La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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La caduta di Varsavia

di Mario Gandini Longanesi 1963

"Io non voglio tornare al fronte per vincere la guerra" scrive in  un romanzo autobiografico, un altro ragazzo di Salò, Mario Gandini,  giovane sottotenente  d'artiglieria che, reduce dal fronte russo, dopo mesi di incertezze e interrogativi, decide di riprendere le armi, e si presenta a un centro di arruolamento. "Voglio tornare al fronte per perderla. Soltanto che la voglio perdere a modo mio". (da 'I balilla andarono a Salò', pag.101)

Dalla prima parte ... Nelle foreste della Russia Bianca si correva bene, i motori tiravano con un rumore piacevole, e gli autocarri filavano sulle piste asciutte. Foreste, giornate di foreste, alberi altissimi e diritti come balestrati dal cielo, carichi ancora di neve scintillante, ombra verde su tappeti di neve vergine. Gli occhi erano pieni di luce, e il sole limpido e il vento fresco davano sensazioni di vita sul collo nudo. Il sangue sentiva la terra germogliare impaziente sotto l'ultima neve del nord, e l'acqua palpitava nei sottili lastroni di ghiaccio dei fiumi, acqua che aveva voglia di trapelare al sole e all'aria libera. A volte le strade erano acciottolate, e i pneumatici mordevano volentieri dopo tanto viscido e tanto liscio, e le colonne marciavano veloci nei corridoi interminabili delle foreste cariche di colori e di profumi selvaggi. I polmoni si inebriavano di aria fresca che odorava di alberi. I ponti in legno gocciolavano, e i tetti dei villaggi scintillavano nel sole. Sulle piste che portavano alla Beresina vedevamo sfilare impeccabili e silenziosi i lancieri e i dragoni che erano andati alla carica in estate nel mare d'erba, e dalle porte delle isbe guardammo passare, sotto sera, in un silenzio triste rotto soltanto dagli zoccoli, i pochi uomini e i pochi muli dei battaglioni alpini, che erano stati un giorno il fiore delle vallate. La ritirata (tedesca) moriva nelle foreste di Gomel. Due mesi dopo eravamo ancora in quel villaggio, e correvano le voci 'più strane. Qualcuno sosteneva che i tedeschi ci tenevano in ostaggio nel timore che Mussolini rivedesse le sue tesi sulla guerra ad oltranza, ed altri si dicevano invece sicuri che era lo stesso Mussolini a non volerci in Italia perché alla gente non venisse in mente di contarci. In armonia al principio che non eravamo ancora morti, i più pessimisti prevedevano poi l'arrivo di nuove armi e il ritorno al fronte senza passare da casa. E questa, invero, era l'ombra più fastidiosa e preoccupante.  Nella foresta il muschio ricopriva le cortecce, c'era ombra e umidità, e poi profumo di resina, di foglie e di radici marce. A noi che venivamo dalla steppa sembrava un profumo particolare, ma era il solito profumo di tutte le foreste e di tutti i ,boschi del mondo a primavera. Le cantoniere della ferrovia però sembravano fortini, avevano palizzate di tronchi tutto attorno, e dalle feritoie sbucavano le canne brunite delle armi. Foresta voleva dire partigiani, e c'erano palizzate e sentinelle anche all'ingresso dei ponti. Sulle rotaie passava la guerra, treni di cannoni e di carri Tigre andavano lentamente verso il fronte di Orel, e lunghi convogli di materiale contorto e bruciacchiato tornavano lentamente in Germania. Una sera il colonnello ci spiegò che nelle notti stellate ci si può orientare anche con la Cintura di Orione, tre bellissime stelle piene di brividi che sorgono sempre ad est e tramontano ad ovest, e noi passammo quella sera col naso in aria a cercare la Cintura di Orione nel casino inconcepibile delle stelle per farlo contento. Mai viste tante stelle come in Russia. Andavamo anche verso i molini a guardare il bombardamento di Gomel. La terra vibrava malgrado la distanza e si sentiva proprio come un formicolio sotto le suole. Tonnellate di esplosivo cadevano dal cielo imbrattandolo di colori, e sembrava impossibile che la morte potesse arrivare così bella. Dall'alone degli incendi, dove palpitavano le vampate chiare delle esplosioni, zampillavano silenziose e lente le traccianti dell’antiaerea… Attorno a Minsk cominciarono le foreste pericolose, e il treno correva sopra terrapieni in un mare compatto di alberi che limitava lo sguardo a pochi metri. Rotaie sul terrapieno e foresta paludosa e impenetrabile, alberi e sottobosco, alberi troppo vicini uno all'altro, e sottobosco troppo confuso. Anche troppa foresta, e magari poteva chiudersi da un momento all'altro sul taglio insignificante e stretto dove luccicavano le rotaie. Come il mar Rosso quando Mosè passò con gli ebrei; una spaccata stretta e diritta fra due muraglioni liquidi e verdastri, e in mezzo Mosè e gli ebrei che non dovevano sentirsi troppo sicuri.

