La storia è racconto attraverso i libri |
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I testi che accompagnano la presentazione sono in genere
quelli diffusi dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono
indicati PRIGIONIERO DI TITO 1945-46 Lionello Rossi Kobau "A noi la morte non ci fa
paura
ci si fidanza e ci si fa l'amor. |
" .... Il 14 ottobre 1943 dopo un rapido addestramento (l'autore aveva 17 anni), lascio con altri 500 giovani la città scaligera (Verona) con destinazione Gorizia. Poi raggiungiamo il vecchio confine italo jugoslavo nelle vallate dell'Isonzo e del Baccia. Incoscienza giovanile '. Forse. Il nostro sogno non è quello di cambiare le sorti della guerra ormai perduta..."
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UN BERSAGLIERE NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO JUGOSLAVI Mursia 2001. Pag. 186
Introduzione ripresa da Consolato italiano di Spalato che rilancia Repubblica del 12/01/06 La Storia - Foibe, "il cuore nel pozzo" 60 anni dopo. Nello Rossi è padre di Paolo
Rossi il noto comico di Monfalcone.
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Introduzione: L’Autore, classe 1926, è uno di quei giovani che l’otto settembre non esitò ad arruolarsi volontario nell’Esercito della Repubblica Sociale, nell’8° Reggimento Bersaglieri 1° Battaglione Volontari "Benito Mussolini". Impiegato, nella zona del confine orientale, contro le bande del IX Corpus delle forze partigiane di Tito, fu tratto in prigionia alla fine dell’aprile 1945 fino al 25 dicembre 1946. Può considerarsi fortunato (se così possiamo esprimerci) perché, delle migliaia di prigionieri fu uno dei pochi a rientrare in patria. La resa d’aprile fu ottenuta con l’inganno, e ad essa seguì l’immediata fucilazione di un centinaio di bersaglieri. Dal momento della resa inizia la lunga peregrinazione per giungere al campo di concentramento, sottoposti alla continua spoliazione di scarpe ed indumenti, senza mangiare, percossi da una muta di belve in sembianze umane. Il 23 maggio
1945, 3.500 italiani vengono rinchiusi nel campo di Borovnica. Vi sono militari della RSI, ex prigionieri dei tedeschi catturati dagli slavi*, partigiani italiani, civili
e civili espatriati per credo politico**. Su di loro la morte è incombente per fame, freddo, malattie, raffiche di mitra, percosse e sevizie. Più della metà non supererà l’inverno. Il valore più umano è il sadismo. In sedici capitoli è racchiusa una storia raccapricciante che lascia nell’animo un senso d’angoscia, motivata dalla mancanza di riconoscimenti che lo Stato (nato come è nato, sui valori, diritti dell’uomo ecc.) dopo
56 anni, non riesce a dare. Significativo è il rapporto che il 4 marzo 1946 stilò una commissione italiana, che descrisse la vita nei campi di concentramento come sana e dignitosa. Essenziale e privo di retorica il libro di Rossi-Kobau ha anche il merito di ricordare le dichiarazioni ufficiali dell'epoca formulate dagli alleati anglo-americani e movimenti politici italiani che risuonano oggi come una condanna a chi, pur sapendo cosa accadeva, ha preferito tacere o, peggio, si è schierato ideologicamente a fianco di chi compiva la pulizia etnica a danno anche degli italiani.
