La storia è racconto attraverso i libri Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito. 85 Qui non riposano Indro Montanelli |
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Qui non riposano apparve per la prima volta in lingua tedesca, col titolo -Drei Kreuze-, nell'inverno del '45 (44/45) in Svizzera dove l'autore si trovava rifugiato. E fece scandalo perché offriva agli stranieri un ritratto dell'Italia sotto il fascismo e l'occupazione molto diverso da quello che tentavano di accreditare gli emigrati politici, cioè i loro esponenti. Non minore scandalo esso suscitò quando apparve in veste italiana e fu qualificato « cinico », «inopportuno» e « ribaldo ». Qui non riposano è stato tradotto in quattro lingue (edizione francese: Ici ne reposent pas ; edizione spagnola: Tre cuces; edizione portoghese: Aqui nao se descansa, edizione olandese: De opgejoagden) e la sua validità di documento resta definitivamente confermata. Ultimo, in ordine di tempo, è il suo successo in Francia dove lo si è paragonato a un romanzo di Gide. In realtà, i romanzi che questo libro racchiude sono tre, legati solo da un tenue filo, secondo la tecnica del Ponte di S. Luis Rey di Wilder, e ognuno di essi è la storia di un italiano esemplare, nella quale ogni lettore potrebbe riconoscere la propria. «Il lettore non ha tempo di pensare» scrive Fernando Palazzi «trascinato come è dall'interesse travolgente del racconto, che è di quelli che vi afferrano con mano possente, e non vi permettono neppure di respirare finché non siete arrivati alla fine: voi siete ansiosi infatti di giungere alla fine, ma nello stesso tempo, a ogni pagina che voltate, sentite con dolore che la fine si avvicina rapidamente e che il vostro godimento sta per finire col libro» |
Ha detto male di Garibaldi
Eppure, tutti
vogliono che io muoia. Non lo volevano i miei compagni di carcere, loro
no. Loro andavano alla morte e dicevano a chi restava in attesa del
turno: « Cerca di farla franca almeno tu ». |
http://estonianbloggers.blogspot.com/2011/07/lestonia-in-un-articolo-del-1938.html |
La missione "Estone" |
Al rientro in patria, un anno dopo (l’Estonia), il direttore del Corriere della Sera mi offri di andare al suo giornale. Me lo offri di sua iniziativa e contro la manifesta volontà del superiore ministero. Di ciò gli serbo tuttora gratitudine. Fu convenuto che non mi sarei occupato di politica, ma solo di corrispondenze di viaggio e di letteratura. Il Corriere di fascista, non aveva che il direttore e qualche collaboratore, ma pochi e modesti: il grosso della redazione era antifascista. Era stato tacitamente stabilito che il direttore fascista avrebbe coperto le responsabilità dei redattori antifascisti, i quali venivano mantenuti al loro posto e stipendio. Ecco una cosa di cui questi antifascisti si dimenticarono un po' troppo il 25 luglio, quando il direttore fascista dovette abbandonare la sua poltrona. Non ci poteva restare, d'accordo, e lui stesso lo capi. Ma c'era modo e modo di metterlo alla porta. Quest'uomo, per quindici anni, aveva protetto e difeso i suoi redattori antifascisti, aveva mantenuto quasi intatta la vecchia compagine creata da Albertini, e quando Barzini junior fu mandato al confino per aver detto all'ambasciatore d'Inghilterra che" l'Italia non vuole la guerra,. ma quel pazzo delinquente di Mussolini ci condurrà' alla catastrofe", il suo direttore, che lo aveva pericolosamente difeso, andò a salutarlo alla stazione. Devo dire che sul piano umano il direttore fascista del Corriere fu alla prova dei fatti parecchio al di sopra di molti redattori antifascisti. |
Un giorno Piero Parini mi mandò a chiamare e mi offri di mandarmi in Estonia quale direttore dell'istituto di cultura di Tallinn e lettore di letteratura italiana all'università di Dorpat. Gli risposi che non ero professore, che parlavo poco il tedesco e punto il russo, lingue probabilmente necessarie in quella marca di frontiera germano-sovietica, e che non avevo tessera del partito. Parini ribatté che stavo rispondendo a domande che non mi aveva fatto e che mi conveniva accettare. Era chiaro che c'era un ordine preciso. Facevano sempre così. Il fascismo non perseguitava. Mussolini era troppo furbo per creare dei martiri. La tattica consisteva nell'allontanare l'indesiderabile esiliandolo in periferia e in un posto in cui non potesse nuocere; ma dandogli di che mangiare comodamente. La periferia toccata in sorte a me era l'angolo più lontano, più squallido e più morto. Ma io avevo ventotto anni. In Estonia gli studenti di Dorpat, quando per la prima volta mi presentai in cattedra, mi fecero, con molta educazione, una dimostrazione ostile. Vennero in massa alla mia prolusione e io mi stupii che ci fosse tanta gente, laggiù, a saper l'italiano. Ma, dopo cinque minuti di lezione, cominciarono a uscire finché non ne rimase che un paio di dozzine. Mi domandavo che razza di strana usanza fosse quella. Me lo spiegò uno dei disertori, quando ebbi