La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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   Luigi Capello    

CAPORETTO PERCHE' ?

         La 2a armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917

 

INTRODUZIONE di Renzo De Felice dalla ed. 1968

…Uno di questi problemi generali - forse quello che risulta più nettamente dagli interrogatori del Gen. Capello e dalla sua successiva « memoria» - è quello della mentalità, dello spirito che presiedevano al meccanismo del funzionamento e delle decisioni degli alti comandi. Le osservazioni del generale Capello su questa mentalità e su questo spirito, sull'«ambiente» che essi determinavano, permettono di valutare in concreto le deficienze di questi stessi comandi e le loro conseguenze non solo sul piano strettamente tecnico-militare, operativo, ma anche su quello - molto più importante storicamente e che, oltre tutto, molto spesso agiva sul primo - della conduzione « politica» delle operazioni stesse e delle motivazioni dei contrasti che travagliavano gli alti comandi. Alla radice di questi contrasti vi erano certo motivazioni di tipo personale, più importanti erano però certamente quelle di tipo «strutturale », connesse cioè alla diversa mentalità e formazione dei generali più anziani e di quelli più giovani (complemento o richiamati), formatisi molto spesso negli anni della guerra. Se si volesse schematizzare questo aspetto dei contrasti, si potrebbe dire che esso, da un lato, era il riflesso della inadeguatezza delle dottrine tattiche tradizionali a un tipo di guerra assolutamente diverso dal previsto e caratterizzato dal ruolo decisivo di una potenza di fuoco prima inconcepibile, contro la quale nulla potevano i classici accorgimenti tattici, e, da un altro lato, il frutto di un diverso modo di concepire i rapporti con l'autorità politica. L'esercito italiano era stato, sin dai tempi delle polemiche garibaldine successive al '60 e soprattutto in seguito alle sconfitte del '66 e d'Africa, tutt'altro che indiscusso; episodi relativamente recenti, come quello - in sé trascurabile - della « cattura» durante la « settimana rossa» (1914) del generale Agliardi e la violenta campagna antimilitarista scatenata dall'estrema sinistra avevano a loro volta contribuito a scuoterne il prestigio nel paese. Né la situazione era molto migliore per quel che riguardava la classe dirigente: molti uomini politici nutrivano scarsa stima per il ceto militare e sino allo scoppio della guerra nel '14 avevano considerato con indifferenza i problemi dell'esercito; i maggiori esponenti di questo avevano a loro volta a lungo praticamente incoraggiato tale indifferenza negando sistematicamente al parlamento e ai « politici» (che pure criticavano ed accusavano di insensibilità per le necessità militari) ogni ingerenza nelle questioni dell'esercito. In questo clima - mentre le esigenze della guerra moderna avrebbero dovuto portare ad una sempre più stretta collaborazione tra militari e politici e ad una effettiva direzione « politica» della guerra da parte dei secondi - l'intervento italiano era stato caratterizzato per quel che riguardava i rapporti Governo - Comando Supremo da una totale rinuncia del potete politico ad ogni ingerenza nella condotta delle operazioni militari, che era rimasta affidata esclusivamente al capo di S.M.G, al punto che nel maggio del '16 (in occasione della Strafexpedition) il governo non riuscì neppure ad ottenere che nel caso di una ritirata dall'Isonzo il generale Cadorna lo preavvertisse in modo che esso potesse partecipate all'eventuale decisione. Dopo la Strafexpedition (finita in nulla) si ebbe una crisi molto grave. Persa la fiducia in Cadorna, per la prima volta il governo pensò seriamente ad una sua sostituzione e se non ne fece nulla, decise però di tenere pronto il successore. Si arrivò cosi, nell'estate del '16, alla conquista di Gorizia, che costituì il fatto nuovo della situazione. Il prestigio di Cadorna tornò a salire. Ma il capo di Stato Maggiore Generale (SMG) fece un gravissimo errore: pensò di approfittare dell'occasione per risolvete a tutto proprio vantaggio i rapporti con il governo. Cadorna scrisse a Boselli di non riconoscere altri intermediari tra sé e il governo all'infuori del ministro della Guerra; e, come se ciò non bastasse, approfittando della debolezza di Boselli, diramò un ordine che vietava a qualunque ministro di entrare nella zona di guerra. Di fronte a questo atteggiamento, neppure la conquista di Gorizia valse ad assolvere Cadorna agli occhi dei suoi critici ….. la conquista di Gorizia aveva fatto sorgere nel firmamento militare italiano due nuovi astri, il cui prestigio poteva essere contrapposto a quello di Cadorna, quello del duca d'Aosta e quello del generale Capello: secondo, negli alti comandi si era ormai fatta strada una nuova generazione di generali e di alti ufficiali più o meno apertamente critica verso Cadorna, il suo modo di dirigere le operazioni e soprattutto il suo entourage del Comando supremo, e pronta ad appoggiarsi ai «politici» (si pensi a quello che fu il « caso Douhet» http://digilander.libero.it/trombealvento/indicecuriosi/temerari1.htm ) .

