La storia è racconto attraverso i libri  

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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TAPPE DELLA DISFATTA

DI FRITZ WEBER

HERMADA INFERNO CARSICO

Davanti a noi una bassa collina fiammeggia sotto le esplosioni di grosse granate. Nessuno lo chiede, ma tutti sanno che quella è l'Hermada maledetta. I giorni che seguirono furono torridi. Il suolo poroso aveva da lungo tempo assorbito ogni traccia di umidità. Un'aria infuocata avvolgeva il colle isterilito, arido, martoriato, trasportando fino a noi l'odore dolciastro e stomachevole dei cadaveri in putrefazione. Laggiù, oltre la cresta dei colle, giacevano, spesso senza sepoltura, oppure in fosse' sconvolte dalle granate, i morti di dieci battaglie, i caduti in innumerevoli combattimenti, ridotti a scheletri biancheggianti, a gonfi mostri, a spaventosi cumuli di uniformi a brandelli, di ossa e di vermi. Dalle trincee si era spruzzata su di essi della nafta e le si era dato fuoco, oppure si era versata sopra della formalina. Inutilmente. Ogni volta che, dopo alcuni giorni di pioggia, il sole tornava a splendere, il tremendo lezzo ricominciava a soffocare i superstiti. Ma l'Hermada continuava a resistere. I suoi fianchi, cosparsi di corpi umani distrutti e mille volte sconvolti dalle granate, erano intersecati a ogni passo da trincee, ricoveri, fosse; la cima veniva ogni giorno rinforzata e puntellata con cemento e sabbia, traverse e sbarre di ferro. Migliaia di bocche avevano, su questo colle, pregato o bestemmiato, prima di chiudersi per sempre.

Divenuta da lungo tempo una fortezza gigantesca, l'Hermada era la chiave di volta del fronte dell'Isonzo, 1'« indomabile bestia », a cui i giornali italiani dedicavano colonne su colonne. A nord, il San Michele era stato perduto, come pure il Sei Busi ed il Podgora. Del Monte Santo si sapeva che non avrebbe potuto resistere a lungo. Ma l'Hermada resisteva, doveva resistere a qualsiasi costo. La sua caduta ci avrebbe costato la perdita di Trieste nonché allungato interminabilmente il fronte...Dalle varie alture lo sguardo. correva lontano. A sud e a sud-ovest c'erano il mare, la baia di Panzano, che ci divideva da Punta Sdobba, la foce dell'Isonzo. A Punta Sdobba, una lingua di terra intersecata di canali, si trovavano i nemici mortali dell'Hermada: settanta batterie pesanti, parte montate su pontoni di ferro, parte in posizione, su piazzuole di cemento armato. Giorno e notte, le loro granate traversavano la baia, andando a scoppiare sui costoni e sulle cime dell'Hermada, di cui sgretolavano la friabilissima roccia. Controbatterle era impossibile: oltre a sparare da grande distanza, erano difficilissime da colpire, poiché la maggior parte dei nostri colpi andava a cadere, senza produrre alcun effetto, nell'acqua dei canali. Di tanto in tanto, è vero, i nostri aviatori sganciavano su di esse: ma il bombardamento, dopo una breve interruzione, riprendeva più violento che mai. Qualsiasi profano avrebbe potuto capire come ogni attacco contro questa fortezza naturale, dotata, inoltre, di tutti i più moderni mezzi della tecnica bellica, dovesse rappresentare una impresa molto ardua. Circondata da due parti, e precisamente tra Jamiano-Selo e San Giovanni-Medeazza, dal nemico, essa offriva tuttavia abbastanza spazio per ospitare e nascondere centinaia di batterie e migliaia di soldati. Chi aveva l'Hermada aveva Trieste, e questo lo sapevamo tanto noi quanto gl'italiani.

