La storia è racconto attraverso i libri 

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

 

Sapevamo di perdere

Ballata Cremisi di Umberto Maria Bottino

E' la storia del XX battaglione (poi rinominato II costiero) del 3° volontari della R.S.I.. Il reparto, che partecipò alle operazioni belliche del 44/45, era inquadrato nella 34 div. Germanica. "Eravamo più di 500 universitari o appena diplomati, quasi tutti volontari, in gran parte milanesi, poi parmigiani, cremonesi, bresciani e friulani. Ci presentammo alle scuole di Porta Nuova fra la fine d'ottobre e il mese di novembre del 43. La scuola, bombardata e semidistrutta diventò la caserma intitolata a Caretto del glorioso 3° di Russia del quale questi giovanissimi si sentivano eredi morali. Si erano arruolati per andare al fronte, per fermare il nemico che già occupava il meridione. Dopo l'addestramento di Alessandria fummo inviati in Liguria schierati sul fronte occidentale minacciato dallo sbarco degli americani in Provenza. La punta avanzata del battaglione era schierata a Ponte S. Luigi, Valle del Roja e gli altri a Ventimiglia e Imperia. Il reparto ha lasciato sul terreno, fino ad aprile del 45, 90 morti e decine di feriti. Il 2 maggio 1945 consegnammo le armi. Umberto Maria Bottino  ha voluto ripercorrere questa singolare storia come un romanzo, narrando le vicende di chi sapeva di perdere, nella ragione o nel torto, nella dignità ma anche nella coerenza. 

 

 

