La storia è racconto attraverso i libri 

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I testi che accompagnano la presentazione sono in genere quelli diffusi dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati

Sangue sul Don è la ristampa di”Moloch” III edizione per l’America del 1951. La pubblicazione su una catena di quotidiani americani ha fatto di Don Agostino Bonadeo (Cappellano del 3° bersaglieri in Russia) lo scrittore italiano più celebre di quel momento (Epoca nov.'51- Tempo ott.'51).

 

 

Dal Preludio: "Non torneranno più. Quante anime innocenti tenderanno le loro manine in attesa del babbo lontano. No, il babbo, lo sposo, il figlio, non torneranno più, sono laggiù. Lontano per sempre dalla cara Patria. Il vento gelido della steppa soffia sulla sterminata pianura russa e pare portarci i loro gemiti; i loro lamenti. Sono l’eco delle loro ultime invocazioni, del loro supremo sacrificio per la Patria. Stroncati dal piombo nemico, le loro ossa giacciono disseminate nella steppa. Forse l’infuriare della guerra ha travolto anche le piccole croci alpine dei cimiteri di guerra composti con tanta premura ed amore. Le ossa dei nostri eroi non hanno più un ricordo, il candido manto che ricopre la steppa pone nell’oblio ogni cosa. L’ombra della notte scende misteriosa e triste su centinaia di famiglie italiane. Il vuoto, la dolorosa e lunga attesa, riunisce vicino al desco i familiari che silenziosi e con gli occhi fissi nel vuoto attendono una parola che sollevi il loro dolore che li porta con inesorabile velocità alla tomba. “Mamma perché hai messo i fiori davanti alla fotografia del babbo ? Presto papà tornerà…”….

 

I MORTI MI GUARDANO

Ed. Familia Nova  - V ed. 1980

   
La patria attende
La partenza
Verso l‘ignoto
Col. Caretto-Don Mazzoni
Italiaschi Carasò
Primi incontri, prime esperienze
Il nemico
L’undicesima compagnia
L’ultima messa
Sangue sul Don
Le slitte dei feriti
Il conforto della fede
Kalmenkoff: ultimi sacrifici
L’ultimo combattimento
Il sacrificio supremo
Il muretto
Solo coi feriti
L’ultimo rapporto
I carri armati
Il fuoco dei mortai
Prigionieri

Le marce del dawai
Mi dawai eleba “Mama”
Il treno bombardato
Minkiurik
il simbolo odiato
Le perquisizioni
Il nostro “bunker”
Il bosco della morte
Una celeste protezione
I morti mi guardano
Verso gli Urali
Wilwa: paese della speranza Una pistola controlla l’interrogatorio
Una visita importante
Gli ufficiali partono
A Mosca in cellulare
Susdal
Interrogatori a tenaglia
Le nuove idee politiche
Il conforto degli amici
I fuorusciti
Il nostro altarino
Frangar non flectar
La scuola al campo 27
18 giugno 1944: festa dei bersaglieri
Al kolkos
Un rozzo presepio
Innanzi al presepio
La morte di un amico
Notti insonni
Speranze e delusioni
Un grande avvenimento
Wladimir
Verso la libertà
Il viaggio della speranza
Marmaroth. shighet (Romania)
Trattenuto
I Russi a Vienna
La triste odissea si chiude  - Viva l’Italia!
  Appena mi sento in grado di camminare, mi preoccupo di conoscere la sorte delle centinaia dì vittime che ogni notte la morte viene a mietere nelle nostre file. Appena spirati, approfittando dell’oscurità della notte, i cadaveri vengono denudati e buttati fuori dai bunker, nella neve. Spettacolo doloroso e triste veder assalire i propri compagni e, con avidità felina, spogliare quei rottami umani degli ultimi stracci che ancora li rivestono. Non avrei mai immaginato che il cuore umano potesse giungere a tanto. Innanzi alla lotta per la vita sembra che il cuore non esista più. Quei derelitti sono gli stessi amici di pochi giorni prima per i quali la sorte fu molto più triste. Anche quello però è un atto d’incoscienza, un atto dovuto unicamente all’istinto della conservazione. Quegli stracci permettono un poco di commercio coi russi dando così la possibilità di avere qualche patata o qualche pezzo di pane, la possibilità di vivere. Solo con un gesto inumano, solo nascondendo i morti sotto la neve era possibile, prelevare, per qualche tempo, anche la loro razione e prolungare in questo modo la propria esistenza. Voglio però seguire la fine di quei nudi cadaveri buttati come cenci nella neve.
Un mattino, appena dopo la zuppa, esco dalla mia tana, deciso a conoscere la verità. Le supposizioni sono tante e il mio cuore ansioso di conoscere e di vedere: «Li bruceranno in un unico rogo, li seppelliranno in qualche sperduto cimitero, o, forse, li butteranno nel fiume come tronchi abbattuti?». Ho fatto solo pochi passi, sempre assorto nei miei pensieri quando vedo apparire, sulla solita pista, dei soldati croati, pure essi prigionieri, i quali, legati con un filo di ferro i cadaveri a un piede, li trascinano sulla neve gelata verso la loro ultima dimora.
Mentre, sbalordito, seguo quella scena raccapricciante e osservo quei corpi sballottati gli uni sugli altri, da un bunker vicino appare la larva di un altro prigioniero, è ammalato e non si regge sulle esili gambe che s’intravedono fra gli spacchi dei cenci che le ricoprono. Gli occhi febbricitanti splendono di luce sinistra, cammina barcollando e si trascina verso la zona infetta. Il soldato russo sogghigna al vederlo e gli ordina di aggrapparsi al filo che lega i morti per aiutare il macabro trasporto. Il disgraziato tenta di obbedire, ma cade non appena mossi i primi passi, piegato dalla forza che gli altri soldati fanno sul filo. A calci la guardia lo fa rialzare, ma pochi metri dopo cade nuovamente, stremato al suolo, vicino agli altri morti.