Dalla nota di copertina... Le note romantiche e appassionate de La caduta di Varsavia di Chopin sembrano ispirare la decisione di due ragazzi italiani che hanno fatto le ossa in Ucraina e che dopo l'armistizio del '43 vogliono continuare a combattere come i polacchi, che non si arresero mai (1a parte). Immediatamente dopo, la musica suadente del pianoforte viene soverchiata dal canto di "Le donne non ci vogliono più bene"e "Decima, flottiglia nostra": è la repubblica di Salò (3a parte del libro). Questo sconcertante libro, scritto con grande coraggio e per la prima volta senza odio di parte, illustra i pensieri, talvolta un po' confusi, di una gioventù che, scaraventata in una guerra impari, in scenari lontani e ostili, tra gente straniera quale la russa, ma accomunata da uno stesso fondo di umanità (talvolta così toccante da indurre quasi a un mutamento di vita) fu costretta poi, tornata in patria, a scegliere la propria strada in solitudine e senza guida.

fine 2a parte: .... Poi venne la primavera, gli Alleati sbarcarono ad Anzio e a Nettuno, e allora io e Gabriele decidemmo che la licenza era scaduta; affidammo Repki (il cane russo)alle cure di Elisa, e andammo in treno a La Spezia ad arruolarci nella fanteria di marina (X mas). Il gesto non preoccupò i Tre Grandi, ma soltanto le nostre famiglie.

Qui i muraglioni erano di tronchi, di ombre, di foglie, di rami, ma gli alberi sparavano, l'ombra sparava, il treno correva su traversine di dinamite, il terrapieno catapultava via le locomotive a schiantare i primi tronchi della foresta. Era I'inferno qui. Carri bruciacchiati nell'acquitrino, locomotive sventrate a ruote in aria, respingenti che spuntavano come funghi di ruggine dall'erba, rotaie strappate e contorte. L'inferno. Nelle prime settimane di guerra il Maresciallo von Boch aveva fatto a pezzi in queste regioni le armate del Maresciallo Timoscenko. I Marescialli delle due Rivoluzioni avevano cominciato proprio qui, tra Bialystok e Minsk. Erano i giorni in cui il mondo ascoltava alla radio cifre da ubriaco, perché nel Quarantuno bisognava essere ubriachi per dire 3332 carri armati distrutti in sette giorni. Sono 476 carri armati al giorno, che fanno 19 virgola 8 carri armati all'ora, ma fu proprio così nelle sacche di Bialystok e di Minsk. Soltanto che la bandiera rossa si sfilacciò nelle foreste, lasciò fili e brandelli nelle ramaglie delle 'paludi, globuli rossi tra il fogliame, e le traversine cominciarono a saltar via impazzite, le rotaie a contorcersi impennate, i carri ad arrugginire giù dalla scarpata, e l'erba e i sassi ad annerire sotto le esplosioni. I partigiani facevano la guerra alle rotaie, interravano mine giorno e notte, passava il treno e saltava via ogni cosa. Giorno e notte i ferrovieri tedeschi correvano avanti e indietro a ricucire binari. Minsk, Stolpce, Baranowicze, Kartuz Bereza, Brest Litovsk, le città e i villaggi dei ladri e dei contrabbandieri di Sergiusz Piasecki, erano nomi impossibili di una ferrovia assediata. Le stazioni erano pericolosi spiazzi d'ombra ritagliati nel folto dei tronchi, e i treni viaggiavano con carri di pietre davanti alla locomotiva e mitragliatrici sui vagoni e nei pianali. A volte fili invisibili uscivano da sotto le traversine strisciando nella foresta, e i partigiani abbassavano le leve quando il treno era in mezzo. Giorno e notte la foresta stormiva violenta sotto le ventate delle esplosioni, e i carri bruciavano crepitando nel silenzio giù dalla scarpata. Le ruote però dovevano girare per la vittoria, e i fuochisti avevano la pistola mitragliatrice accanto alla pala del carbone, e gli urli delle locomotive laceravano sinistramente il silenzio echeggiando nella foresta. Giorno e notte. Guerra senza quartiere, senza feriti, senza prigionieri. Uccidere. Le armi venivano dal cielo, armi soltanto però. Non viveri, non cioccolato, non sigarette, non medicinali. Armi. Cassette di esplosivo, cassette di esplosivo, cassette di esplosivo, radio, carte topografiche, ordini, ufficiali, commissari politici. Guerra di dinamite, di colpi alla nuca, di forche. Uomini e donne rintanati come talpe dove la foresta è quasi buia perché il sole non arriva alla terra, e la terra è molle di umidità e di foglie putrefatte e di muschio. Fame, freddo, pidocchi e morte. Stalingrado nella foresta. Quando gli uomini si nascondono nelle foreste risalgono all'istinto, ritrovano le fonti dell'umanità fatte di violenza e di sangue, tornano belve spietate a covare il fuoco nelle caverne. Erano migliaia, nelle foreste a cavallo del confine polacco. Incendiavano le stazioni, inchiodavano i soldati alle traversine, ghiacciavano nudi sulla neve i compatrioti passati al nemico, facevano saltare gli edifici legando le cariche. fra le cosce delle donne che aiutavano gli invasori ad attendere le tristi albe del Nord, schiacciavano le teste ai feriti nei treni ospedale deragliati, e violavano le crocerossine con le canne dei mitragliatori fecondandole con una raffica. Tedeschi, ungheresi, calmucchi fuorusciti, cosacchi bianchi del Cuban, rastrellavano lungo la ferrovia e facevano anche puntate nel folto. Ficcavano le bocche dei lanciafiamme nelle buche delle talpe, impiccavano finché c'era corda, un partigiano una pallottola perché non ne valeva due, e i cadaveri sfigurati restavano a marcire con le radici nella foresta e impastavano gli acquitrini. Le ragazze trovate con le armi in mano e la stella sul petto morivano coricate nell'erba sotto i soldati. Russi e polacchi continuavano a battersi in quell'inferno e non era possibile stanarli. La natura fermava i soldati, il tempo fermava i soldati; soltanto partigiani russi e polacchi potevano strisciare in quelle foreste. Durante la notte il fischio delle locomotive era come un urlo lungo e disperato che si allargava nell'immensità sconfinata degli alberi e dava inquietudine; un urlo lungo che si trascinava lamentandosi nel buio selvaggio e faceva pensare agli uomini che dovevano ascoltare nel folto. Dopo sbucammo nelle praterie polacche, e tornarono le cose che credevamo perdute. Case di pietra, tegole di ardesia e di cotto, strade pulite e lastricate, parchi, giardini, viottole di campagna bianche dove la polvere infarinava l'erba dei fossi, e poi montagne, meravigliose montagne verdi duemila metri sopra le nostre teste. Poi rocce, torrenti, laghi di un azzurro dimenticato, alberghi dai lunghi balconi traforati di legno rossastro, segherie nelle pinete, mucche arrampicate sui pascoli, strade asfaltate, cascate che spumeggiavano lucide e bianchissime nel vuoto facendo ribollire i torrenti, campanili a punta dalle tegole verdi, crocifissi di legno, finestre infiorate di gerani, ragazze che salutavano sedute sopra muretti di granito, e poi aria frizzante, e odore di resina e di pini tagliati. Il primo maggio (1943) eravamo a Vienna e la gente passeggiava lungo il Danubio. A Tarvisio pioveva.