   
II ponte che attraversa la Bevera e approda al borgo che pur Bevera si chiama, poco a monte del punto in cui le sue acque confluiscono nel Roja. è, a valle, l’unico legame tra le due sponde. Non l’ho mai attraversato, perché tutta l’attività della mia squadra si svolse nel triangolo che aveva base la costa, e segnava i suoi lati tra Ventimiglia e Seglia, in Val Roja, da una parte. Latte e Ponte San Luigi, dall’altra: il terzo lato era sguarnito. Ci pensavano altri. Sottoposto a incessanti tiri di artiglieria, dal mare e dai monti, e di mortaio, era di giorno, quasi invalicabile: ma quando dovevano attraversarlo, i bersaglieri calzavano ben visibile il fez cremisi...
Per le postazioni oltre il ponte, addetta a tali rifornimenti alimentari era la squadra della Pac. Un bersagliere attraversava veloce, a razzo, il ponte, mentre un altro tratteneva il mulo. Poi, un gran colpo sulle natiche, inferto con una bomba a mano tedesca (di quelle a martello) e il mulo così ‘bastonato” per scappare correva oltre il ponte. Il bersagliere seguiva poi di corsa, in modo che l’attraversamento del ponte offrisse ben poco spazio ai tiri incessanti dei mortai nemici. Sono, personalmente, in grado di apprezzare questa elementare tecnica mulattiera. In condizioni forse peggiori avevo ingaggiato una vibrata colluttazione con un mulo per costringerlo ad attraversare un ponticello: e sul suo basto pesava un quintale di munizioni in grado di eliminare, se fossero scoppiate, il mulo, me e quanti altri erano nelle vicinanze. In guerra ragazzi, ci vuole esperienza e tecnica!  Escluso il vettovagliamento per i reparti agli avamposti (Grimaldi e Mortola) il resto del battaglione trovava le fonti di rifornimento in Bordighera, presso il Comando di battaglione, in quel tempo colà dislocato. Ad un ristorante di Bordighera ricorrevano, per un plus, i più sfacciati (o i più affamati ?). La linea alleata correva, dirimpettaia, sul crinale delle Alpi Marittime, cioè sul crinale del gruppo del Grammondo.
Tra le due linee la terra di nessuno, di un centinaio di chilometri quadrati. Il vuoto per dividere gli eserciti e per dar modo di capire cosa succedesse. La popolazione che aveva abitato i villaggi di Villatella. Torri, Calvo. Bevera e altri, era già stata fatta sgomberare, una prima volta, dal Regio Esercito nel giugno 1940. Poi, dopo l’armistizio con la Francia, molti erano tornati, ma quando gli Alleati sbarcarono in Provenza, e il fronte si stabilizzò tra il Grammondo e il Roja, si ripresentò la necessità dello sgombro, questa volta intimato dal Comando tedesco, e per salvaguardare la popolazione locale, ma soprattutto per evitare intelligenze col nemico. Questa volta non tutti sfollarono e alcune famiglie si abbarbicarono nelle loro case, come non avevano fatto nel 1940. Prima del nostro intervento in linea. questo territorio era battuto dalle pattuglie inglesi e alleate: dopo il colpo di mano fu territorio prevalentemente percorso da bersaglieri in perlustrazione, di ronda, in azioni di controllo: i bersaglieri della quinta, in dicembre- gennaio, e delle sesta e settima compagnia poi unitamente a modeste pattuglie della Wehrmacht.
Al di qua del crinale, nella valle del Roia. era ammessa, ma estremamente rischiosa, la sopravvivenza dei civili. Le olive venivano raccolte dalle ragazze e qualche frantoio oleario lavorava ancora arrangiando compromessi con bersaglieri e tedeschi. A Bevera c’era anche una panetteria col forno in funzione, e poca farina.
Era utile essere pronti ad emettere il regolamentare Altolà! mani in alto!”: Si potevano incontrare strani personaggi. Ne incontrò uno una pattuglia sotto il Longoira. “Altolà! Mani in alto” “Siamo amici” e mostrò un lasciapassare firmato dal maggiore Geiger, sovraintendente tedesco del settore. Dietro al capo due spaventatissime e titubanti figure. Li porto di là’, dice il capo. Voleva far intendere che si trattava di spie, ma, dalla paura che trasudava dai loro volti, potevano anche essere staffette partigiane di collegamento, o, perché no, ladri di preziosi. “Non vi avevo avvertito che avremmo incontrato i bersaglieri?” dice il capo, e rivolto ai due, li rincuorò “Non ve l’avevo detto? Tutto a posto” e si avviò verso le cime, ingoiato dalla notte...
Oltre il ponte. vissero la loro avventura molte squadre della quinta, della sesta e settima compagnia. Che allungavano la loro attenzione - in terra di nessuno fino a Torri, quattro case disabitate e semidistrutte. Da lì principiavano la loro incessante attività le pattuglie dei perlustratori. Di ciò che è avvenuto oltre il ponte ho solo notizie da altri: alcune di allora, fresche di giornata, altre di oggi, col valore delle rimembranze e delle testimonianze... Prima preoccupazione del Comando della 34’ divisione era che la terra di nessuno, il cuscinetto tra i due schieramenti fosse occupata silenziosamente dal nemico: ma che, nell’eventuale tentativo, scattassero gli opportuni allarmi. Le pattuglie, formate di volta in volta ad hoc con la partecipazione di elementi, molte volte volontari, provenienti da squadre diverse, e gli avamposti di Ponte San Luigi, Mortola, S. Antonio, Villanella e Torri (cui si arrivava anche da Monte Pozzo, ove avevano sede nei mesi di dicembre e gennaio. arretrati e pacifici, gli uomini di Salafia, con il quattrocchi Radice Luigi e Minniti il cuoco, Rovella, Benedusi ed altri) avevano una funzione di campanello d’allarme.
Villatella. un agglomerato di rustici e baite fu recapito provvisorio per ultra pattuglia, della quale fecero parte Luigi Radice - che spontaneamente si offriva ogni volta che c’era l’occasione - Aristide d’Alessandro, Paolo Ferrante orfano di una medaglia d’oro caduta in terra abissina, due tedeschi. ed altri bersaglieri. Sette notti a spasso. tra i dirupi che salgono dalla Bevera alle cime del gruppo Grammondo. Scopo: catturare pattuglie nemiche. Non lasciare tracce. sotterrare i rifiuti. Possibilmente non sparare: combattere all’arma bianca. Ma chi mai ci aveva addestrato a questa evenienza? Per dormire si fermarono in varie case del paesino: Cinque bersaglieri al lato nord, cinque al lato sud e cinque al centro del paese. S. Antonio fu raggiunta da uomini del secondo plotone: il paese era devastato: mobili e masserizie rovesciate per le strade, il sospetto dei fantasmi era evocato da lenzuola mosse dal vento. In questo scenario da day after, in questa atmosfera allucinante, appena giunti al fronte. per curiosità, si inoltrarono, passeggiando, Palieri e Soragna: udirono rumori. Comparvero due militari nemici, anche loro a passeggio. Nessuno dei quattro era in assetto da combattimento: si rivolsero la parola, uno dei due si chiamava John, nipote di siciliani. In un pessimo inglese e cattivo italiano si scambiarono pane bianco e olio. Okay John. A Natale, dall’una e dall’altra parte della Valletta, ci fu uno scambio di auguri. Merrv Christmas Raf, Buon Natale John... Bers. Umberto Maria Bottino
 

 

pp 346 ill. 193 edizione fuori commercio: fotolito e stampa A. Negri, Rozzano (MI) 1993

 

 

 

   

<<< dal numero unico del raduno nazionale di Vicenza

 

 

 