I croati si chinano, legano a un piede la nuova vittima e continuano nel doloroso trasporto. L’uomo più calmo a tale vista si sentirebbe il sangue ribollire in corpo. Come ministro di Dio, cerco di vincere qualche reazione, come uomo lo sdegno e la vendetta che mi opprimono. Rimango muto, tremante per l’ira mal repressa e a occhi bassi seguo quel funebre corteo che si avvia verso il piccolo corso d’acqua che scorre alla periferia del campo. Da un bunker vicino appare la larva di un altro prigioniero. Poche centinaia di metri e agli occhi miei si delinea un quadro tanto terrificante che vorrei poterlo dimenticare. Le scene dantesche non sono così impressionanti. Un senso di vero orrore m’invade, il mio animo non è mai stato così profondamente colpito. I morti sono ammucchiati come carne e giacciono rattrappite dal gelo assumendo le forme più strane. Solitamente la morte, con un suo pudore dona religiosità alle membra abbandonate dalla vita. Qui non è così. Guardo smarrito quei volti i cui occhi vitrei mi fissano. La mia mente stanca delle lunghe sofferenze sembra vacillare, ho l’impressione che quegli occhi si muovano nelle loro orbite e tutti convergono su dì me meravigliati di vedermi ancora in vita. Sotto il peso di quegli sguardi cado in ginocchio e recito una preghiera. Sento l’angoscia di migliaia di mamme ed offro per loro a Dio quel pesante fardello di dolore. Lontano, in una piccola casetta, forse una vecchietta sferruzza con mani stanche, prepara un maglione per il suo figliuolo esposto al gelo. Con cura tutta materna, instancabile, con gli occhi arrossati dalla luce e dal pianto, lavora e prega, pensa alla gioia di suo figlio. Per lei è sempre piccolo, quando gli giungerà il pacco contenente quell’indumento tanto prezioso per l’affetto che racchiude.
Chi non ha visto non potrà mai immaginare tanto orrore. Il mio cuore di sacerdote m’impedisce di maledire, ma se per un solo istante lo Spirito Divino mi abbandonasse, son certo, imprecherei senza misura contro gli autori di tante atrocità. Tutta l’amarezza di quella visione si riversa nel mio calice che sono costretto a bere sino all’ultima stilla.

  Mi scuoto da quel senso di torpore in cui ero caduto, per seguire la realtà nella sua rudezza. Un gruppo di soldati sta terminando lo scavo di una grande buca; in essa saranno buttati tutti quei cadaveri formando una grande fossa comune. Le membra di quegli infelici, congelate in posizioni strane, vengono spezzate, come fossero rami d’albero che intralciano un cammino. I morti, induriti dal gelo, cadono gli uni sugli altri e la neve li ricopre del suo candido manto. Torneranno quelle ossa a rivedere il sole? Giacciono lontane dalla patria e dall’affetto dei loro cari, ma la grande sofferenza li ha uniti a Dio e vivono già nel suo amore. Non so il tempo che rimasi inginocchiato a pregare. Quando mi ridestai ero sopraffatto dal dolore, e barcollando tornai al mio bunker per sdraiarmi in silenzio al mio posto.