 

Incipit: 

Si stava ancora bene nelle pianure di Michele Sòlochov. I tedeschi avevano iniziato da qualche settimana l'attacco a Stalingrado, e la 6a Armata e la 4a corazzata erano passate davanti a noi nel polverone rosso cupo della pista e si erano buttate sulla città del Volga. Il gruppo Armate A galoppava nel Caucaso. Noi appartenevamo al gruppo Armate B e aspettavamo sulla sponda destra del Don. C'erano con noi la 2a Armata tedesca, la 2a ungherese e la 3a romena. Aspettavamo tranquilli che le altre due liquidassero la città dei carri armati e dei trattori per riprendere la marcia verso oriente. Fra poco l'autunno sarebbe venuto a rinfrescarci dall'arsura della steppa, e in retrovia stavano già tagliando legna per l'inverno.
Incassato davanti alle nostre posizioni, il fiume dei cosacchi .scorreva azzurro in mezzo al verde e al giallo, con boschi sulla riva sinistra e grandi curve maestose e lente nella pianura ondulata di erba e di girasoli. Le nostre divisioni, male armate ma sempre in grado di far decorare sul campo i loro generali senza preavviso, sonnecchiavano pigre e pesanti da Kamilschowa a Weschenskaja, e sull'altra riva i russi dovevano avere i nostri stessi pensieri. Durante il giorno ci si annoiava nei capisaldi, e di notte si dormiva quasi indisturbati nelle buche scavate ancora di fresco e coperte da un tela da tenda. Le poche granate che dall'alba al tramonto piluccavano svogliatamente l'ansa non sembravano sufficienti a giustificare i 3000 chilometri che ci separavano da casa. Nemmeno le fucilate e le raffiche notturne delle sentinelle. La morte lavorava un poco con le pattuglie, ma piano, come in punta di piedi, quasi per non svegliare le centinaia di bocche da fuoco che guardavano l'orizzonte in terra te fra le balke.
Nelle ore più quiete strisciavo a volte sul ciglione deserto a godere gli scenari suggestivi di quella terra nuova. Il fumo della sigaretta si impigliava indolente fra l'erba e sembrava essere l'unico segno di vita per chilometri attorno. La steppa offriva una vista meravigliosa, tutte le sfumature dal verde al giallo al bruno, e da un orizzonte all'altro la crepa azzurra e svogliata del fiume. Il silenzio era appena incrinato a volte dal ronzare perduto di un motore, nostro o russo, che l'aria portava da lontano soffocato dal caldo. Nella zona sovietica, oltre il fiume, alcune isbe candide e morte segnavano l'ondulazione della pianura come sassi dimenticati fra l'erba, e sul ciglio di un'altura si interrompeva misteriosamente la pista color mogano che nasceva dai rottami del traghetto sul fiume. Un pomeriggio così, mentre stavo frugando....

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