*E'significativa al riguardo la testimonianza di un Artigliere della Acqui di Cefalonia T.Giuseppe catturato ed assegnato come prigioniero delle SS nelle retrovie russe. Compie col reparto tedesco tutta la ritirata fino a Berlino nel maggio del 1945 dove avviene la resa. Qui viene liberato dagli americani che non avendo la possibilità di gestire tutti gli internati (l'urgenza è verso gli ebrei) li mette in strada (a piedi) indicando geograficamente dov'è l'Italia (Sud). Il gruppo di Italiani a tappe forzate, condizioni consentendo, facendo sosta per i pasti nelle grandi città con comando alleato arriva dopo settimane in Austria e viene indirizzato verso la Carinzia (allora controllata da Tito), per il rientro in Italia via Friuli. Appena mette piede in territorio controllato dai partigiani di Tito, il gruppo viene catturato ed internato come tutti gli altri considerati fascisti. Di loro si perdono le tracce e neanche viene cercato dagli alleati. E' come spedire una raccomandata con dentro soldi senza ricevuta di ritorno. La fortuna vuole, dopo mesi di detenzione, e di deperimento fisico che un aereo della Croce Rossa sorvoli il campo non classificato. Naturalmente da terra ci si sbracciava per attirare l'attenzione. Si mette in moto la macchina dell'assistenza e si accerta in breve che quello è un gruppo estraneo ai provvedimenti post bellici (per la verità non solo quelli). Il gruppo si rimette in strada e prima dell'inverno Giuseppe giunge a casa, ma i suoi non lo riconoscono. |
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Dalla postfazione al libro a firma Paolo Rossi."Cari figli, nipoti etc.......io e mio padre avevamo idee politiche molto diverse. Sarà importante per Voi ? Quel che mi preme è altro. Questa è la storia di un uomo che nella sua gioventù visse, agì e subì la storia e riuscì poi a raccontarla .... con la verità storica può permettersi tutto e si sente eterno come certi capocomici..... scoprirete che siete debitori della vostra esistenza non solo alle naturali coincidenze genealogiche, ma anche a persone a voi distanti o straniere che per alcuni curiosi incidenti della storia portavano il nome di "nemico". Per questi e per tutto il resto vostra patria sia il mondo intero" |
**Marzio
BREDA- I 2000 operai di Monfalcone traditi da Tito e abbandonati dal Pci tratto dal Corriere della Sera, 8 ottobre 2001. Dossier: le Foibe e la questione di Trieste. ... Erano duemila operai comunisti di Monfalcone, dei «duri e puri» già perseguitati da camicie nere e SS. Attraversarono il golfo per edificare con i compagni titini «il vero socialismo». Pochi mesi dopo l'arrivo, quando nel 1948 il maresciallo jugoslavo venne scomunicato dal Cominform e ruppe con Stalin, furono visti con sospetto da Belgrado, minacciati, e molti di loro sbattuti nei gulag, perché «non ortodossi». Insomma, erano rimasti stalinisti. Subirono pestaggi e violenze, prima di tornare in Italia. Ma anche in patria quel destino «sbagliato» non cambiò: furono umiliati, emarginati e vessati, in quanto testimoni di un passato del quale il Pci ormai si vergognava. Vicenda che su quella gente è pesata come un fallimento morale, tanto da indurla a non parlarne per anni. Lo ha fatto in tempi recenti qualche superstite, come per liberarsi la coscienza, parlando con uno storico, Giacomo Scotti, che ha ricostruito la storia. Tutto ha inizio subito dopo la guerra di liberazione, quando molti operai comunisti del cantiere navale di Monfalcone, affascinati dalla scommessa di Tito, varcano il confine e si trasferiscono a Pola e Fiume, nelle cui industrie c'è appunto un gran bisogno di manodopera qualificata. E' un controesodo di almeno 2.000 persone, convinte di fare una scelta definitiva e che perciò in parecchi casi si portano dietro pure le famiglie. A loro si aggiungono altri militanti mobilitati dal Pci in mezza Italia: intellettuali (come il critico d'arte Mario De Micheli), attori (come Sandro Bianchi), musicisti (come il violinista della Scala, Carlo La Spina). I «monfalconesi» restano «agli ordini» della federazione comunista di Trieste: da lì viene la linea politica che li condannerà a partire dal 28 giugno '48, quando Mosca accusa Tito di deviazionismo. Il Pci, infatti, resta stalinista e firma la risoluzione antititoista del Cominform, proprio mentre Stalin è ormai un nemico a Belgrado. Di colpo diventano tutti e 2.000 «persone sospette», oggetto di purghe ed epurazioni. Ciò significa il gulag di Goli Otok, sull'Isola Calva, o altre prigionie in Bosnia Erzegovina. Mesi durissimi. Alla fine rientrano a casa, ma anche lì si ritrovano discriminati dalla loro stessa gente. Il Pci ha fatto uno strappo, ed è meglio che si tolgano di mezzo. «Fatelo per il bene della Causa e dell'Idea», viene detto loro. E il paradosso è che obbediscono. |