 

A questo punto una domanda è d'obbligo: chi era il generale Capello?

(controversi a questo punto i giudizi e i confronti Cadorna- Capello che De Felice riporta da contemporanei e quindi vediamo il suo profilo "politico" dalle stesse parole di De Felice)

Nota del sito: Non si può riassumere in queste poche righe la personalità di Capello e quindi lascio al lettore la ulteriore analisi. Debbo per conto mio rilevare continue incongruenze e salti di valutazioni, che in parte  vorrebbe a suo discarico (per la responsabilità contestatagli dalla commissione d'inchiesta. Il libro fu scritto nella primavera del '18 come memoria difensiva). Uno di questi è il suo rapporto coi sottoposti, come dice anche De Felice, e la sua "mania" di rivolgersi direttamente al soldato ignorante e obbligato alla guerra anziché fare opera sui suoi diretti sottoposti gli Ufficiali di ogni ordine e grado. Che credesse di essere un tribuno in stile Marcantonio è fuor di dubbio. Questi concioni, rivolti a gente che a malapena capiva l'italiano, furono anche quelli che ne disegnarono una figura minacciosa e ne tramandarono la personalità "forte" e "cocciuta". Preciso: gli animali non percepiscono  il tuo parlare ma il tuo tono e questo deve essere accaduto. Un profilo di Capello era già stato disegnato qui http://digilander.libero.it/fiammecremisi/carneade/capello.htm  

..Per un verso o per l'altro, tutti coloro che hanno scritto di Capello non sono riusciti a offrirci una chiave valida a capire né perché gli avversari di Cadorna scegliessero Capello e non altri come l'uomo da contrapporre al capo di SMG, né i termini reali del contrasto Cadorna-Capello, né fino a che punto Capello fu partecipe di questa « congiura» (e, se lo fu, come mai si giunse ad una conciliazione tra Cadorna e lui). Una risposta sicura a questi interrogativi ci pare non possa - come vedremo - essere ancora data. Utili elementi ci sembra si possano però desumere da un esame riavvicinato della formazione e della carriera di Capello. Capello proveniva da una famiglia borghese, neppure molto agiata. Il padre era un funzionario dei telegrafi e fu lui che lo avviò alla carriera militare; il futuro generale di Gorizia e della Bainsizza avrebbe infatti preferito intraprendere un'altra strada, quella degli studi scientifici. Fu cosi che Capello entrò, più per motivi economico-famigliari che per vera vocazione, alla scuola militare nel I875. Uscitone col grado di sottotenente, nel I884 frequentò la scuola di guerra. Di questo periodo nell'archivio privato Capello (al quale si riferiscono i documenti inediti che citeremo d'ora in avanti) si conservano due suoi studi storico-militari sull'arte militare nel I789-97 (Rivoluzione Francese) e sulla campagna d'Egitto del Bonaparte, che sono di per se stessi indicativi di un certo orientamento culturale. Una seconda peculiarità non priva di interesse è costituita dal tipo di carriera che Capello fece, una carriera né rapidissima (come ha notato il Silvestri, provenendo da una famiglia borghese non aveva «l'obbligatorietà della fortuna» caratteristica dei principi del sangue e dei nobili da generazioni avviati alla carriera delle armi) né senza incidenti. Il più importante di questi fu, nel I893, un improvviso trasferimento per punizione da Napoli a Cuneo per aver pubblicato una serie di articoli di carattere militare sul «Corriere di Napoli ». .. Il secondo, del I3-I4 settembre dello stesso anno, molto critico verso lo «spirito di casta» dominante nell'esercito italiano (a cui Capello contrapponeva l'esigenza di una «libertà di critica ») e verso il criterio «tutto burocratico» dell'avanzamento per anzianità (a cui contrapponeva quello più « razionale» della scelta per merito). Dopo questo incidente la carriera di Capello prosegui senza gravi scosse: nel I904 comandante di reggimento, nel I910 di brigata, nel 19 I 3, dopo aver partecipato alla guerra di Libia e esservisi distinto, di divisione. Per questo periodo è da segnalare il vivo interesse dimostrato da Capello (che nel 1912 diede anche alle stampe un opuscolo dal titolo Guerra ed educazione fisica) per una razionale preparazione ginnastica delle truppe. Una terza peculiarità, anche più significativa, è infine costituita dalla posizione politica di Capello. Che egli durante la guerra e dopo fosse massone è notissimo, ignoto è invece quando lo fosse diventato. l documenti da noi consultati non permettono di stabilire ancora una data. riassumo dal testo il passo seguente

http://www.altopiano7comuni.it/home/detail.asp?iData=1182&iCat=476&iChannel=24&nChannel=Articles   