18 GIUGNO 1944: FESTA DEI BERSAGLIERI

S U S D A L
Alle due del 14 luglio 1943, buttati di nuovo in un vagone cellulare, si parte per Wladimir. Il lungo viaggio, il caldo e lo scarso vitto hanno influito sul nostro già debole fisico; vorrei riposare, ma un istante dopo aver preso posto, sento un forte prurito in tutte le parti del corpo. Le cimici, nonostante la stanchezza non mi lasciano chiudere occhio; fortunatamente il tragitto è breve. Wladimir dista non più di 200 km. da Mosca. Verso le sette del mattino siamo già arrivati.
Scendiamo in fretta perché il treno sosta solo pochissimi minuti; ordini precisi ci fanno passare inquadrati attraverso la piccola stazioncina per attendere seduti sui nostri zainetti. Piove forte e in brevissimo tempo l’acqua bagna le nostre spalle. Si attendono ordini e restiamo al nostro posto anche se la tettoia della stazione potrebbe difenderci dall’acqua. Dopo circa un’ora viene dato l’ordine di mettersi in marcia. La debolezza è un grave peso e, con molta fatica, iniziamo la salita che conduce al centro della città. L’acqua continua, lenta e penetrante, comincia ad essere giorno e molte persone si fermano incuriosite a guardare.
Qualcuno si avvicina per rivolgerci qualche domanda, rispondiamo con parole secche e monosillabi severi. Susdal, il campo degli ufficiali al quale siamo diretti, è molto lontano. Sono circa quaranta chilometri che dovremo percorrere a piedi mentre le gambe già si piegano ed i piedi doloranti vorrebbero rifiutare il nuovo martirio. Dobbiamo fare una sosta in città.  Arrivati ad un grande portone, ci fermiamo È un vecchio convento adibito a campo di smistamento per le truppe russe; qui riposeremo, mangeremo qualche cosa in attesa di proseguire per raggiungere gli amici. L’oasi italiana in mezzo alla steppa russa. Il campo. è vastissimo: un magnifico parco è in fondo a destra e a sinistra gli edifici. Entriamo in una specie di vecchio parlatorio e stanchi ci buttiamo a terra. I soldati russi stanno alzandosi e ci passano vicino con fare sprezzante; le guardie piantonano le porte, non ci possiamo muovere, qualcuno osa sperare di aver qualcosa di caldo per il pranzo.
Lentamente la pioggia cessa e comincia a farsi vedere qualche raggio di sole. Invano attendiamo la fine della colazione dei russi pensando e pregustando la zuppa. Avremo sì qualche cosa,. ma sarà il rimanente dei nostri viveri, un poco di pane secco e un pezzettino di lardo. Fuori, in mezzo al prato, scintillante al riflesso dei raggi del sole, un secchio d’acqua e quei pochi avanzi formeranno la nostra colazione.