   

. «Laceri, sanguinanti, sporchi di terra... piccoli di statura ma ben piantati... Gli ufficiali sono silenziosi, tristi, amareggiati... Guardano davanti a sé con un' espressione cupa. Lo spirito militare che li anima è identico al nostro. Non ho mai veduto un ufficiale italiano che sia venuto meno alla sua dignità. Erano e sono tutti avversari cavallereschi, valorosi, implacabili».

“Le pendici son tutte ricoperte di cadaveri insepolti. In una dolina a mezza costa affiorano pezzi di bare, resti scuri di corpi in putrefazione. Molto tempo deve essere passato dal giorno in cui questi morti vennero chiusi nelle loro casse. Forse erano degli artiglieri delle prime battaglie dell'Isonzo. Oggi i caduti vengono gettati, senza divisa, in fosse comuni scavate laboriosamente con la dinamite e sulle quali si cosparge acido cloridrico. Tutto diventa più semplice e sbrigativo: l'istruzione dei soldati, il modo di combattere, la sepoltura”.

Trincee d’approccio scavate tutte nella roccia a forza di cariche d’esplosivo, caverne, posizioni fortificate,camminamenti sicuri. L’Hermada, pilastro angolare meridionale del fronte, era divenuto una fortezza pressochè inespugnabile. Quaranta osservatori blindati garantivano che il teatro delle future battaglie sarebbe stato sempre visibile in qualsiasi condizione, anche dopo un tambureggiamento di molte ore. I collegamenti telefonici con gli osservatori erano assicurati da cavi sotterranei che le granate italiane non avrebbero potuto distruggere.”
  IL VALLONE ANTISTANTE

…. Sull’altopiano c’è una grotta gigantesca, profonda quasi dieci metri , scoperta da uno speleologo. Ora serve da posizione di riserva per un paio di centinaia di uomini ed è sistemata a dir poco in un modo fantastico. Vi è  stata messa dentro una  casa a tre piani con solidi montanti e pavimenti di legno , muri di pietra riempiono le cavità e le scale conducono all’ingresso, che sta subito sotto il soffitto, giù fino al pianterreno. C’è la luce elettrica e ventilazione e, quel che più conta, assoluta sicurezza; la roccia , sopra questo bizzarro quartiere, è alta 30metri. Tuttavia , il motore, che ansima vicino all’entrata, fornisce, a turno, aria o luce e la gente deve ventilarsi al buio o sudare al chiaro. Nessun regista teatrale potrebbe escogitare scene eguali; solo la necessità della guerra produce quadri esotici che superano ogni artifizio. .(traduzione Renato Ferrari) Tratto da : Gli Honved sul monte San Michele: Alice Schalek (1874-1956) –Isonzofront , Edizioni Libreria Adamo, Gorizia,1975