Nel 1912 Capello era già al 30° grado, Cavaliere dell'Aquila Bianca e Nera (Garibaldi arrivò a 33) alla loggia di Torino. Le sue circolari (1914 Italia ancora neutrale) ai sottoposti indicano l'approccio da tenere nei confronti dei soldati .."spieghino e dimostrino al soldato l'andamento della battaglia moderna colle sue alternative di successi e insuccessi..e col numero enorme di feriti e di morti.." Il suo Q.G. registrava un continuo afflusso di deputati socialisti così come andava d'accordo con Padre Semeria che osava mettersi in urto con la potente Duchessa d'Aosta preferendo al suo servizio sanitario quello della Croce Rossa inglese più efficiente. Nell'autunno del '16 comunque Capello viene "degradato" e mandato a reggere un C.d.A con superiore un suo ex inferiore (divisionale) il Gen. Mambretti........ dopo Caporetto Capello fu per un breve periodo al comando della Va armata (resti della 2a e altri sbandati tanto da farla sembrare una armata di punizione: era anche chiamata l'armata delle trincee di Custoza quando i Francesi, esperti in ritirate, la buttarono sulla tragedia) poi esautorato da ogni incarico con l'avvio della commissione d'inchiesta che portò a questo libro memoriale...

 

CAPELLO E GLI UFFICIALI

Ieri visitai il I battaglione 33° fanteria a S. Andrat. Vi riscontrai disciplina, ordine, pulizia. Anche le armi erano tenute con cura. L'impressione che ne riportai fu, nel complesso, buona. Senonché l'aspetto delle truppe, se era tale da soddisfare l'occhio di chi si appaghi dell'apparenza esteriore delle cose, colpiva invece molto sfavorevolmente chi, avendo cura d'anime, attraverso la forma, faccia ricerca della sostanza vitale. Il volto di tutti quei soldati era una maschera impressionante di tristezza. Non di quella tristezza irosa molto appariscente, sotto la quale resta in potenza, sintomo di vitalità che sopravvive - la reazione di domani, bensì di una melanconia calma, soffusa di indifferenza e di passività, che è chiaro segno di incapacità di reazione e di rassegnazione apatica al proprio destino. Pareva gente per cui la vita non avesse più speranza; erano occhi che non davano più lampi, erano bocche che non ridevano più,. Hanno speso qualcuna delle loro ore di riposo e un po' della loro anima i comandanti di quei reparti, per ottenere un rialzo di temperatura nell'anima dei loro soldati? no, assolutamente no. Il colonnello Salinas nella sua relazione sulle condizioni delle truppe si limitò alla constatazione dello stato di fatto. E di quello stato di cose davo contezza ai miei superiori. Un mese dopo notavo il verificarsi dello stesso fenomeno nelle truppe della brigata Lombardia. Casi potei riscontrarlo in seguito al XXII corpo, casi al V corpo, casi alla Zona di Gorizia e alla 2" armata. segue sotto

Ma sentiamo ancora il verbo Capello Dov'ero quella notte

L'anima delle masse è un elemento mobile, instabile, fluttuante, suscettibile di apparente stabilizzazione solo quando manchi l'intervento di cause perturbatrici. Ma in guerra un numero infinito di fattori - taluni eccitanti, ma per lo più deprimenti, preme senza tregua sullo spirito collettivo, mantiene l'organismo in perenne instabilità di equilibrio, lo rende nervoso impressionabile sensibilissimo, capace di eroismi epici o soggetto a subitanei accasciamenti. E siccome l'esito della guerra, più che al numero dei cannoni e delle mitragliatrici, è strettamente legato all'anima di chi combatte, così un comandante non può da questa astrarre nell'indirizzo della sua azione di comando ma deve nello stato d'animo delle proprie truppe trovare la base essenziale alla soluzione di qualsiasi problema di guerra. …Per la reazione io scelsi il sistema didattico psicologico, come quello che, a mio criterio, meglio risponde alle necessità pratiche. È maggiormente efficace un tal sistema nei nostri riguardi, in quanto la nostra gente, di massima, non legge o legge poco e male o quando legge non medita. Dal difetto non sono esenti gli stessi comandi. Tanto che uno dei motivi che mi costringeva a parlare personalmente e casi di frequente alle truppe era il dubbio che molti miei ordini non giungessero sino in basso o per lo meno fossero stati trasmessi con errori di interpretazione. Dubbio che troppe volte ebbi occasione di trasformare in certezza! Anche qui debbo citare la lettera « Ai miei più diretti e preziosi collaboratori» ed i numerosi richiami riflettenti la trascuranza degli ordini. In linea generale, poi, il sistema ha maggiore efficacia che non l'idea scritta, perché la parola detta dal comandante conferisce valore più reale a quanto egli prescrive, rappresenta una emanazione più diretta della volontà di lui e dà modo di non confonderla colla volontà «d'ufficio» o « d'ordine »....Ma essa purtroppo rimase isolata. E non parlo della forma, parlo della sostanza, giacché per un lungo periodo di tempo durante la guerra, l'importanza dei valori morali,  fu tenuta in non cale. L'esempio veniva dall'alto. L'entourage del comando supremo era formato di persone intelligentissime, attive, volonterose, ma impreparate al governo di uomini.  Quegli ufficiali, trovatisi per forza di cose a costituire i coadiutori principali del comandante in capo dell'esercito, non erano mai, la maggior parte, stati al comando diretto di truppe e consideravano l'uomo alla stregua di un materiale strumento di guerra.