  Non è possibile sottolineare tutti i particolari del lungo inverno; il freddo è intenso e il nostro equipaggiamento così scarso da costringerci a passare la giornata nelle stanze annoiati e umiliati dal mistero della nostra sorte. Le spie sono molte e la vita nel campo è un continuo incubo e motivo di paura. L’ufficio politico provvede con frequenza a cambiare i componenti delle singole stanze. In ogni stanza ci deve essere un elemento di fiducia, una spia.  Si attende con immenso desiderio la possibilità di distrarci nel grande cortile del campo con qualche passeggiata solitaria. La primavera porta sempre un rinnovarsi della vita sotto tutti gli aspetti. Il freddo è finito; per lunghe ore negli angoli protetti dal vento, gustando il dolce tepore dei raggi del sole, si parla del futuro, si fanno ipotesi e congetture, si parla della scuola comunista e si fanno scongiuri particolari. Alcuni sono rientrati, non hanno trovato quello che avevano sognato, le notizie portate non sono lusinghiere. È un segno della grande libertà che i russi hanno in tutte le cose; è la certezza che la scuola comunista si dovrà concludere con impegni così gravi da turbare le coscienze anche più leggere.
Il 18 giugno, festa dei bersaglieri, porta una nota di spiccata italianità nel campo. L’avvicinarsi della data ravviva in tutti i bersaglieri la fiamma della fede e della speranza. L’orgoglio di portare le fiamme vince pessimismo e debolezza e una forza dinamica misteriosa si impadronisce dei bersaglieri presenti. Il 18 giugno sarà una giornata di festa, farà ritornare la fede nella vita, darà l’entusiasmo di tempi lontani, muoverà le speranze, farà dimenticare.
Mancano poche settimane e si pensa di preparare un saggio ginnico, di allestire una rivista artistica. In tutti ritorna un senso di riconquistata dignità. Tutto deve essere fatto dai bersaglieri: scrivere la rivista, interpretarla, preparare i costumi, ma soprattutto prepararsi per il saggio ginnico. Ogni mattina prima della sveglia, alcuni corrono per il campo, altri in un angolo del cortile interno tentano il salto mortale. Il Colonnello personalmente passa e osserva mentre un ristretto numero continuamente rinchiuso nel Club (teatro) prepara scrupolosamente la rivista.
I giorni si possono dire contati, bisogna presentare il programma per l’approvazione al comando russo, bisogna presentare il copione della rivista al commissario politico che in un primo tempo si rifiuta di dare il nulla osta. Ci sono delle battute reazionarie, bisogna fare molte correzioni, bisogna adattare la rivista all’ambiente. Finalmente viene dato il nulla osta ed il programma può essere attuato. In un’atmosfera di vera italianità ha inizio la data tanto attesa. La celebrazione della Messa commuove tutti i presenti, la commemorazione del Colonnello del terzo e le gare atletiche attirano l’attenzione e la simpatia di tutti. Il nostro cuore è pieno di soddisfazione e di gioia. Ma la giornata raggiunge il massimo al momento della sospirata rivista. Qualcuno con le lacrime agli occhi mi ha fatto una confidenza: «Vorrei tanto essere anch’io un bersagliere! ». Purtroppo la manifestazione viene considerata un atto sovversivo: alle critiche si aggiungono le minacce ed alla seconda sera vorrebbero sospendere la rivista. Solo la reazione generale dei prigionieri ottiene che la rivista si possa ripetere per cinque sere. La parentesi che la festa dei bersaglieri ha aperto nella collettività italiana non è che un’illusione, ma nessuno potrà mai dimenticare l’entusiasmo di quel giorno e la gioia di ogni piumato di aver contribuito all’unica nota di vera italianità di tutta la prigionia.
L’attività politica del campo, dopo un periodo di pausa dovuto alla partenza degli estremisti, riprende lentamente il suo ritmo di controllo; anche l’attività dei Cappellani comincia ad essere nuovamente contrastata. Chiediamo di andare nei campi con i soldati e ci viene risposto di no, chiediamo di visitare gli ammalati e ci viene risposto di nò. Ci viene proibito di fare la spiegazione del vangelo, ma poche domeniche dopo, nonostante le minacce, la riprendiamo con prudenza e con coraggio. Intanto l’impegno comunista degli illuminati raggiunge tristi traguardi; l’azione di alcuni in particolare determina l’allontanamento dal campo di alcuni colleghi. Destinazione ignota! Al campo 27° i corsi marxisti si susseguono regolarmente. Si attende con paura il termine dei