MARIO PUCCINI Come ho visto il Friuli, Roma, 1919

Il Vallone è stato per due anni, l’anticamera della prima linea, il luogo , dove si abbandona l’ultima speranza, e si dà, rassegnati , un addio alla vita. I costoni di Devetaki, di Palikisce, di Boneti, con quelle case sbrecciate e dirute, con quegli artiglieri a fianco dei pezzi, con quei radi alberi, che segnano la strada di Doberdò e abbelliscono Mikoli, parevano un mondo febbricitante, fantastico, innaturale. I reggimenti, che venivano dalle lontane retrovie, o da altri fronti, vi penetravano di mala voglia, chè né osterie c’erano, né cucine, né donne: e la morte pareva che ti stesse sempre sospesa sul capo, come una mannaia di ghigliottina. E però vi si sentivano a disagio, lo maledivano. Ma quando il Vallone, dopo dieci giorni di ospitalità, dovevano, una bella sera, lasciarlo per la prima linea, che cosa avrebbero dato per rimanervi! …Nel Vallone, di sera, faceva fresco e, dovunque ci si volgesse, un sorso d’acqua lo trovavi. Vallone non era ancora Carso, nel giudizio di qualche fante. Vi cadevano, a coppie, i 305: a mazzi , gli shrapnells e gli spring-granate. Ma, nel Vallone, in quelle centinaia di uomini che vi vivevano, la morte sceglieva appena i più segnati dal destino; e gli altri: potevano cantare, andar dal cantiniere, far quattro chiacchiere alla buona. …come ad aiutare ciascuno la scheletrica ossatura dell’altro a star ritta, i ricoveri e i baraccamenti si appoggiavano uno all’altro, volgendo la schiena al nemico. Erano centinaia, e chi li vedeva dal Crni Krib o dal Brestovec, credeva di scoprire un alveare umano, o un’immensa ragna, dove anche i più innocenti movimenti dovevano costare fatica. Pareva quasi che l’uomo vivesse lassù, gomito a gomito, con il compagno: che, di notte, ciascuno dovesse smaniare, per mancanza di respiro o di posto. Ma, giungendo sui costoni, apparivano vie e viuzze, si salivano scale di un primo, di un secondo, di un terzo ripiano. Un villaggio provvisorio, con cartelli e frecce, che dividevano le proprietà e le incombenze: con abitanti allegri che fumavano, cantavano, cianciavano. …….Sulla sera , il traffico , nell’ampia valle, diventava imponente. Processioni di muli e di autocarri spuntavano dalle strade di Cotici, di Marcottini, di Doberdò, del Crni Krib, inseguite dalla polvere delle strade. ……S’accendevano i lumi, non appena le luci del giorno accennavano a spegnersi. Ma gli accampamenti stabili non avevano paura dell’oscurità. La temevano invece i camions che, dal Crni Krib, s’avventuravano tra quelle viuzze e salite, un dedalo di baratri. Ma se i camions si facevano precedere dai fanali, i soldati del Vallone, con urla, e spesso con pugni, costringevano gli automobilisti a spegnere i lumi; perché il nemico, se vedeva, scagliava, alla cieca, i suoi colpi. ……