... L'ordine del Comando supremo del giorno 10, concernente l'azione del VII cda fu diramato dal comandante interinale dell'armata, il quale in ordine del giorno 11 ottobre indicò con precisione il concetto dell'azione sopra la sinistra dell'Isonzo, ordinando che il comandante del XXVII corpo d'armata (Badoglio) gli riferisse poi sugli accordi presi. Già io in quella conferenza in cui avevo richiamato l'attenzione del comandante del XXVII corpo sull'importanza della posizione di Monte Jeza avevo ordinato di riferire tutti i dettagli dei provvedimenti presi, referto che se vi fu non potei conoscere perché dopo la conferenza del 18, per consiglio dei medici, dovetti prendere quattro giorni di riposo assoluto, che mi erano indispensabili per esser pronto ad assumere la responsabilità del comando. In questo periodo avvenne un fatto caratteristico, purtroppo giunto tardi a mia notizia, la diserzione di due rumeni che indicarono la portata dell'azione, precisandone l'estensione a nord fino alla conca di Plezzo. In seguito a questo fatto, vi fu un colloquio tra il generale Cadorna e i generali Montuori e Badoglio. Ricordo che il IV corpo d'armata era stato portato fino a 55 battaglioni, che artiglierie erano state spostate in quella direzione e direttive erano state date sia per il caso di una difesa sulla prima linea, sia per il caso di ripiegamento sulla linea Matajur - Monte Maggiore.
Io seppi dell'imminenza dell'offensiva nemica il 22 sera a Padova, dove mi trovavo da due giorni, colto da febbre. Poiché si aveva soverchia fiducia in me ed i miei ufficiali dicevano che valevo più io ammalato che altri sani (era questo un loro apprezzamento e, se io lo espongo, è unicamente perché può spiegare molte cose), il mio amor proprio, il sentimento del dovere mi fecero forse presumere troppo delle mie forze e partii nella notte stessa per assumere il comando. Da Treviso emanai l'ordine del giorno di ripresa del comando, e sorridente e pieno di fede mi presentai a Cormons alle 2 del mattino del 23, ai miei ufficiali che attendevano trepidanti, e detti le prime disposizioni, poi partii per Udine, e di là, ottenute truppe ed artiglierie, detti ordine alla brigata Potenza (su tre reggimenti) di portarsi per la linea di Savogna verso lo Stol per rafforzare, da quella parte, il IV corpo, il quale alcuni giorni prima, per ordine diretto del generale Cadorna, aveva avuto già la brigata Foggia (anch'essa su tre reggimenti); impartii ordini per l'invio di alcune batterie alla stretta di Saga, disposi che non venissero ritirati pochi pezzi messi nella conca di Plezzo, provvedimento questo che aveva lo scopo di non far sentire sulle truppe della 50a divisione nell'imminenza dell'azione una dannosa ripercussione, ma che purtroppo (lo seppi soltanto giorni or sono) era già stato frustrato, perché il comando del corpo d'armata le aveva, in precedenza, fatte in fretta ritirare e il comando della 50' divisione, che io credevo ancora al di là di Saga, era già al di qua, anzi il quartier generale della 50a divisione era addirittura stato inviato a Bergogna. A tal riguardo il commendator Enea Cavalieri mi ha riferito l'impressione di un colonnello sulla grande preoccupazione di tutti gli ufficiali per il frettoloso spostamento indietro dei comandi; sembra, anzi, che a Bergogna si aspettasse anche il comando del IV corpo: io non lo so di positivo, e per questo ho citato la persona che mi ha data tale notizia. La sera del 23, riunii i comandanti di corpo d'armata, con molta serenità c con molta fiducia, feci presente la situazione ed ebbi l'impressione che i comandanti fossero tranquilli e tutti consci dei loro doveri. Dovetti poi ritirarmi non reggendomi più in piedi; però nella notte cominciai subito ad avere notizie del modo come si manifestava l'azione delle artiglierie.
Se è vero quanto si dice, pare che l'attacco nemico fosse stabilito per il 26 e che la diserzione dei due rumeni avvenuta il giorno 20 abbia indotto il comando nemico ad agire con precipitazione per evitare che, in seguito alle notizie da noi avute, vi fosse il tempo di prendere provvedimenti atti a meglio arginare l'offensiva. A dare parvenza di verità a tale asserzione sta il fatto che mentre, indubbiamente, il nemico aveva intenzione di sviluppare una particolare azione con i gas, essenzialmente sopra le nostre artiglierie, il tempo piovoso ed umido scelto dal nemico non era invece favorevole a tale azione con i gas, e sembrerebbe che il tiro con i gas non abbia avuto grande risultato. Inoltre, in base a tutte le notizie raccolte dagli osservatori (ed io nella notte sul 24, pur trovandomi a Cormons, benché ammalato, si può dire mi facessi informare ad ogni istante) risultò che il tiro nemico mancava assolutamente di quella preparazione di precisione necessaria per distruggere le prime linee, ed esso, come mi ha anche recentemente assicurato il generale d'artiglieria Sircana, non fu di massima diretto contro le prime linee, ma contro le artiglierie e le nostre linee di accesso e quelle di manovra. Indubbiamente, il nemico fu favorito dalla nebbia, ma ciò non basta a spiegare l'inefficacia della nostra artiglieria; vi era uno schieramento così potente, un concentramento di mezzi e di munizioni così importante, che anche un tiro non preciso fatto sui dati della [precisa e minuta] preparazione precedente, se fosse intervenuto a tempo, avrebbe dovuto raggiungere il risultato di arrestare il nemico. Invece, la fanteria ha dichiarato che l'artiglieria non ha tirato, come l'artiglieria ha affermato di non aver sentito il fuoco di fucileria e delle mitragliatrici; ben caratteristico palleggiamento di responsabilità di chi ha preso parte all'azione; del resto molte persone, che in quei giorni vidi accasciate e sparute, redassero dei rapporti nei quali affermarono che tutti si comportarono eroicamente. Cito un solo fatto caratteristico. Il capitano Casati, ufficiale valoroso ed onesto, che si trovava sulla fronte del XXVII corpo d'armata, raccontandomi, pochi giorni fa, come si erano svolti gli avvenimenti, mi disse che, venuto l'ordine di ritirarsi, la sera si trovarono tutti a Plava, ed alla mia domanda quanti fossero, mi rispose che erano 47; gli altri li trovò a Pradamano; ma in quell'attesa a Plava il capitano Casati mi assicurò di aver sentito degli ufficiali superiori discutere se a Mathausen avrebbero percepito anche il soprassoldo di guerra!. La condotta delle truppe, in un documento importantissimo che io redassi la sera del 25, dopo aver lasciato il comando, fu da me caratterizzata con queste parole: «se parecchi reparti fecero molto bene il loro dovere, altri non lo fecero o non facendo alcuna resistenza o facendola irrisoria ».