corsi. Siamo all’inizio dell’autunno. Improvvisamente un mattino, alla sveglia, le voci si susseguono interessantissime: « arrivato un torpedone da Mosca, sono arrivati gl’illuminati: partiranno altri». Appena possibile esco, un torpedone è fermo all’ingresso del campo: il mio cuore batte forte, mi convinco che la partenza per il nuovo corso è questione di ore. Dopo la colazione il comando comincia a chiamare i designati alla partenza per un brevissimo interrogatorio. Tutti quelli che ritornano sono assaliti da domande, si vorrebbe vedere, sapere, sentire. Ma perché non è già tutto pronto?. Alle 17 circa mentre sto ascoltando una conferenza di carattere culturale, il soldato russo si presenta in sala e porge un biglietto. Il più vicino legge: «Bonadeo» ed il russo aggiunge: «Davai na kommendatur».  Ferito da quelle parole del russo come da un pugnale mi alzo per raggiungere il comando. La solita stanza e la solita introduzione. Interroga un Maggiore venuto da Mosca. “Ho una lettera giunta a suo carico dalla Germania: lei, nel settembre 1941 in Breslavia ha parlato male della Russia...”.
«Potrebbe darsi, ma io non ricordo neppure di esserci stato nel settembre! ». Estrae la lettera da una cartella e legge; mi sembra di sognare.  «Forse ci sarà un equivoco, non credo che quella lettera mi riguardi».
E il maggiore subito gentilmente: «Ma noi non facciamo caso a queste piccolezze... vorremmo farvi vedere Mosca, farvi conoscere la Russia, farvi visitare le chiese, parlare con Preti.., e magari farvi comprendere che credete in cose inutili...». Reagisco come posso mentre la conversazione prosegue: «Deve venire con me al campo 27°, starà bene e sarà contento...».  «Se mi è possibile esprimere la mia volontà: non voglio venire».
«Troverete altri colleghi». - «Non lo desidero e qualora mi mandaste non frequenterei mai il corso. Questa è la mia decisione definitiva, è inutile che mi facciate fare il viaggio». La conversazione finisce con le parole del Maggiore: « Ci pensi bene e verrà volentieri». Verso le 21 la lista dei partenti è pronta, sembra quella definitiva ma mancano tre nomi.., quelli che hanno rifiutato decisamente, forse non vanno...  Nel dubbio preparo qualche cosetta, saluto gli amici e mi trattengo fino a tardi a conversare con loro in attesa delle ultime notizie. Verso le 24, sfinito, mi stendo sul pagliericcio.
In fondo a sinistra in un piccolo orto lavorano un gruppo di ragazze, saranno kolkosiane o deportate? La nostra curiosità è forte, vorremmo parlare con loro. Si sono accorte di noi e ci fanno cerini di avvicinarci. È facile capire la loro situazione: il dolore affratella e avvicina gli animi.  Il russo che ci aveva detto di non spostarci dal centro del prato si è assentato, il momento pare propizio e ci avviciniamo al gruppo delle ragazze che lavorano, il loro aspetto è triste e sofferente, Appena sanno che siamo italiani ci fanno festa, una in particolare sembra trasali:re di gioia; è una faccia nota, parla italiano; è Melania. Mi riconosce, mi domanda se ho saputo qualcosa dal tenente Garan, di Vincenzino, e di altri. Le mie risposte sono poco consolanti, ma la presenza degli italiani ai basta a sollevarla moralmente, Racconta le sue peripezie dal giorno che ha lasciato il campo di Wilwa: è stata maltrattata, percossa e deve fare tre anni di lavoro in campo di punizione.. e con gli occhi lucenti: “Come siete buoni, voi italiani!”
La guardia russa che controlla le ragazze sul lavoro ci ha visti e si avvicina urlando. Noi ci allontaniamo in fretta ma le ragazze devono restare al loro posto, devono subire minacce e umiliazioni. Quando lasceremo il campo le ragazze alzeranno ancora una volta il capo per sorriderci sfidando il coraggio brutale dei soldati russi.
Improvvisamente dal portone d’ingresso si sente una voce, il soldato che ci sorveglia risponde come a una parola d’ordine: dobbiamo prepararci, dobbiamo partire subito. Dividiamo in parti uguali i pochi viveri rimasti che saranno l’unico sostentamento della marcia “Wladimir-Susdal”.  Dopo pochi istanti l’ufficiale russo ci passa in rivista: «Dovete camminare composti, inquadrati, senza parlare, faremo qualche tappa ma dobbiamo andare a piedi».  Quelle parole ci producono una forte pena; una voglia pazza di buttarci a terra e di farla finita assale moti di noi. Si vorrebbe far comprendere che per noi quella marcia è impossibile, ma non ci vogliono ascoltare; con le baionette innestate ed ordini
