La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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         Qui non riposano

                  Indro Montanelli

Qui non riposano apparve per la prima volta in lingua tedesca, col titolo -Drei Kreuze-, nell'inverno del '45 (44/45) in Svizzera dove l'autore si trovava rifugiato. E fece scandalo perché offriva agli stranieri un ritratto dell'Italia sotto il fascismo e l'occupazione molto diverso da quello che tentavano di accreditare gli emigrati politici, cioè  i loro esponenti. Non minore scandalo esso suscitò  quando apparve in veste italiana e fu qualificato « cinico », «inopportuno» e « ribaldo ». Qui non riposano è stato tradotto in quattro lingue (edizione francese: Ici ne  reposent pas ; edizione spagnola: Tre cuces; edizione portoghese: Aqui nao se descansa, edizione olandese:  De opgejoagden) e la sua validità di documento resta definitivamente confermata. Ultimo, in ordine di tempo, è il suo successo in Francia dove lo si è paragonato a un romanzo di Gide. In realtà, i romanzi che questo libro racchiude sono tre, legati solo da un tenue filo, secondo la tecnica del Ponte di S. Luis Rey di Wilder, e ognuno di  essi è la storia di un italiano esemplare, nella quale ogni lettore potrebbe riconoscere la propria. «Il lettore non ha tempo di pensare» scrive Fernando Palazzi «trascinato come è dall'interesse travolgente del racconto, che è di quelli che vi afferrano con mano possente, e non vi permettono neppure di respirare finché non siete arrivati alla fine: voi siete ansiosi infatti di giungere alla fine, ma nello stesso tempo, a ogni pagina che voltate, sentite con dolore che la fine si avvicina rapidamente e che il vostro godimento sta per finire col libro»

Ha detto male di Garibaldi

 

