità (1846), dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d’Italia, che ha portato Gioberti ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno in patria. I Gesuiti, tuttavia, si sono radunati attorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma (da Gaeta) e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all’indice. |
Giacomo Antonelli raggiunse il rango di cardinale senza mai essere ordinato sacerdote (E' stato possibile fino a 100 anni fa). Antonelli era comunque appena stato ordinato "diacono" (senza aver però mai studiato teologia) che papa Gregorio XVI lo volle fra i propri collaboratori. Tale decisione avrebbe segnato la sua vita. A 22 anni egli divenne assessore presso una delle sezioni di giudizio penale della provincia di Roma e, con rapidissima carriera, fu nominato delegato a Orvieto, poi a Viterbo e, infine, a Macerata. Nel 1841 fu nominato sottosegretario agli interni, quale vice del cardinale Mattei, nel 1844 fu secondo tesoriere nelle Finanze e l'anno successivo Grande Tesoriere, ossia Ministro delle Finanze. In tale veste, con un'abile operazione finanziaria, riuscì a fare in modo che lo Stato Pontificio tornasse in possesso dei beni appartenenti all '"Appannaggio Leuchtemberg" (fino al 1814 "Appannaggio Beauharnais": ben 2300 tenute agricole e 137 palazzi urbani !!!). Il voltafaccia di cui si rese protagonista a seguito della battaglia di Vicenza, persa, in cui vi erano anche soldati romani, provocò un avvicinamento alla politica austriaca in Italia con non poche proteste a Roma. Antonelli, da dietro le quinte, rimase comunque il conduttore della politica papale. Fu infatti l'Antonelli che, dopo l'assalto del popolo al palazzo del Quirinale il 25 novembre 1848, spinse il Papa a fuggire a Gaeta, dove venne premiato con la seconda nomina a Cardinale Segretario di Stato. Rimesso in "trono" dai francesi l'Antonelli perseguitò i suoi avversari politici e introdusse, in modo deciso e astuto, un regime assolutistico di polizia. Respinse gli avvertimenti delle Potenze europee e gli inviti alla moderazione e all'introduzione di riforme ormai ineludibili. Soleva dire "Dacché dobbiamo finire, meglio è scomparire quali siamo, con i grandi ideali e con tutte le forme della nostra passata grandezza". Quando Antonelli morì, il 6 novembre 1876, lasciò un ingente patrimonio, per la cui successione si aprì un processo, che fece scalpore, fra una sua presunta figlia (la contessa Lambertini) e i parenti del medesimo. http://www.treccani.it/enciclopedia/giacomo-antonelli_(Dizionario-Biografico)/ l'Antonelli e il Rosmini a Gaeta | |
Antonio Rosmini riassunto da Santi e Beati | |
Rosmini nasce a Rovereto (Trento) nel 1797. Sceglie la vocazione
ecclesiastica e studia diritto e teologia alla Università di Padova. Nel
1828 fonda a Domodossola l'Istituto della carità mentre a Milano conosce
e stringe amicizia col Manzoni. Due anni dopo pubblica il suo scritto
filosofico più famoso, "Nuovo Saggio sull'origine delle idee", nel quale
sostiene che l'essere è la forma originaria della mente ed è impressa
nell'uomo da Dio, ergo visione cattolica del mondo con un linguaggio e
un metodo più consoni ai tempi. Rosmini guardava inoltre con crescente
attenzione alle vicende che portarono all'unità d'Italia. Nel 1848 viene
incaricato dal governo piemontese di una missione a Roma presso Pio IX .