precisi ci accompagnano verso la direzione indicata. L’orologio sulla strada segna le undici.
Un piccolo temporale rende ancora più pesante il nostro viaggio; le soste cominciano a essere frequenti, anche i soldati che ci accompagnano cominciano a sentire il peso del fucile. Per chilometri e chilometri ci trasciniamo muti e a capo chino, il nostro cervello è annebbiato, siamo trasformati in tanti automi privi di energia.
  LA SCUOLA AL CAMPO 27
  La vita di comunità ha aspetti di psicologia pratica particolarmente interessanti; la nostra vita è una vera scuola che insegna a leggere il cuore umano. L’ attività del maggiore Procuranoff lentamente diminuisce, pare sia trasferito, al campo si vede solo qualche volta, non ha contatti che con il gruppo degli attivisti illuminati, i quali non lasciano passare occasione per far sentire la loro superiorità.
Per i russi ogni cittadino deve avere una preparazione politica; quella voluta dalla dittatura bolscevica e quella del piccolo padre Stalin. Ma tutti devono formarsi una coscienza politica democratica! Anche per i prigionieri inizia un programma politico, al ciclo di conferenze marxiste si parla di scuola vera e propria. Pare che il maggiore Procuranoff nel salutare i collaboratori fedeli prima della sua partenza abbia detto: «Ci vedremo molto presto al campo scuola. Sarete trattati bene e vi potrete formare una vera cultura che vi permetterà un giorno, in Italia, di avere posti guida in una nuova società».
Improvvisamente giungono due nuovi ufficiali con il fuoruscito Robotti. Sono dell’Encawede, vengono da Mosca!
Al campo è un fermento di opposte informazioni, ci sarà una grande adunata, Robotti risponderà a tutte le domande dei prigionieri. I due ufficiali dell’Encawede pare siano venuti per il primo «reclutamento scuola». Il giornale murale è sempre più minaccioso e violento. Sull’ultimo numero c’è un articolo firmato da Vincenzino; credo avrà solo firmato quelle parole, lo conosco troppo bene per supporre che in così poco tempo sia cambiato tanto.
Un avviso particolare attira l’attenzione di tutti: «domani il compagno Robotti dopo la conferenza risponderà a tutte le domande che saranno pervenute in giornata all’ufficio politico».  I due ufficiali russi lavorano intensamente, incontrano i prigionieri singolarmente e a piccoli gruppi. Pensano di sentire cose nuove, ma alcuni non sanno controllare ogni parola e alcune affermazioni porteranno loro angoscia per tutto il rimanente periodo di prigionia.
Un’adunata imponente.., dopo tanto tempo un italiano parla agli italiani. Si fanno tante domande! Robotti parla della situazione politica. Gli ordini di Mosca sono precisi. «Voi siete dei privilegiati.., in Italia si muore di fame.., c’è il terrore.., il Vaticano...».
Non potrebbe essere più pessimista e se fosse possibile aumentare il nostro dolore non ci sarebbe sistema migliore per farlo. Il problema della posta è nel cuore di tutti, ma le risposte sono false: «È il governo italiano che non lascia entrare le vostre lettere”. «La posta dall’Italia non arriva perché sono le vostre famiglie che non vi scrivono più, hanno cambiato.., non vi conviene tornare».
L’immaginazione non poteva arrivare a sì alto tradimento! Appena possibile lascio la sala raccolto nel mio silenzio e nel mio dolore.  Passati pochi giorni una notizia circola per il campo: è la spiegazione della visita di Robotti e dei due ufficiali dell’Encawede. Domani partirà un gruppo di venticinque persone per il campo 27, vicino a Mosca; è il campo scuola detto "antifascista". Gli studenti sono stati scelti dagli istruttori politici tra quanti avevano dimostrato benevola accoglienza al termine "comunista”. Nel pomeriggio cominciano gli interrogatori, alcuni accettano con entusiasmo, altri sono nel dubbio, i soldati sono scelti d’autorità.
Al momento della partenza Vincenzino ha un aspetto fiero e baldanzoso. Pensa di diventare una personalità, sogna di tornare a casa col grado di commissario del popolo.
Non v’è alcun dubbio che le scuole «antifasciste» sono delle perfette scuole comuniste. Terminato il corso, i “laureati” saranno inviati sui vari campi di concentramento per la propaganda comunista. La partenza del gruppo estremista porta un breve periodo di tranquillità. L’inverno è molto rigido, la bufera spesso interrompe le comunicazioni ed i viveri scarseggiano; anche gli autocarri non possono più portare la legna dal bosco; i cavalli tante volte non riescono neppure a trasportare la quantità necessaria per il comando. Spesso il pasto ritarda di lunghe ore.