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A Quagliuzzo comincia la diaspora: alle nostre spalle chi ci ha formito il lasciapassare, davanti il vuoto. Bisogna pensare a noi stessi, ognuno per proprio conto e diventa ossessivo il pensiero di chi ci attende a casa... Ci ritroviamo a piccoli gruppi, ognuno ha la sua strategia, per la ritirata personale. Qualcuno ha anche la carta topografica. Dove siamo? A Quagliuzzo. Dov’è? Ecco, di qua Torino, di là Milano, ma tu che sei di Genova potresti... Ci avviamo, i partigiani non ci hanno fatto scherzi, siamo veramente liberi. Sono avanti a un gruppo di altri colleghi e costeggio una roggia. Mi trovo di fronte due ragazzini, sbucati da un cespuglio con le armi puntate. Alzo le braccia, mi chiedono ch sono e intanto arriva un secondo ex bersagliere, poi un terzo, un quarto, una decina. I ragazzi sono giovani, ma intelligenti e capiscono. Ci salutano, e ce ne andiamo. Alle spalle aspettiamo che ci sparino. Non avviene. Allora, la guerra è proprio finita?
Più avanti altro posto di blocco. Siamo già alla burocrazia. Ci chiedono i documenti, li controllano e via. La direzione di marcia è Milano, forse domani faremo l’autostrada... E tardi, siamo vicini a un fienile, ci fermiamo. Il contadino ci fa accomodare nella stalla perché là fa più caldo. Con noi dorme un’altra ventina di sbandati. All’alba si riprende, seguendo sentieri secondari; ma quando siamo vicini ad Aglié ci sembra più opportuno evitare le strade solitarie. E meglio confondersi nelle città, con tutti gli altri, i vincitori, i vinti, i regolari, gli sbandati. Mi fermo: mi viene incontro un collega, e mi dice che Lo Cicero è andato dal parrucchiere. Apprezzo la calma straordinaria. Lo aspetto. Quando ritorna ci consiglia di andarcene. Il barbiere voleva tagliargli il collo: se non fosse intervenuto il vecchio padre che disse di perdonare. Meglio proseguire e cambiare aria. Il piccolo gruppo di fuggiaschi, come tanti altri gruppi, si formava e si disfaceva, a seconda della stanchezza e del mutare delle mete. Ne perdevamo alcuni e altri si aggiungevano.
Percorrendo l’autostrada TO-MI ci fermammo sul ciglio, vicino a un ponte. Sull’asfalto, passavano mezzi corazzati, autoblinde, jeeps con i bei negroni dal largo sorriso ed il berretto gettato all’indietro. Lo spazzolino da denti visibile nel taschino. A piedi, diretti a Torino, arrivarono due ragazzi. Mi sembrarono due sbandati provenienti da qualche corpo sciolto nel Veneto e diretti verso casa. Li salutammo e si sedettero con noi sul ciglio della strada. Chi sei? Cosa fai? Da dove vieni? Dove vai? Erano due «badogliani» che, arrivati con l’esercito del sud fino a una località vicino a Milano, avevano avuto licenza di andare a trovare la propria famiglia. Dopo due anni di assenza. L’Italia si ricomponeva. Non perfettamente, perché, poco dopo, avanzando gli altri di pochi passi, e voltandomi, non trovai più nessuno: anni dopo, appresi, da un protagonista, che alle mie spalle era sbucato un «commando» di partigiani, il quale, fatti scendere dal ciglio della strada i bersaglieri più vicini, aveva infierito a pugni e calci...: per souvenirs si tennero gli orologi.
Non rimasi solo, perché raggiunsi, più avanti, il Macca, sergente di ferro, anche lui diretto a Milano.
Dovevamo essere vicino a Galliate e, facendosi oramai buio, pensammo di raggiungere una fattoria le cui luci accese si vedevano oltre i campi a circa trecento metri. Scarpiniamo sulle zolle di un campo arato e un contadino ci blocca e ci avverte minaccioso «Guardate che fra poco arrivano i partigiani. Se avete qualche cosa da nascondere è meglio che scappiate, ma subito. Li ho chiamati io, perché dentro (e accenna alla fattoria) ci sono già una cinquantina di sbandati come voi e io non voglio storie...». Dal tratturo arrivò un camion carico di uomini e donne, partigiani armati di tutto punto: la pattuglia era al comando di una giovane donna, sorella del comandante il distaccamento della zona. Se i partigiani erano, diciamo, dieci, i mitra saranno stati una ventina, e poi ciascuno aveva in più anche il fucile e sicuramente una rivoltella. In più coccarde, foulards, bandiere, qualche bomba a mano. Ci puntarono contro, imperiosamente, le armi e, con sveltezza, fecero scendere tutti gli altri sbandati dal fienile. Ci caricarono tutti sul camion, il quale, nel buio della notte, si diresse verso una destinazione, ignota per noi...Quando arrivammo in paese, una folla urlante ci accolse. Gli urli erano inequivocabili: «Ammazzateli!». «Mazei!» (in dialetto). E poi ancora «Fucilateli». «Al muro, al muro» e intenzioni simili. La folla tentava di abbordare il camion e di farlo fermare, con l’evidente tentativo di provvedere, direttamente, a un linciaggio.