  IL CROLLO DI UN IMPERO

IV. MARCIARE O MORIRE
L'ultimo atto del gigantesco dramma è incominciato. Una vera e propria fiumana uscita dall'inferno di fuoco attraverso cento camminamenti, sentieri, campi, straripa sugli argini, si gonfia, sbocca impetuosa nelle strade: uomini, cannoni, automobili, cavalli, carri e di nuovo uomini, uomini, uomini. La terra brucia sotto i piedi, il terrore ottenebra il cervello, ognuno si sente nemico dell'altro. Non appena si leva il nuovo giorno, mi arrampico su un gigantesco pioppo, tra i cui rami avevamo collocato un secondo osservatorio. Il quadro che si presenta ai miei occhi è addirittura babelico: sulle due uniche strade, che attraversano la zona, si muovono compatte masse di uomini, mentre a passo di corsa nuovi gruppi sbucano dai filari di viti e vengono inghiottiti, strappati, trascinati via dalla fiumana. Più a nord, attraverso le nubi prodotte dalle esplosioni delle granate italiane, si distinguono altre masse in movimento. Sono i resti dell'esercito in sfacelo sparpagliati su settanta chilometri di fronte e spietatamente bombardati dall'artiglieria nemica.
Adesso i primi palloni frenati si alzano lungo il Piave, terribilmente vicini, proprio a ridosso dell'argine. Le batterie tuonano sempre più potentemente.
La strada. Essa sembra la salvezza ed è invece la fine per innumerevoli soldati che vengono fatti a pezzi dall'ultimo bombardamento della guerra. Gli altri, però, quelli che rimangono incolumi, vi si aggrappano saldamente e continuano la marcia, per essere raggiunti, quindici chilometri più in là, dalle granate dei cannoni a lunga portata. La fiumana, nella quale ci dobbiamo immergere, per fuggire, passa vicino a noi. Avanti dunque, soltanto avanti! Chi non può camminare è perduto, chi si piega verrà polverizzato, chi inciampa sarà gettato vivo nella tomba. La macina gigantesca degli stivali fangosi, degli zoccoli dei cavalli, delle ruote, coprirà le sue grida di aiuto e passerà sul suo corpo.
Le fruste schioccano sulle groppe dei cavalli. Una mano si aggrappa a un carro, per aiutare le gambe vacillanti. Che nessuno osi gravare del suo peso i nostri cavalli! Non ci saranno grida, non invocazioni e neppure minacce: la violenza soltanto può procurare spazio e salvezza. Il fucile che portiamo sulle spalle. ci servirà contro il vicino che oserà mettersi attraverso la strada; la galletta nel tascapane è un segreto nascosto tenacemente agli altri, che non ne hanno più. L'ultima scatoletta di carne viene aperta e mangiata in piena corsa, prima che una mano più forte l'afferri. Avanti, soltanto avanti! Non è un popolo, che si ritira, lottando per la sua salvezza: sono nove popoli, tutti armati e messi sulle stesse strade, che si urtano l'un l'altro pieni di odio e di rancore.
Alle loro spalle incalza il nemico, bramoso di bottino e di prigionieri. Gli shrapnels scoppiano sulle file dei fuggitivi, li abbattono a decine; le sue granate battono gli incroci stradali e i villaggi; i suoi aeroplani scaricano mitragliatrici e lanciano bombe. Una disfatta come questa non si era ancora vista, nella storia del mondo.
La batteria è ancora nel giardino che per tanto tempo l'ha ospitata. Siamo però decisi a portarla via, ché senza armi saremmo alla mercé della fiumana in marcia. Perché adesso incomincia una seconda guerra, assai più caotica, irregolare e terribile di quella che abbiamo finora conosciuto: è la lotta di tutti contro tutti, nutrita dall'odio reciproco delle nazioni che componevano l'Impero crollato. Grida di richiamo. Gli uomini addetti al parco dei cavalli ci raggiungono attraverso i campi. Hanno dovuto risalire la fiumana. per venirci a prendere. La loro fedeltà splende come un raggio di sole nell'orrore di questa notte. Con le zappe ed i badili apriamo alcune brecce per il passaggio dei pezzi. In breve i tre obici sono attaccati agli avantreni.

- Fossimo tutti già andati al diavolo! - mi dice un ufficiale di fanteria, mentre si mette l'elmo e getta un'occhiata ai suoi uomini, che con movimenti assai lenti stanno appendendo alla parete della caverna le loro armi. Le trincee devono rimanere occupate anche sotto il bombardamento. Meglio un battaglione decimato che un reggimento distrutto dai contrattacchi. Si raccontava che il maresciallo Boroevic 1 facesse consistere in questa semplice formula il segreto della difesa della linea dell'Isonzo. Si diceva pure che non avesse mai voluto venire in prima linea per non vedere con i propri occhi gli effetti della sua teoria, nel timore di non avere poi il coraggio di continuare ad applicarla. Questo punto di vista fa onore all'uomo dal «cuore d'acciaio» più delle undici battaglie dell'Isonzo ch'egli diresse. Se il suo sistema non fosse stato osservato, il fronte carsico sarebbe stato rotto. Sistema giusto, ma terribilmente crudele e matematico. Il battaglione prescelto doveva rimanere dove si trovava, facendosi decimare e distruggere senza risparmio, per permettere che due o tre altri reparti potessero tenersi al riparo e freschi in attesa del momento decisivo. Soltanto con questa crudele freddezza era possibile pensare di difendere il fronte dell’Isonzo contro la violenza degli attacchi italiani.
I Svetozar Boroevic (1856-1920). Generale austriaco d'origine croata, ebbe il comando della S'Armata (dal Monte Nero al mare), a partire dal maggio del 1915. Dopo Caporetto, fu promosso feldmarecsciallo.