finito. Mi si avvicinò con un grande inchino e mi disse che quella era stata, nelle intenzioni, una dimostrazione di protesta. Protestavano non contro la mia persona che era -disse- simpaticissima, ma contro la mia qualità di italiano fascista. Che scusassi, e che dopo questa protesta "di principio" non temessi più nulla: avevano eseguito una formalità, ora tutto era a posto. Andai dal ministro dell'istruzione, che si chiamava Jackson e che era un colonnello. Gli spiegai come stavano le cose. Gli dissi chi ero io e come la pensavo. Ahimè, il colonnello (come quasi tutti i colonnelli di quasi tutto il mondo), era fascista. Si arrabbiò perché non mi ero arrabbiato e minacciò di fare uno scandalo se i dimostranti non mi chiedevano scusa. Era una situazione imbarazzante. A scusarmi volevo essere io, e a spiegare che, se fascista era lo stato italiano, fascista non era grazie a Dio la sua cultura e nemmeno il suo indegno rappresentante. E invece il colonnello pretendeva il contrario. La cosa fu arrangiata direttamente tra me e uno degli studenti: era un bravo ragazzo, si chiamava Turvo Turviste e adorava l'Italia (quella vera). Da allora diventai popolare. Fui invitato nelle corporazioni. Tenni a richiesta delle conferenze sul pensiero democratico italiano nel Risorgimento. Si fondò una società di "Amici dell'Italia" presieduta da un deputato socialista, e l'università mi diede una stanza per tenervi le riunioni. In questa stanza c'erano un 'tricolore e un ritratto di Mazzini. Quando i russi invasero l'Estonia nel '40 il mio amico Turviste con altri suoi compagni trassero in salvo la bandiera e il ritratto nascondendoli nei boschi. L'Estonia era un paese piccolo, borghese, rustico e libero. Contava poco più di un milione di abitanti, e la sua capitale 130.000. Le donne erano molto belle e gli uomini molto brutti. Le donne molto belle punivano gli uomini molto brutti della loro bruttezza tradendoli all'infinito. Il presidente della repubblica era Paets, ex-fittavolo che amministrava il paese come un tempo aveva amministrato il suo fondo. Non c'erano lotte di partito. Comandavano, a larghissima maggioranza, i socialdemocratici. Poi c'era, screditato, un piccolo gruppo di fascisti. Di comunisti, non ne esisteva. Questo fu il fenomeno che m'in curiosi. Eravamo alle porte della Russia, e il russo lo parlavano tutti. Nei cinematografi si davano i film russi insieme a quelli americani, ma tutti andavano a vedere i film americani. Arrivavano i libri russi, ma nessuno li leggeva. Le mamme dicevano ai bambini, quando facevano i capricci: "Se non stai buono, ti mando in Russia dai bolscevichi". Lo dicevano le mamme contadine e proletarie, non quelle borghesi. Il modello degli estoni era la Svezia: uno stato socialista e ricco, dove gli operai alla sera si mettevano in smoking e i loro figli andavano all'università. Lo scopo supremo della loro politica era la fusione dell'intesa baltica (Estonia, Lettonia, Lituania) con quella scandinava in un blocco quasi federalistico con Stoccolma per capitale, lo svedese per lingua comune e un programma socialdemocratico per idea-madre. In tutto il Nord il prestigio della Svezia era immenso, e questo prova che il prestigio di un popolo non ha niente a che fare con l'attributo ufficiale di "Grande Potenza ". Fu un anno di lavoro. Avevo una notevole biblioteca, e lessi molto. Impiegai i mesi di vacanze per un viaggio in Svezia, Islanda e Finlandia. La Norvegia la conoscevo bene di già. I miei amici erano francesi e polacchi. Da un mio lungo soggiorno a Varsavia data il mio amore per quel paese nobile e disgraziato: un amore che, al tempo della guerra tedesco-polacca, mi costò l'espulsione da Berlino. I polacchi erano allora in piena euforia nazionalistica. Pensavano di annettersi la Lituania e di costituire una sola grande repubblica dal Baltico al Mar Nero. Il mio nazionalismo era guarito da un pezzo, ma se ancora un poco me ne restava addosso, la cura omeopatica che ne feci in quei paesi, di nazionalismo ammalati, me ne guarì per sempre. Morivano di fame e sognavano imperi. In zone etnicamente mescolate (tutte le zone dall'Oder in là sono mescolate) gli odi razziali divampavano feroci da una casa all'altra in mezzo alla miseria comune. Il mio amico Paleckis diceva che solo il comunismo poteva mettere a posto le cose in quell'Oriente europeo. Paleckis era allora un piccolo giornalista lituano, debole di carattere e di nervi. Uno dei pochissimi bolscevichi che incontrai lassù. Quando i russi invasero il suo paese, egli diventò presidente della repubblica sovietica lituana. Ma subito dopo tirò una sedia sulla testa di un commissario di Mosca. Le autorità di occupazione dichiararono che era pazzo e lo internarono in un manicomio degli Urali dove pare che sia morto. Fu - credo - il primo di una lunga serie di intellettuali europei che, dopo aver predicato che solo il comunismo poteva mettere le cose a posto, col comunismo, quando venne, ci rimisero la pelle. |