Quasi ogni mattina bisogna uscire per aprire con le pale la pista per le slitte, mentre i più forti sostituiscono i cavalli e vanno al bosco a prendere la legna. Ogni slitta trainata da sei uomini deve portare un metro cubo di legna, Partono al mattino presto; il bosco è molto lontano. Li ho visti tornare il primo giorno, erano sfigurati. C’era stata una forte bufera. Questa la triste visione dell’inverno vicino.
Dopo le fermate uni ordine secco e preciso ci rimette in marcia; i piedi sembrano piombo, e di momento in momento sono più pesanti.  Nessuno ha quasi più la forza di sollevarli. Alcuni amici fisicamente finiti ondeggiano e cadono a terra e attendono un mezzo di fortuna sul ciglio della strada per tornare al campo. Finalmente, nelle le prime ore del giorno 15, arriviamo alle porte di Susdal. Ancora due chilometri e arriviamo. Anche l’ufficiale russo che ci accompagna è stanco, dimostra di comprendere esattamente la nostra situazione e cerca in ogni modi di aiutarci... Con sforzi di volontà inenarrabili il sacrificio è compiuto. All’orizzonte cominciano tenui bagliori di luce quando improvvisamente ci fermiamo nuovamente innanzi a un grande portone.
Il campo appena fuori del1’abitato, in mezzo un antico convento, il più importante della zona, cinto da alti bastioni merlati nei quali sono stati praticati più ordini di feritoie. Nel complesso il convento ha l’aspetto di un castello medioevale ben fortificato.  All’interno del recinto signoreggiano due magnifiche chiese sormontate ciascuna da 5 cupole dorate sulle quali si drizzano verso il cielo artistiche croci ortodosse. Le chiese, una volta ricche di ornamenti, conservano quasi intatti degli affreschi che coprono intere pareti, riproducenti scene religiose e grandiose immagini di santi dalle espressioni ieratiche, a tinte vive e marcate. Nei numerosi fabbricati lunghi e stretti, a due piani, le celle abitate dai monaci. Scomparsi i religiosi il convento, ci dicono, fu adibito per chiudervi i detenuti politici e per questo le finestre sono munite di solide inferriate. Dietro la chiesa il posto usato, durante la rivoluzione, per le fucilazioni; lo si intuisce da una sagoma segnata sul muro dai tanti proiettili che hanno scheggiato profondamente e da un robusto palo, pure scheggiato, che forse è servito per legare il condannato. Le chiese nel paese sono circa sessanta. Nessuna è aperta al culto, ma delle due del campo, una è usata come magazzino. l’altra come falegnameria.
Come voi potete facilmente immaginare qui ci attende un nuovo bagno con disinfettazione, di quelli che sono rimasti i nostri abiti. Il momento sospirato giunto; nel campo ci sono circa 300 italiani, il desiderio di riabbracciare tanti cari amici ci fa dimenticare la stanchezza e attendiamo con ansia d’incontrarci con gli alti i prigionieri che attraverso inenarrabili peripezie sono giunti anche loro al campo ufficiali. Finalmente uniti in un’atmosfera di italianità, la gioia l’emozione ci fa piangere. Allontanatomi, ritrovo molti colleghi che la ritirata aveva da me divisi, incontro il mo colonnello che nel guardarmi non sa nascondere il suo stupore di vedermi ancora in vita: «Come? Sei vivo! Mi avevano assicurato che eri caduto negli ultimi minuti di combattimento, sono molto contento che la notizia non: sia vera».
Alcuni ricordano il momento della cattura, altri le prime marce, molti le tristi vicende dei mesi scorsi. Tutti hanno qualche cosa di tragico da raccontare, e il nostro cuore sente tutto il peso della morte che ha colpito le persone più care. Quanti negli stenti e nelle privazioni più atroci hanno lasciato la loro vita, quanti volti sorridenti di bersaglieri appaiono come ricordi ed ora sono là lontani, dimenticati, sotto la neve, senza nessun segno di pietà umana, senza una tomba. Molti hanno passato giornate tristissime, fatti crudeli rattristano l’animo. Il nome di Krinowaja resterà indelebile nei pochi, fortunati superstiti. Krinowaja, il campo del cannibalismo dove sotto l’insopportabile morso della fame i prigionieri sono giunti a mangiare i fratelli, dove i russi hanno dovuto ricorrere all’opera dei Cappellani perché il senso della pietà vincesse la fame. E’ una triste e dura realtà che fa certamente rabbrividire chi ha vissuto l’immane tragedia.