Durante un'azione il Ten. Paolo Caccia Dominioni ha qualcosa da ridire sulla strategia italiana:
"Noi non siamo certo dei luminari della strategia. Al corso ci hanno insegnato quel po' di tattica che ci doveva bastare per l'esame […]. Ma il terreno di Castagnevizza l'abbiamo visto uscendo a carponi dai varchi (questo ce lo siamo studiato da soli, perché all'Accademia non c'era nessuno, allora, che avesse provato) e ci chiediamo: dobbiamo dunque ostinarci ad attaccare frontalmente anche stavolta, il colle che ha già inghiottito migliaia di vite?

- Ai vostri posti!
Un ultimo sguardo alle rovine, che lasciamo dietro di noi e alla batteria, la quale è ora in assetto di marcia. Hergòtz cavalca il cavallo di punta del primo pezzo.
- A vanti, marsc!
Con i fucili in pugno e in ogni obice uno shrapnel, ci mettiamo in moto per raggiungere la strada. Il fiume umano non ha soluzioni di continuità, benché non tutti i reparti si siano ancora mossi e le grosse colonne dei carri, della Sanità, dei forni per il pane, delle officine siano ferme, in attesa, nei villaggi. Quelle che marciano sono truppe combattenti spinte dal panico. Mi rivolgo ogni tanto agli uomini che passano e li scongiuro, in nome del vecchio cameratismo, di lasciare libero un po' di spazio affinché noi pure ci si possa incolonnare sulla strada. Ne ho in risposta improperi pronunciati in tutte le lingue. Un anno prima sul Matajur
Ecco finalmente una compagnia di Feldjaeger dell'Austria, che marcia ancora con i suoi ufficiali in testa. Dobbiamo assolutamente accodarci a essa. Fate largo! Avanti! Una valanga di maledizioni ci accoglie.
- Che cosa vogliono? Cacciateli via! Vadano anche loro a piedi!
I cavalli scalpitano e, per un istante, la manovra sembra fallire; ma a forza di speroni e di frustate riusciamo ad avanzare. Le pesanti ruote cigolano come dannate. Brandeis corre, con la pistola spianata, davanti alla muraglia dei marcia tori e grida con quanto fiato ha in corpo:
- Attenzione! Gli obici sono carichi! Invano. Echeggia qualche fucilata.
- Uccidete quei maledetti! Posto! Avanti, per tutti i diavoli!
Un colpo parte da uno dei nostri pezzi, abbattendo la chioma di un albero. Come per incanto la massa minacciosa si sparpaglia, correndo a ripararsi nei fossati che costeggiano la strada. Per un attimo si fa il vuoto. Hergòtz alza la frusta e pianta gli speroni nel ventre del cavallo di punta. Il primo obice è sulla strada. Poi è la volta del carro delle munizioni, delle cucine da campo, degli altri pezzi, di tutto. Siamo salvi. Alle nostre spalle la fiumana riprende la marcia.
Procediamo senza mai fermarci. A poco a poco il passo si fa però più lento. Tutti accusano la fame e la stanchezza. Di minuto in minuto, cresce il numero di coloro che, con subitanea decisione, gettano tutto il loro bagaglio nei fossati per camminare più spediti. Non hanno, forse, ragione? Del nemico non c'è neppure l'ombra: anche il tuono dell'artiglieria e il rombo degli aeroplani sono cessati. Si direbbe che è più semplice finire una guerra che incominciarla. L'inseguimento è durato soltanto un paio d'ore, poi è venuta la pace e ora si ritorna, passeggiando tranquillamente, a casa. Ben presto troveremo dei viveri e poi anche un treno. Marciamo infatti parallelamente alla linea ferroviaria di Portogruaro. Guardo i miei uomini. Nessuno dà ancora segni di stanchezza. Anche i cavalli si comportano meglio di quanto mi aspettavo. Se riusciamo a farli riposare un poco, la notte, domani potranno stare in piedi tutta la giornata e raggiungere il Tagliamento.  Verso le prime ore del pomeriggio la marcia improvvisa. mente si arresta. Nessuno sa ciò che sta succedendo e ognuno riversa la colpa della sosta su chi gli sta davanti. Centinaia di uomini saltano nei campi e continuano a camminare per conto loro. Qualcuno afferma che dobbiamo tornare indietro, poiché delle truppe stanno prendendo posizione dinanzi a noi. - Avanti!