Eppure, tutti vogliono che io muoia. Non lo volevano i miei compagni di carcere, loro no. Loro andavano alla morte e dicevano a chi restava in attesa del turno: « Cerca di farla franca almeno tu ».
Ma questi altri, quelli che in carcere non ci sono andati, loro vogliono che io muoia. Me ne sono accorto quando, salvato all'ultimo momento dal" Signor X" della Resistenza, sono giunto in terra straniera e neutrale. Allora ho incontrato qualcuno che mi ha detto « sei comunista?» '. E io ho detto: « No. »
E allora i comunisti hanno detto: « È un nemico. ». Ma dopo i comunisti lo hanno detto anche tutti gli altri che mi hanno fatto la stessa domanda e a cui ho dato la stessa risposta. « Non sono dei vostri.»
lo non sono dei loro. Ma chi non è con loro, è contro di loro. Lo diceva anche Mussolini. E io diventai antifascista appunto perché Mussolini diceva così e mi proibiva di non essere con nessuno. Io sono un uomo della strada, un uomo di trentacinque anni. Quando ne avevo dodici, mio nonno, che era liberale, mi mise addosso con le sue mani la camicia nera. Dopodiché lui rimase liberale, e io rimasi con la camicia nera. Non avevo altre da sceglierne. Eppoi mi piaceva. Continuò a piacermi per un pezzo. Poi non mi piacque più perché mi imponeva troppe cose: ad amare gente che non amavo, a odiare gente che non odiavo, a disprezzare gente che non disprezzavo. Poi non si contentò e volle entrare anche nelle mie faccende private. Mi proibì di sposare quella donna perché era ebrea, quell'altra perché era straniera. Quando me ne scelsi una, mi impose di considerare gli amplessi con lei come un servizio nazionale per la procreazione di altri figli che anche loro avrebbero portato la camicia nera, gridato viva il Duce ecc.. ecc... Non poteva continuare. Ecco ciò che sentivo io, trentacinquenne uomo délla strada: Che non poteva continuare. lo non volevo far politica. Ha il diritto un uomo della strada di non far politica? Ha il diritto un uomo della strada di dire che il governo ha fatto bene a far questo e male a far quest'altro?: Ha il diritto un giornalista, che è un uomo della strada, il quale va a vedere e a riferire le cose per conto degli altri uomini della strada, ha il diritto di riferire che i fatti si svolsero così e così, e che in essi c'era tanto di bello e tanto di brutto, tanto di giusto e tanto d'ingiusto?. No, il fascismo disse che un uomo della strada non ha tutti questi diritti. Ecco perché diventai antifascista. Non perché al posto di Mussolini ci volevo un altro, ma perché non ci volevo nessuno. lo volevo stare alla finestra. lo volevo avere il diritto di dire che il governo faceva belle strade, e in ciò era da lodare, ma spendeva troppi soldi per i cannoni, e in ciò era da biasimare. Io volevo avere il diritto di vedere un bel film americano invece che un brutto film italiano. Forse sbagliavo. Ma volevo avere il diritto di sbagliare e poi di accorgermi da solo dello sbaglio. E soprattutto volevo avere il diritto di non pensare alla politica, di disinteressarmi della politica, perché la politica la gente dabbene non la fa. La gente dabbene lavora in ufficio, viaggia, commercia, produce, ama una donna che può anche essere sua moglie (come è il mio caso), ama i suoi figli, ama la sua casa, paga le tasse, e di politica ne parla un quarto d'ora al giorno. Solo i messicani ne parlano dalla mattina alla sera. Se non ne ha voglia, non va nemmeno a votare, la nazione non crolla per questo. Si sottomette alla volontà della maggioranza, compiacendovi o brontolandone. Un uomo cosiffatto voleva diventare Antonio Bianchi. Il quale, essendo particolarmente curioso, vuole stare alla finestra: e per questo si è messo a fare il giornalista, mestiere di spettatore e non di attore.
Nossignori, lo hanno costretto ad agire. Per venti anni gli hanno detto: "Se non sei con noi, sei contro di noi". E intanto pensavano: "Ma se sei contro di noi, non ti lasciamo campare". Gli hanno detto: "O Roma o Mosca". E intanto pensavano: "Ma se non ti decidi per Roma, ti buttiamo in galera" . Infatti hanno finito per buttarmi in galera, per condannarmi a morte, per rompermi lo sterno e lesionarmi il fegato a furia di botte, per saccheggiarmi la casa, per deportarmi la moglie. E tutto questo perché? Perché non ero con loro e perché, fra Roma e Mosca, io volevo scegliere Parigi o Londra.  Credevo che fosse finita. Credevo, dopo sette mesi di sciagure, di esser mi guadagnato questo diritto a non scegliere, a stare alla finestra, a non agire, a essere spettatore, a far la vita di Antonio Bianchi, uomo della strada, che gli altri uomini della strada mandano a giro pel mondo perché veda per loro e per loro racconti i fatti, come si svolgono. I miei compagni di galera non mi hanno mai contestato questo diritto e non mi hanno mai chiesto se ero stato balilla o no. Ma loro sono tutti morti. E quelli di fuori sembrano pensarla diversamente. Chi non è con loro, è contro di loro. Ma chi è con uno di loro, è contro altri quattro o cinque di loro. Essi sono i puri. I puri santi assomigliano ai puri criminali e ai puri pazzi. Tutti i puri si rassomigliano. Rassomigliano a Hitler. E Antonio Bianchi, uomo qualunque, è tutto ciò che c'è di più impuro. Egli ha detto male di Garibaldi: quello rosso, quello nero, quello bianco, quello verde. Perché è Garibaldi, in sostanza, che ha sempre finito per fregare il povero Antonio Bianchi.
Gli italiani rifugiati in Svizzera sono tutti Garibaldi. Me ne accorsi quando giunsi a Bellinzona. Non mi mandarono al campo perché ero verde in faccia. Ero verde in faccia per un travaso di bile. Avevo un travaso di bile per una lesione al fegato. Avevo una lesione al fegato perché i tedeschi mi ci avevano picchiato sopra. Mi ci avevano. picchiato sopra perché un giorno, uscendo dalla mia cella in prigione, mi ero avventurato a, portare un po' di viveri ad alcuni ebrei, il che era considerato delitto gravissimo. Ma al campo di Bellinzona un ebreo mi ammutinò contro gli altri inquilini dicendo che io ero antisemita. Cercai di ricordarmi dove, come e quando ero stato antisemita. Lo ero stato il giorno in cui avevo raccontato la vita eroicomica della signora Lupescu. La signora Lupescu era ebrea. Avevo detto male di Garibaldi. A Lugano trovai un comunista.  « Non possiamo dimenticare » mi disse "che tu sei quello che ingannò l'opinione pubblica Italiana sulla Russia al tempo della guerra 'di Finlandia" Infatti avevo scritto che i russi avevano commesso una porcheria e ne avevano buscate. Avevo detto male di Garibaldi. Poi trovai un democratico. « Non possiamo dimenticare » mi disse « che tu gettasti il discredito sulla forza militare delle democrazie al tempo della guerra di Norvegia.» .  Infatti avevo scritto che gli anglo-francesi avevano perso in Norvegia. Avevo detto male di Garibaldi.  Un giorno un americano mi chiese se era vero che il governo di Washington mi aveva espulso. Questo non era vero. Ma un Garibaldi italiano era andato a denunziarmi ai Garibaldi americani come nemico della patria (americana). Allora io dissi che gl'italiani che denunziavano altri italiani agli americani non erano meno porci degl'italiani che denunziavano altri italiani ai tedeschi. E anche questa volta dissi male di Garibaldi.