Ma anche considerando l'uomo come uno strumento, si deve tuttavia riconoscere la necessità; per ottenere un effettivo rendimento, di una speciale tempra che solo gli può essere conferita dalla più accurata preparazione tecnica e morale. Questo non si comprese che tardi. La sensazione di solitudine che rendeva talvolta amara la mia opera di fede è ancora per me un ricordo angoscioso. Quando io assunsi il comando della Zona di Gorizia, il IO marzo 1916, non tardai ad avvertire nelle truppe, dopo alcune mie visite, una notevole depressione morale congiunta all'esistenza manifesta di un vero e proprio generale malcontento, dovuta, la prima, alla durata della guerra e all' aumento della campagna disfattista nel paese e derivante, il secondo, dalle. frequenti sospensioni di licenze sulla fronte goriziana e carsica. Un simile stato d'animo mi riusciva inatteso: ben diverso era il morale delle truppe sulla stessa fronte, quando io nell' agosto del 1916 1'avevo lasciata!. lo stesso, il comandante, fui il primo assertore del nuovo vangelo e nel giro di poche settimane visitai tutte le mie brigate per rincuorarle colla mia presenza, per scuoterle, per elevarne il tono morale e disciplinare. Posso con orgoglio affermare che ben pochi erano i soldati appartenenti all'armata che non avessero sentita la voce del loro comandante. Ma la zona era troppo vasta, le brigate troppo numerose e troppo gravi e complesse le mie mansioni perché il mio personale ascendente potesse direttamente manifestarsi a tutti i reparti colla continuità e colla frequenza che il dilagare del male rendeva necessarie. Fu allora che organizzai su ampie basi l'azione di propaganda per mezzo di appositi conferenzieri che giornalmente dovevano portare alle truppe la voce della retta coscienza, della dignità, del dovere....  Ricordo che l'onorevole Federzoni (Luigi 1878-1967 nazionalista interventista di fatto fascista), che io aveva pregato di tenere al 127° reggimento fanteria una conferenza fu accolto con fischi.  E il fatto trova la sua ragione nella intensità con cui la funesta propaganda pacifista veniva esercitata su vasta scala. Una divisione germanica poté sbucare dalla testa di ponte di Tolmino, avviarsi per l'Isonzo, travolgere un battaglione della brigata Napoli, [passare indisturbata sotto gli altri 5 battaglioni di detta brigata] e poi alcuni reparti della brigata Foggia I ed arrivare a Caporetto. Mentre il comando del corpo d'armata non aveva più riserve in mano, il generale Basso, che si trovava a Caporetto, cercò di racimolare delle forze per arrestare la punta germanica colà arrivata, ma - egli lo dice nel rapporto -la gente, quando si accorse che avendo il fucile era fermata, lo gettò. Nulla fu fatto sul resto della fronte verso il Mrzli, il Monte Rosso, il Monte Nero; non si tentò in alcun modo quella manovra d'incapsulamento, per cui il terreno tanto si prestava, manovra che, mettendo in una specie di compartimento stagno le truppe che erano penetrate, poteva almeno temporaneamente arrestare il nemico anche superiore di forze. L'artiglieria non tirò, salvo l'eccezione di quella di Monte Pleca che continuò a sparare fino al pomeriggio e rappresentò un appoggio cui avrebbero potuto riattaccarsi altre unità. Non so che cosa il generale Farisoglio potrà dire a sua discolpa. Anche consultando documenti nemici, si ha l'impressione che qualche cosa di più e di meglio si poteva fare e che il nemico sia giunto a Caporetto come se avesse fatto una marcia di traslocazione, in tempo di pace, senza danni e senza perdite. Sul fronte di Tolmino le mitragliatrici pare non abbiano sparato; il comandante la divisione si è ucciso; il VII corpo, come da un balcone, ha assistito allo sfilare delle truppe nemiche. In una conferenza avevo esposto il vantaggio delle riserve in alta montagna che permettono di piombare contro il nemico in basso con effetto materiale e morale, invece nulla si è fatto, mentre una controffensiva delle brigate del VII corpo, condotta a fondo avrebbe, senza dubbio, portato ad un risultato utile. Si è arrivati al punto di incaricare delle indagini sulle cause della disfatta il T.Gen. Negri di Lamporo, comandante di una delle divisioni (la 3') di quel VII corpo, che più d'ogni altro, avrebbe dovuto agire e non agi; egli naturalmente è venuto alla conclusione che tutti hanno fatto il loro dovere, che l'artiglieria ha sparato - egli proveniva dall'artiglieria - e che tutto il difetto stava nelle linee di difesa. Vi furono, è vero, degli atti di eroismo; i bombardieri al Globocak presero il fucile; la notte del 25 i bersaglieri di Boriani ripresero il Globocak; un contrattacco sulla Bainsizza fruttò seicento prigionieri, e se l'attacco fosse stato fatto con forze superiori, avrebbe certamente dato risultati più fruttuosi.