- Alt!

Ta-pum, Una fucilata, una seconda, una terza: un crepitio rabbioso alla nostra sinistra. Facce stupefatte, mormorii, urla. - Gl'italiani!

 C'è in giro, da qualche tempo, un noioso pestilenziale libretto intitolato "Attacco frontale e ammaestramento tattico": c'è scritto come bisogna fare a prendere la posizione.  E allora possiamo dimenticare che il colle obiettivo è fiancheggiato da due valloncelli aperti e ben visibili fino in fondo, molto meno fortificati, che sembrano messi lì apposta per l'aggiramento."
C'è una cosa che il giovane tenente non sa: l'autore del "pestilenziale libretto" è proprio il Cadorna, e’ una seconda edizione di un opuscolo dalla copertina rossa, steso dal generalissimo nel 1905; Lo fece ristampare nel luglio del 1914, quando succedette a Pollio. L'esercito italiano combatteva con criteri bellici vecchi di (almeno) 10 anni, seguiva istruzioni militari redatte ben prima dell'avvento della guerra di posizione. Cadorna teorizzava due tipi di attacco, l'attacco brillante e quello lento: "Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice […]. Per attacco lento si procede verso la mitragliatrice mediante camminamenti coperti, in modo da subire meno perdite “

- Dove?
- Laggiù.
Effettivamente, in mezzo ai campi c'è del movimento. Si vedono degli uomini a circa cinquecento passi, si ode di nuovo il crepitio delle fucilate, adesso più violento di prima. Ed ecco migliaia di soldati provati da cento combattimenti e armati abbandonare a precipizio la strada e mettersi a correre attraverso i campi posti alla nostra destra, gettando a terra zaini, tascapani, fucili, i loro ultimi averi, la loro ultima difesa. A nulla servono le preghiere e le minacce degli ufficiali o l'esempio di alcuni uomini, molto flemmatici o troppo stanchi, che si mettono a seder per terra e attendono tranquillamente la fine dell'incidente. Il grosso della colonna è già scomparso tra i filari di viti. Solo circa duecento son rimasti presso i cavalli, i carri, i cannoni.  Il nemico, probabilmente un pugno di uomini appena, continua intanto a far fuoco. Non ha neppure una mitragliatrice. Gli Jaeger, che marciavano davanti a noi, tutti uomini attempati, dalle barbe incolte e dai volti ossuti e rugosi, sono in gran parte rimasti. Senza attendere un ordine, saltano nel fossato che fiancheggia la strada e caricano il fucile. Quasi contemporaneamente una granata scoppia sul gruppo degl'italiani. Poi un'altra, un'altra ancora. Una delle batterie, che si trovano davanti a noi, sulla strada, spara. Anche noi mettiamo in posizione due pezzi e apriamo il fuoco. Adesso vediamo di nuovo degli uomini muoversi, laggiù. Appaiono dei cavalli, delle figurine grigioverdi, delle lance: cavalleria italiana. Lancieri. Li avevo visti una sola volta, prima d'ora, durante una rivista a Verona. Adesso se i cannoni non li mettessero in fuga, diverrebbero i nostri inseguitori. Un obbiettivo simile non si era mai presentato ai nostri pezzi. Avevamo sempre sparato contro trincee, contro sottili ondate di assalto, contro batterie sapientemente nascoste, contro nidi di mitragliatrici. Ora invece galoppava davanti a noi una magnifica cavalcata, formata da atletici ragazzi dalle lunghe lance e dalle sciabole brunite.  In dieci minuti l'intermezzo è finito. Ma la strada presenta un aspetto ben diverso di prima: bisogna aprirsi il passo tra carri senza guidatori, bagagli, zaini, armi. Solo dopo una buona mezz'ora ci è possibile riprendere la marcia ad andatura normale.
   

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