Il camion si fermò davanti a un caseggiato, che, nel buio della notte, si innalzava immenso contro un cielo altrettanto buio. Alla base era aperta una piccolissima porticina, attraverso la quale capimmo, avremmo dovuto entrare... Di scatto e di corsa attraversammo uno alla volta i dieci metri che ci separavano dalla porta, mentre i partigiani del camion, a dire il vero, ci difesero dalla folla. Ammassati in un corridoio, ad uno ad uno, i miei compagni furono fatti entrare in una stanza ove, con un breve interrogatorio, mostravano documenti, se li avevano, e subivano una prima registrazione. Era sequestrato tutto: orologi, soldi e borse. Qualcuno accennò una protesta.
Ero rimasto l’ultimo e chi mi precedeva era entrato nella stanza da un pezzo ormai, e da là non arrivava alcun rumore. Abbastanza imbarazzato sbirciai attraverso l’apertura dalla quale proveniva la luce. Non vedevo nessuno... Non c’era nessuno che mi vedesse; avrei potuto fuggire dalla stanza, certamente, ma poi come avrei potuto raggiungere la strada ove la folla reclamava il sangue? Non potevo farlo...Mi risolsi a bussare, nessuno rispose. Bussai ancora. Silenzio. Entrai compito. Un tavolo coperto di carte, suggeriva che quella fosse la sede del Comando. Mi misi in un angolo e mi accorsi che si ripresentavano le domande di prima. Fuggire? Restare nascosto? Farsi notare? E se facendomi notare fossi stato messo in quel gruppo che volevano fucilare? Mi diedi un contegno, non di più di quanto avviene all’ingresso dei dentisti.
Dopo una mezz’ora comparve un tizio, fascia azzurra al braccio, due pistole nel cinturone. Mi guarda: «E tu sei ancora qui?» sembrava rimproverarmi e io non volevo essere rimproverato. Gli porsi la mia borsa, la aprì e si accorse che dentro avevo le lettere della morosa, il libretto da Messa e la macchina fotografica, due scatole di sardine. Prese tutto questo, lo mise sul tavolo, chiamò dall’altra parte un suo collega, al quale disse «Qu’est qui l’è un brau fieu» (questo è un bravo figliolo). E mi restituì il tutto. Giudizio sommario, ma positivo. La brigata si intitolava ad «Alfredo Di Dio» ed era costituita da partigiani cristiani.
Quando avevano dubitato che Palieri non fosse quello che si dichiarava, lui aveva estratto dai pantaloni, ove era ripiegato, il fez, cremisi, nappa azzurra. Bastò, se non ad assolverlo, a rimandare ogni giudizio (A morte! A morte!) al giorno dopo. Con quel fez che, invece, per altri, era stato la peggiore denuncia.
Mi fece attraversare la porta e mi trovai in un’aula scolastica... Due o tre partigiani si intrattennero a parlarci. Così venimmo a sapere della fine di Mussolini, del quale ci fecero vedere le foto (quelle di Piazzale Loreto), ci dissero qualche cosa degli ultimi giorni di guerra: venimmo a sapere che, il giorno dopo — il sei maggio del quarantacinque — ci sarebbe stata una importante sfilata partigiana a Milano. La prima. Vèrso le quattro del mattino ci dissero: «Venite con noi, vi riportiamo a Milano». Su un camion, ero sempre con il mio amico Macca, presero posto alcuni partigiani in abiti della festa, con le loro coccarde, con i loro foulards, con le loro armi. La colonna si diresse, percorrendo l’autostrada, fino a Milano: quando arrivammo nei pressi di Roserio, alla periferia della città si fermò e sostò, per riordinare le fila.
Al partigiano che mi era vicino dissi «Io abito qui vicino.., potrei scendere?» lui si volse dall’altra parte per farmi capire che, pur acconsentendo, non voleva assumersi responsabilità. Scesi velocemente, ma non di corsa, per non farmi rincorrere da qualcuno che non condividesse l’iniziativa. Mi trovavo dalla parte opposta della mia abitazione, non importava. Oramai ero a Milano e rapidamente, a piedi, strada dopo strada, raggiunsi casa mia. Ero vivo...
Bers. Umberto Maria Bottino