http://estonianbloggers.blogspot.com/2011/07/lestonia-in-un-articolo-del-1938.html

La missione "Estone"

Al rientro in patria, un anno dopo (l’Estonia), il direttore del Corriere della Sera mi offri di andare al suo giornale. Me lo offri di sua iniziativa e contro la manifesta volontà del superiore ministero. Di ciò gli serbo tuttora gratitudine. Fu convenuto che non mi sarei occupato di politica, ma solo di corrispondenze di viaggio e di letteratura. Il Corriere di fascista, non aveva che il direttore e qualche collaboratore, ma pochi e modesti: il grosso della redazione era antifascista. Era stato tacitamente stabilito che il direttore fascista avrebbe coperto le responsabilità dei redattori antifascisti, i quali venivano mantenuti al loro posto e stipendio. Ecco una cosa di cui questi antifascisti si dimenticarono un po' troppo il 25 luglio, quando il direttore fascista dovette abbandonare la sua poltrona. Non ci poteva restare, d'accordo, e lui stesso lo capi. Ma c'era modo e modo di metterlo alla porta. Quest'uomo, per quindici anni, aveva protetto e difeso i suoi redattori antifascisti, aveva mantenuto quasi intatta la vecchia compagine creata da Albertini, e quando Barzini junior fu mandato al confino per aver detto all'ambasciatore d'Inghilterra che" l'Italia non vuole la guerra,. ma quel pazzo delinquente di Mussolini ci condurrà' alla catastrofe", il suo direttore, che lo aveva pericolosamente difeso, andò a salutarlo alla stazione. Devo dire che sul piano umano il direttore fascista del Corriere fu alla prova dei fatti parecchio al di sopra di molti redattori antifascisti.

Un giorno Piero Parini mi mandò a chiamare e mi offri di mandarmi in Estonia quale direttore dell'istituto di cultura di Tallinn e lettore di letteratura italiana all'università di Dorpat. Gli risposi che non ero professore, che parlavo poco il tedesco e punto il russo, lingue probabilmente necessarie in quella marca di frontiera germano-sovietica, e che non avevo tessera del partito. Parini ribatté che stavo rispondendo a domande che non mi aveva fatto e che mi conveniva accettare. Era chiaro che c'era un ordine preciso. Facevano sempre così. Il fascismo non perseguitava. Mussolini era troppo furbo per creare dei martiri. La tattica consisteva nell'allontanare l'indesiderabile esiliandolo in periferia e in un posto in cui non potesse nuocere; ma dandogli di che mangiare comodamente. La periferia toccata in sorte a me era l'angolo più lontano, più squallido e più morto. Ma io avevo ventotto anni. In Estonia gli studenti di Dorpat, quando per la prima volta mi presentai in cattedra, mi fecero, con molta educazione, una dimostrazione ostile. Vennero in massa alla mia prolusione e io mi stupii che ci fosse tanta gente, laggiù, a saper l'italiano. Ma, dopo cinque minuti di lezione, cominciarono a uscire finché non ne rimase che un paio di dozzine. Mi domandavo che razza di strana usanza fosse quella. Me lo spiegò uno dei disertori, quando ebbi finito. Mi si avvicinò con un grande inchino e mi disse che quella era stata, nelle intenzioni, una dimostrazione di protesta. Protestavano non contro la mia persona che era -disse- simpaticissima, ma contro la mia qualità di italiano fascista. Che scusassi, e che dopo questa protesta "di principio" non temessi più nulla: avevano eseguito una formalità, ora tutto era a posto. Andai dal ministro dell'istruzione, che si chiamava Jackson e che era un colonnello. Gli spiegai come stavano le cose. Gli dissi chi ero io e come la pensavo. Ahimè, il colonnello (come quasi tutti i colonnelli di quasi tutto il mondo), era fascista. Si arrabbiò perché non mi ero arrabbiato e minacciò di fare uno scandalo se i dimostranti non mi chiedevano scusa. Era una situazione imbarazzante. A scusarmi volevo essere io, e a spiegare che, se fascista era lo stato italiano, fascista non era grazie a Dio la sua cultura e nemmeno il suo indegno rappresentante. E invece il colonnello pretendeva il contrario. La cosa fu arrangiata direttamente tra me e uno degli studenti: era un bravo ragazzo, si chiamava Turvo Turviste e adorava l'Italia (quella vera). Da allora diventai popolare. Fui invitato nelle corporazioni. Tenni a richiesta delle conferenze sul pensiero democratico italiano nel Risorgimento. Si fondò una società di "Amici dell'Italia" presieduta da un deputato socialista, e l'università mi diede una stanza per tenervi le riunioni. In questa stanza c'erano un 'tricolore e un ritratto di Mazzini. Quando i russi invasero l'Estonia nel '40 il mio amico Turviste con altri suoi compagni trassero in salvo la bandiera e il ritratto nascondendoli nei boschi.