Il Papa lo accoglie benevolmente con la promessa di una sua imminente
nomina a cardinale. In Italia, però, si moltiplicano gli attacchi contro
di lui. I cattolici intransigenti gli rimproverano le aperture del
pensiero e la disponibilità al dialogo con i fautori dell'unità
d'Italia; i laici gli rinfacciavano la sua ortodossia cattolica. Rosmini
si ritira allora a Stresa dove
trascorse gli ultimi anni e dove muore nel 1855. Col “Trattato della coscienza morale”, cominciarono per lui le prime contestazioni degli avversari al suo pensiero, che accusavano le sue dottrine come contrarie alla fede e alla morale. La polemica dopo un suo personale intervento, proseguì con la difesa da parte dei suoi amici e discepoli; dovette intervenire il papa stesso imponendo il silenzio a Rosmini ed al Superiore dei Gesuiti, suo contraddittore. Il Manzoni che da laico lo difendeva disse di lui: “una delle cinque o sei più grandi intelligenze, che l’umanità aveva prodotto a distanza di secoli”. Della porpora cardinalizia non se ne farà più nulla perchè a novembre (1848) scoppia la rivoluzione e Pio IX è costretto a fuggire a Gaeta, chiedendo a Rosmini di seguirlo. Con l’ostilità sempre presente dell’Austria, però si crea un clima sfavorevole per lui, tanto più che poco prima era stato pubblicato il suo libro “Delle cinque piaghe della santa Chiesa”, grande esposizione in veste e pensiero sacerdotale e frutto di un ardente amore per la Chiesa, sui pericoli che minacciavano l’unità e la libertà della Chiesa e con coraggio denuncia queste ‘piaghe’ e ne indica i rimedi; ma il libro allora venne letto con ben altra visuale. Il governo borbonico di Napoli, non lo vuole sulle sue terre, le udienze al papa gli vengono ostacolate, il papa stesso preoccupato per le ombre che si addensano sulle sue dottrine, nel 1849 lo esorta per iscritto a “riflettere, modificare, correggere o ritrattare le opere stampate”. Ad ogni modo nonostante la sua disponibilità a ‘correggere’, due suoi libri vennero messi all’Indice nel giugno 1849 con suo grande dolore. In quell’oscuro periodo, al seguito del papa a Napoli, scrisse l’ “Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata”, pagine di alta teologia spirituale e di indubbia testimonianza di intima esperienza mistica. In quella situazione di dubbio dottrinario e con due libri condannati, non poteva stare più vicino al papa, che lo lasciò libero di rientrare a Stresa nel 1849, per raggiungere i suoi confratelli. Qualche anno dopo quando le sue opere vennero riviste Rosmini venne riabilitato: “Sia lodato Iddio, che manda di quando in quando di questi uomini per il bene della Chiesa” dirà Pio IX. 40 anni dopo la messa all'indice il Sant'uffizio condanna gli ultimi scritti, non noti al tempo, con 40 proposizioni dei precedenti, perché non sembravano consoni alla verità cattolica. Paolo VI, in occasione dell'udienza del 12 gennaio 1972, lo definì "profeta" che in anticipo di un secolo sente e individua problemi dell'umanità e pastorali, sviluppati in futuro nel Concilio Vaticano II. Ndr. In altri tempi sarebbe stato bruciato due volte |
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.... In Paraguay, che
all'epoca comprendeva anche parte dell'Argentina, del Perù e della
Colombia, vennero sperimentate le cosiddette reducciones, villaggi
autosufficienti con chiese, officine, mulini, negozi e frutteti, dove
gli indios si rifugiavano per scappare dai colonizzatori e dai mercanti
di schiavi. Questo trasformismo fece entrare i missionari nel cuore e
nelle menti di tanta gente (film MISSION di Roland Joffé con Robert de
Niro). Ma non impedì altrettante morti violente. Come quella di Roch
Gonzalez, ucciso nel 1628 lungo il Rio de la Plata da uno sciamano,
spaventato dal consenso raccolto dal gesuita; o quella di Gabriel
Lalemant, missionario in Nuova Francia (Canada), al quale i nativi
cavarono gli occhi e li sostituirono con pezzi di carbone ardente
(1649). La popolarità dei gesuiti cresceva e, paradossalmente, cresceva
anche il pericolo di collassare. I critici della Compagnia asserivano