Lo stesso giorno del 24, appena ebbi la sensazione di quello che succedeva, io richiamai i comandanti di corpo d'armata agli ordini dati incitandoli a scagliarsi tutti contro il nemico, ed il mattino del 25, esaminata la situazione, telegrafai loro di rendersi conto che soltanto deboli forze nemiche erano entrate nelle nostre linee e li esortavo ancora ad avere un esatto concetto delle loro forze e contrattaccare; ma non riuscii ad ottener nulla. E con raccapriccio vidi che molti soldati di quelle brigate che avevamo mandato sulla linea Korada-Purgessimo-Madlessena, invece di andare innanzi, si univano a coloro che andavano indietro. Intanto, le mie condizioni di salute peggioravano; il medico il 23 mi volle fare esaminare le urine nelle quali si trovò del sangue, ma egli non mi disse nulla; avevo ben altro da pensare; la notte dal 24 al 25 fui colto da vomito, da crampi, da orribili spasimi di cefalea; eppure ebbi ancora la forza di emanare ordini alle truppe, di incoraggiarle, di incitarle a rendersi conto della loro potenza. A un certo momento, il medico mi disse che una catastrofe poteva avvenire da un momento all'altro, e che non rispondeva della mia vita. Risposi: « Poco importa se finirò per una convulsione o per una palla ». Poco dopo, egli ritornò, dicendomi che potevo non essere padrone dei miei atti. Feci allora chiamare il mio capo di Stato maggiore desiderando che egli, prima di qualsiasi altro, si rendesse conto degli atti che commettevo. Poi desiderai di rimanere solo un momento, mi concentrai in me stesso, e presi serenamente la mia decisione: mi feci trasportare a Udine. Mi presentai al generale Cadorna e con grande tranquillità (lo dico con orgoglio, perché il nemico ha affermato che i comandanti avevano perduta la testa: io non l'ho perduta mai) gli dissi la mia opinione: si era prodotta una falla morale che era difficile chiudere, gli feci presente che non rientrava nella mia competenza stabilire se, data la situazione, si doveva gettare nella voragine tutto quanto avevamo o ripiegare più indietro per poter dominare gli eventi. Soggiunsi che io avevo otto brigate intatte, che non avevo bisogno delle cinque divisioni che voleva danni, poiché potevo disimpegnare altre truppe sui fronti del II, del VI e dell'VIII corpo d'armata. Il generale Cadorna mi domandò quale, a mio parere, fosse la linea di ripiegamento. Risposi: [almeno fino al Torre, probabilmente e meglio forse] il Tagliamento. E ciò dissi perché il Monte Maggiore, dopo quanto avevo già cominciato ad intuire per quello che già era avvenuto al Matajur, non mi dava troppo affidamento, essendo troppo vicino alle linee nemiche; il Monte Maggiore è caduto come il Matajur; le nostre truppe si sono ritirate perché temevano di essere aggirate. Tutti credevano di rimanere aggirati; nei vari rapporti, nei quali ogni comandante dichiara di aver fatto il proprio dovere, la sostanza è comune. « lo non mi sarei ritirato, se non si fossero ritirati alla mia destra ». «lo non mi sarei ritirato, se non si fossero ritirati alla mia sinistra » ...
Nessun mezzo era lasciato intentato per corrompere l'anima del soldato. Quando io fui ricoverato all'ospedale di Verona, fra i libri di lettura che, a mia richiesta, mi erano stati consegnati trovai qualche opuscolo inspirato a propaganda pacifista. Chissà da quanto tempo durava quello stato di cose! Fra gli altri mezzi, mi servii per la contropropaganda anche dei cappellani. Ne conobbi degli ottimi, particolarmente Don Carletti (Med. Oro alla Strafexpedition Ten. Capellano 207° fanteria della Br. "Taro"che si spreterà nel dopoguerra) che fece opera altamente patriottica ma per contro due di essi..... segue Né gli ufficiali stessi erano esenti dal male che, anzi, partecipando essi del medesimo stato d'animo esistente nelle truppe, mi era difficilissimo l'ottenerne la piena cooperazione nella lotta che io sostenevo in pro del rinvigorimento delle energie. Durante, dirò casi, i periodi apatici, che erano assai frequenti, il fenomeno si presentava in molti ufficiali sotto una forma di assenteismo spirituale, di assoluto disinteresse per quanto riguardasse l'esercizio non soltanto dei propri doveri verso i dipendenti ma anche degli stessi elementari diritti che il grado conferisce. Di qui la trascuratezza nell'eseguire gli ordini, la resistenza passiva alle disposizioni la cui applicazione richiedesse una doverosa attività, le difficoltà che ad ogni piè sospinto incontrava l'organizzazione della contro propaganda. Qual meraviglia, dunque, se la truppa era in massima lasciata nel più completo abbandono del corpo e dello spirito? Ricordo che, quando comandavo il XXII corpo, in occasione di una rivista da me passata ad un battaglione in una radura, nei boschi prossimi all'altipiano di Asiago, alla quale era stato posto il nome di « Piazzale Battisti» constatai nella truppa, compresi i graduati, la totale ignoranza dei motivi che avevano determinato quella denominazione. Chiesto finalmente se vi fosse qualcuno in tutto il battaglione che sapesse chi era stato Cesare Battisti, solo due o tre soldati uscirono dai ranghi e si dimostrarono informati, per le notizie - mi dissero - apprese dai giornali! Né il comandante di battaglione né alcun altro ufficiale aveva mai ritenuto necessario di intrattenere sull'argomento i propri reparti.
Ecco un altro elemento della difesa di Capello: il disfattismo e l 'ambiguità. Capello massone (sarà fra gli accusati dell'attentato a Mussolini nel 1925), si serve di un fascista nell'opera di propaganda. Stessi scopi stesso fine. Qualche giorno dopo, visitando un reggimento bersaglieri che pure era ben comandato, vi riscontrai una deplorevole deficienza di istruzione morale; tutte le cognizioni della truppa si limitavano alla conoscenza del nome di Alessandro Lamarmora. Ad esempio, nessuno sapeva che poche settimane prima Gorizia era stata strappata al nemico. Ancora. Un battaglione che per un'esercitazione era rimasto fermo una intera giornata in un bosco (era in riserva), non aveva avuto dal comandante - un capitano professore di filosofia - alcune parole di ammaestramento e per tutta la giornata era stato lasciato in ozio, sdraiato a terra.