L'Estonia era un paese piccolo, borghese, rustico e libero. Contava poco più di un milione di abitanti, e la sua capitale 130.000. Le donne erano molto belle e gli uomini molto brutti. Le donne molto belle punivano gli uomini molto brutti della loro bruttezza tradendoli all'infinito. Il presidente della repubblica era Paets, ex-fittavolo che amministrava il paese come un tempo aveva amministrato il suo fondo. Non c'erano lotte di partito. Comandavano, a larghissima maggioranza, i socialdemocratici. Poi c'era, screditato, un piccolo gruppo di fascisti. Di comunisti, non ne esisteva. Questo fu il fenomeno che m'in curiosi. Eravamo alle porte della Russia, e il russo lo parlavano tutti. Nei cinematografi si davano i film russi insieme a quelli americani, ma tutti andavano a vedere i film americani. Arrivavano i libri russi, ma nessuno li leggeva. Le mamme dicevano ai bambini, quando facevano i capricci: "Se non stai buono, ti mando in Russia dai bolscevichi". Lo dicevano le mamme contadine e proletarie, non quelle borghesi.

Il modello degli estoni era la Svezia: uno stato socialista e ricco, dove gli operai alla sera si mettevano in smoking e i loro figli andavano all'università. Lo scopo supremo della loro politica era la fusione dell'intesa baltica (Estonia, Lettonia, Lituania) con quella scandinava in un blocco quasi federalistico con Stoccolma per capitale, lo svedese per lingua comune e un programma socialdemocratico per idea-madre. In tutto il Nord il prestigio della Svezia era immenso, e questo prova che il prestigio di un popolo non ha niente a che fare con l'attributo ufficiale di "Grande Potenza ". Fu un anno di lavoro. Avevo una notevole biblioteca, e lessi molto. Impiegai i mesi di vacanze per un viaggio in Svezia, Islanda e Finlandia. La Norvegia la conoscevo bene di già. I miei amici erano francesi e polacchi. Da un mio lungo soggiorno a Varsavia data il mio amore per quel paese nobile e disgraziato: un amore che, al tempo della guerra tedesco-polacca, mi costò l'espulsione da Berlino. I polacchi erano allora in piena euforia nazionalistica. Pensavano di annettersi la Lituania  e di costituire una sola grande repubblica dal Baltico al Mar Nero.

Il mio nazionalismo era guarito da un pezzo, ma se ancora un poco me ne restava addosso, la cura omeopatica che ne feci in quei paesi, di nazionalismo ammalati, me ne guarì per sempre. Morivano di fame e sognavano imperi. In zone etnicamente mescolate (tutte le zone dall'Oder in là sono mescolate) gli odi razziali divampavano feroci da una casa all'altra in mezzo alla miseria comune. Il mio amico Paleckis diceva che solo il comunismo poteva mettere a posto le cose in quell'Oriente europeo. Paleckis era allora un piccolo giornalista lituano, debole di carattere e di nervi. Uno dei pochissimi bolscevichi che incontrai lassù. Quando i russi invasero il suo paese, egli diventò presidente della repubblica sovietica lituana. Ma subito dopo tirò una sedia sulla testa di un commissario di Mosca. Le autorità di occupazione dichiararono che era pazzo e lo internarono in un manicomio degli Urali dove pare che sia morto. Fu - credo - il primo di una lunga serie di intellettuali europei che, dopo aver predicato che solo il comunismo poteva mettere le cose a posto, col comunismo, quando venne, ci rimisero la pelle.

 

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