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  IL FUOCO DEI MORTAI
Sulla massa ormai inerme, circa 4000 uomini assiepati, i russi aprono allora il fuoco dei mortai. Molti cadono. I due fratelli con altri amici scompaiono, un colpo d’artiglieria ha preso in pieno quell’obiettivo sacro al cuore umano e cristiano. Una notte in tempesta in cui lampi, tuoni e fulmini solcano l’universo rende esattamente l’idea della tragica situazione. Non so il motivo ma non ho nessunissima paura, mi sembra di galleggiare sicuro in mezzo a quella furiosa tempesta. Una scheggia colpisce un altro bersagliere che mi cade vicino. Mi guarda quasi sorridente ed esclama: “morirò Cappellano? Sono contento perché ho fatto sempre il mio dovere..”. Sul suo petto brillava una ricompensa al valore. Il cerchio delimitato dai colpi dei mortai è sempre più ristretto. Il dorso della collina è un solo formicolio Il fuoco continua. Qualcuno comincia ad alzare le mani, si cerca uno straccio bianco. Il momento è terribile, il mio cuore batte fortissimo, più nessuno parla. Solo gesti e voci di disperazione si odono nella massa martellata dal fuoco. Siamo ridotti all’impossibilità più assoluta di resistere. Non abbiamo più nulla.
Non avevo mai pensato a tanta amarezza; sul volto di tutti c’è il segno del dolore e della morte.
Giungono allora i cosacchi e si scagliano sui superstiti per il bottino. Sono vicino al mio collega Don Capra leggermente ferito da una scheggia alla spalla. Lo sorreggo e ascolto con il cuore pieno di angoscia alcune commoventi parole. Il nostro colloquio, troppo breve, mi conforta e innalza il mio cuore ai cari ricordi di entusiasmo dei giorni più belli del Seminario. Ho quasi dimenticato il frastuono che mi circonda e la tragedia che mi attende.
Un cosacco giunge vicino e interrompe le mie riflessioni, forse ha riconosciuto le insegne di Cappellano sul petto di Don Capra e vedendolo leggermente ferito, con un colpo di mitra lo finisce facendolo cadere sulla neve. Vorrei abbracciarlo ma non posso, recito una preghiera e faccio scendere su di lui l’ultima benedizione. Il russo mi è sopra, mi strappa l’orologio e con un calcio mi sospinge con gli altri prigionieri.
La mia grande pelliccia gli ha impedito di conoscere in me un altro Cappellano, non è ancora giunta l’ora della mia morte, ma sono all’inizio di una ben triste schiavitù, sono all’inizio di quel calvario che mi darà la possibilità di conoscere più da vicino la vita dell’infelice popolo russo. Col cuore straziato rivolgo l’ultimo pensiero ai cari lontani, ai compagni che forse non vedrò più e mi avvio incolonnato con tutti gli altri. I prigionieri non conoscono il loro destino.
Sono le 9,30, il fuoco dei mortai è cessato, solo tra le isbe del paesetto vicino si sente qualche colpo di mitra, solo qualche cosacco passa veloce e dà ordini precisi. La massa lentamente si sposta lasciando sulla neve numerosi morti. Sono in mezzo alla mischia senza quasi comprendere la tragicità del momento. Mi sembra di sentire il mio nome, cerco d’individuare da dove viene la voce e non riesco. Un istante dopo una mano mi prende per un braccio: “Padre, venga, avanti ci sono i bersaglieri». “Subito, grazie”. Sono in mezzo a loro, sul loro volto leggo l’espressione del dolore. Tra gli altri riconosco il caro Gianni. “Padre, come andrà a finire? dopo tante vittorie lo sa che dovrei essere avvicendato da mesi?”. “Coraggio ragazzi, dobbiamo avere forza e la Provvidenza non mancherà di aiutarci...”. ........
”Presto avanti!” con un calcio il russo mi fa seguire la massa che scende verso la balka come un branco di pecore. Sono prigioniero, ma coi miei bersaglieri. Ho abbandonato tutto, ma non la fede, quella fede che in Seminario qualche volta mi è costata anche qualche dolore. Mi avevano detto che molti venivano portati in Siberia e che alcuni venivano fucilati. Quale sarà la nostra sorte?. Per un momento il mio pensiero si eleva a Dio a cui innalzo la mia preghiera. «Per questo popolo o Signore accetta la mia e la nostra offerta, fa che anche questi quanto prima ritornino alla casa paterna e si faccia un solo ovile e un solo pastore!».
Dal paese continuano a uscire soldati lievemente feriti, ogni tanto si sente qualche colpo di mitra. I bersaglieri parlano con animazione dell’attacco su Meskoff della sera precedente.
“Hai visto Piero che coraggio... “ il nome mi colpisce. “Dimmi chi è questo Piero di cui parlate”.
”Un caporale dell’undicesima compagnia Cappellano”. “Dov’è adesso?”.
”Non sappiamo nulla, è sparito nella notte...”.
”Ditemi, m’interessa, è lui che mi ha servito l’ultima Messa?”.
”Padre, Piero ieri sera è stato veramente un eroe, ha sempre seguito il Sottotenente Corcione, avevano già raggiunto l’estremità opposta del paese, quando una scheggia lo ha colpito, e noi tutti lo abbiamo sentito e lo abbiamo portato al posto di medicazione”
”Era grave, Padre, le sue ultime parole dette al Tenente sono state queste: — Voglio morire combattendo, è questo il mio dovere — e mentre il Tenente cercava di sollevarlo la sua voce si faceva sempre più fioca: — Mamma, Maria... Italia — e lentamente spegnendosi ripeteva: — Gesù ... Mamma — Quando giungemmo, già il suo spirito proteggeva i nostri passi...”. “Povero Pietro, cosa dirò alla sua mamma che veramente adorava...?”. “Coraggio, ci aiuterà dal cielo” e tutti quasi in coro: “Era tanto buono”. Lo avevo visto una sola volta ma ci eravamo capiti e ci volevamo bene.
La notizia della sua eroica morte mi rattrista ma il solo pensiero della sua protezione dal cielo conforta il mio cuore e, seguendo lentamente la massa, recito una preghiera di suffragio.
PRIGIONIERI
Siamo in balia di alcuni soldati, forse sono mongoli, con un sorriso beffardo si avvicinano come la belva si avvicina alla preda. Tutti i nostri oggetti personali per loro sono gioielli. Li avevo visti pochi giorni prima, nostri prigionieri, umili nella loro divisa e imploranti pietà; parlavano male del loro paese e persino imprecavano a Stalin dicendo: “Stalin caput”; li disprezzavo allora e in questo momento dovrei odiarli. Appena fuori del paese hanno stabilito uno speciale posto di controllo. Tutti dobbiamo passare innanzi a loro con le mani alzate, ci devono controllare, tastare, togliere tutto quel poco che ancora abbiamo, senza nessuna umanità, senza nessuna civiltà, a qualcuno tolgono anche i fazzoletti dalle tasche e sogghignano: Italiaschi soldat ploca!
Quale triste visione, quale incontro! Il mio cuore si fa triste, i bersaglieri imprecano, mi fa paura il momento che passerò innanzi al soldato dall’occhio spirante vendetta. Davai ciassì Alzo il capo, un altro soldato dà la caccia, per conto suo, agli oggetti che lo interessano. Mi fissa, forse ha parlato con me, lo fisso e lui con sguardo maligno e voce seccata ripete in tono categorico: Davai ciassì! Ha visto l’orologio che porto al braccio, lo vuole, glielo devo dare. Si avvicina, afferra l’orologio come dovesse compiere una nuova fatica di Ercole, lo strappa con forza dal braccio. Forse non domanda altro ma al solo pensiero che avrebbe potuto perquisirmi trovandomi la croce sul petto e scoprire che ero Cappellano mi fa trarre dal taschjno anche l’altro orologio e consegnarlo immediatamente. La prima belva è soddisfatta e si allontana. Con quale premura conservavo quell’orologio, era il dono dei miei genitori quando facevo il liceo! ........