“In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato istituito ai sensi dell’art. 7 legge 25 novembre 1926 n. 2008, composto dai signori (omissis) ha pronunciato la seguente sentenza nella causa contro Zaniboni Tito e Capello Luigi, generale d’Armata nella riserva.....Per questi motivi, il Tribunale letti gli art. (omissis) decide nel modo seguente: dichiara Zaniboni Tito colpevole dei reati d’insurrezione contro i poteri dello Stato, di tentato omicidio qualificato e di porto abusivo di fucile non denunciato e come tale lo condanna complessivamente a trenta anni di reclusione, a tre anni di vigilanza speciale della Pubblica sicurezza, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, a lire 360 di tassa fissa sulle concessioni governative e ad ogni altra conseguenza di legge. Dichiara Capello Luigi colpevole di complicità necessaria nei reati d’insurrezione e di tentato omicidio qualificato ascritti allo Zaniboni e come tale lo condanna complessivamente a trenta anni di reclusione.

Anche il comandante di battaglione aveva colto l'occasione per poltrire. … … Non tutti gli ufficiali, però, creati dalla guerra, possedevano le qualità necessarie per esercitare degnamente ed efficacemente il comando. L'imprevidenza del passato e le proporzioni assunte dalla guerra avevano determinato, naturalmente, la necessità di larghissime ammissioni al grado di ufficiale, ma la leggerezza del presente permise che l'ammissione si estendesse ad una quantità di gente priva, sia moralmente che intellettualmente, di qualsiasi capacità ad esercitare azione di comando e, per di più, impose il grado a individui che, quantunque forniti di titoli di studio, si erano adattati per lungo tempo ai più infimi uffici, pur di non essere esposti ai pericoli della guerra ed al peso di una responsabilità. È ovvio che l'opera di cosiffatti ufficiali non potesse riuscire che perniciosa. Si direbbe che a noi, più di avere quadri capaci, premesse di avere gli organici della forza al completo. Un coefficiente di depressione morale nei riguardi degli ufficiali è offerto anche dai metodi adottati per gli avanzamenti di grado. In guerra si dovrebbe escludere qualsiasi promozione a scelta che non sia conferita per meriti reali di guerra. Ma nel nostro esercito una folla di arrivisti scatenò un appetito insaziabile il quale, anziché essere frenato, venne sfacciatamente agevolato nella caccia all'avanzamento, a scapito della coesione, della disciplina, dei fattori morali. In conclusione, ripeto, i nostri quadri in generale non erano quali avrebbero dovuto essere ed in questo fatto sta una delle ragioni della disfatta. lo sono fermamente convinto che, se nell'ottobre scorso l'inquadramento delle truppe fosse stato migliore, si sarebbe potuto evitare il disastro o per lo meno limitarlo. In quei giorni gli ufficiali furono in gran parte impari alla loro missione, alcuni perché intinti nella stessa pece sparsa fra le truppe, altri perché, già impressionati a priori della possibilità della crisi morale verificatasi, videro nel fenomeno una fatalità contro cui era inutile lottare e, volenti o nolenti, si rassegnarono. Le cause del contegno degli ufficiali esplicitamente o implicitamente io già manifestai, ma una ragione essenziale riassuntiva, che vale sia per gli ufficiali che per la truppa e sulla quale in precedenza già mi sono soffermato, sta nella noncuranza in cui furono tenuti i valori morali. Gli impreparati, gli scettici, associati a coloro che affermavano che la guerra doveva ormai considerarsi meccanizzata, non avevano mai attribuito alcun valore all'uomo. Costoro avevano tratta la eresia psicologica che l'uomo non fosse che uno strumento per attivare macchine, dimenticando che si combatte coll'anima del cannone, ma si vince coll'anima umana