che i gesuiti erano degli opportunisti e che i loro atteggiamenti
avevano prodotto due tipi di eccessi: da un lato si erano troppo
accostati alle popolazioni indigene, tollerando distorsioni della
religione cattolica; dall'altro, si erano messi alla mercé delle grandi
potenze e avevano accettato l'idea che niente fosse più convincente di
una spada. «La contiguità con il potere» commenta Filoramo «aveva
suscitato gelosie e rivalità». CADUTA E RINASCITA. I gesuiti nei secoli furono incolpati di aver fomentato il massacro degli ugonotti nella Notte di San Bartolomeo (1572); di aver organizzato la congiura per eliminare Giacomo I d'Inghilterra (1606); di aver sparato a re Giuseppe di Portogallo (1758). Nel loro mirino ci sarebbero stati il Re Sole, Elisabetta I d'Inghilterra, Guglielmo d'Orange, Abraham Lincoln. Avrebbero custodito tesori immensi e praticato la magia nera, corrotto e sottratto fondi agli Stati. Spesso erano voli di fantasia. Ma qualche volta no. Nel 1759, l'ordine fu bandito dal Portogallo e molti adepti furono arrestati; poi toccò alla Francla. Nel 1773, "per il bene della pace cristiana" e sotto le spinte illuministiche, un'epistola di papa Clemente XIV sciolse la congregazione e il padre generale, Lorenzo Ricci, fu messo in cella. Prima di morire, rigettò tutte le imputazioni. I gesuiti, grazie a Caterina II (poco incline a eseguire gli ordini del pontefice), sopravvissero in Russia (Ortodossa). L'oblio durò fino al 1814, quando Pio VII decise di riammettere la Compagnia. Con i gesuiti, si rifecero vivi nemici vecchi e nuovi. L'ex presidente Usa John Adams scrisse: "Ci sarà da meravigliarsi se il loro ritorno non metterà a dura prova la purezza del nostro sistema elettorale". Fu un timore infondato. Oggi, forti di 50 santi e 150 beati, le missioni gesuiti che sono nelle aree più povere del mondo. L'elezione dell'arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, a primo pontefice della Compagnia, onora anche loro. Michele Scozzai da Focus Storia |
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Lo stato d'animo di Pio IX in questo periodo è
così riassunto dal conte Siccardi, inviato sardo a Gaeta
(Siccardi a d'Azeglio, Napoli 28 X
49, in G. RATTI, Contributo alla biografia di Giuseppe Siccardi…. Torino
1968, pp .. 107-197, passo citato p. 191):
“il papa non fa più nulla; al
povero uomo riescì così male quel che da principio egli fece da sè, che
ora lascia. far tutto agli altri, dei quali il più influente e forse il
più destro è Antonelli… Il buon Pontefice è angustiato, trovasi
circondato da malcontenti che più o meno riverentemente parlando di lui,
gli vanno rimproverando la condizione in cui sono caduti per aver egli
concesso troppo"
Fatto conte da Carlo Alberto nel 1846, fu consigliere di Corte di Cassazione del Regno di Sardegna nel 1847 e trattò invano con lo Stato pontificio la modifica del Concordato nel 1849: alla fine di quello stesso anno fu nominato senatore e ministro della Giustizia e degli Affari ecclesiastici, presentando al Parlamento le leggi che portano il suo nome. Si dimise da ministro della Giustizia l'8 febbraio 1851. Gran cordone dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nel 1855 è sepolto nel Cimitero monumentale di Torino. |
Pio
IX (1846-1850) Di Padre Giacomo Martina gesuita della Pontificia
Università Gregoriana |
OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
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Le reazioni E poi c'è il mondo ebraico. Il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane ha voluto ricordare ciò che questo Papa è stato per gli italiani: "Dopo una prima fase, è stato duramente antinazionale e ha stabilito l'infallibilità del Papa, principio preoccupante per gente come noi abituata a discutere e a confrontarsi. Ma è stato anche il responsabile del caso Mortara (un bambino ebreo di Bologna sottratto alla famiglia perché battezzato di nascosto dalla domestica), che ha portato tanto dolore nelle nostre comunità". Da cronologia.it |