Trieste l'agognato obiettivo

I LAVATIVI

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Quando, a fine di novembre (1917), io cominciai a riunire le truppe della 5a armata e vidi affuirvi i resti di tante brigate, volli, per aver norma nelle parole da rivolgere a ufficiali e soldati, fare un'indagine sull'opera di quei reparti. La maggior parte di essi non aveva che un decimo della forza e qualche fucile, ma gli eroismi individuali e collettivi incominciavano già timidamente a far capolino. E tutto il resto della forza che era rimasto in mano al nemico o ancora girovago per le più lontane regioni d'Italia vivendo di elemosina o di rapina? Giunsero in seguito le relazioni scritte e l'eroismo si acuì e andò facendosi più evidente lo scarico di responsabilità sulle unità contigue e sulle autorità superiori. Ma ciò non bastava ancora; era pur necessario avere un alibi per mettersi al coperto delle responsabilità di fronte al paese e ... di fronte a se stessi, dare una sanzione appariscente a tanto ignorato eroismo. Di qui una serie di inqualificabili proposte di ricompense, anche per reparti il cui contegno era stato deplorevole. Cosi alcuni comandanti finirono per creare intorno a sé un nugolo di eroi ed è interessante seguire lo sviluppo psicologico di questa lenta resurrezione attraverso l'animo loro. In un primo tempo, caldo ancora il ricordo dell'avvenuto, ciascuno sentiva il peso della propria responsabilità; poi dissero che erano stati impotenti ad agire, poi che avevano tentato, ma invano, la reazione, poi che avevano reagito con buoni risultati, e finalmente che il contegno loro e dei loro reparti era stato superiore ad ogni elogio e riprovevole, invece, la condotta dei reparti laterali. E cosi l'abbandono delle posizioni, la triste teoria dei fuggiaschi cogli ufficiali passivi e incoscienti, tutto lo spettacolo miserevole di quei giorni, sarebbero fatti inesistenti? Ah! così fosse pur stato! Se una tale deformazione della verità è necessaria per il pubblico, sia; ma non si premi chi premio non merita, non si crei la coscienza che si possa impunemente in tal modo falsare la verità! presto o tardi ne pagheremmo amaramente il fio!

   

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