Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est
- Bruno
Mondadori, Milano 1998, pp. 262. |
Il mondo degli ebrei orientali (Ostjuden), interpreti
di un'identità di cui gli ebrei occidentalizzati hanno finito per
perdere il senso, è stato oggetto di riscoperte e rivisitazioni varie da
parte della cultura ebraico-tedesca e degli scrittori ebrei assimilati.
Non soltanto Kafka si emozionò dinanzi agli attori ebreo-orientali di
Leopoli (diretti da Jizak Löwy) che egli vide recitare a Praga; già
Heine - nel 1822 - si era messo in ricerca degli ebrei di Polonia che,
per quanto sporchi e miseri, gli apparivano ancora depositari della
nobiltà di una tradizione millenaria che li teneva tuttora uniti. Nel
primo Novecento diversi esponenti della cosiddetta 'simbiosi'
ebraico-tedesca rinnoveranno il viaggio (mentale e anche fisico) verso
quei loro fratelli disseminati per le pianure orientali, scorgendo nei
loro destini l'immagine di un mondo al tramonto e il riflesso del
proprio esilio spirituale. Se Martin Buber con il suo cultursionismo
cercherà di salvarne il retaggio religioso radunando la ricchezza
visionaria dei racconti chassidici, altri intellettuali sembreranno
quasi voler 'riconquistare' la propria ebraicità (divenuta problematica
in Occidente) proiettando nell'ebraismo orientale l'anelito a ritrovare
una 'Heimat', una patria antica. Questo complesso percorso è finemente
ricostruito da Claudia Sonino nella prima parte del volume (pp. 1-161),
mentre in appendice (pp. 162-262) vengono presentati i più rilevanti fra
i vari resoconti di viaggio nelle regioni ebraico-orientali attuati da
scrittori ebreo-tedeschi assimilati:
.
- Heinrich Heine, Sulla Polonia (1822);
- Theodor Lessing, Impressioni galiziane (1909); Una difesa. La Galizia
(1910);
- Arnold Zweig, Il volto degli ebrei orientali (1920);
- Alfred Döblin, Il quartiere ebraico di Varsavia (1924);
- Joseph Roth*, Viaggio in Galizia (1924).
* Roth, Reise nach Galizien, pubblicato
originariamente in "Frankfurter Zeirung", 22 novembre 1924, poi raccolto
in Werke 2, Prefazione e cura di K. Westermann, Kiepenheuer & Witsch,
Kòln, e Allert de Lange, Amsterdam 1990, pp. 281-289, trad. it. di C.
Mainoldi. |
La guerra sul fronte orientale aveva provocato
non solo enormi perdite materiali, devastazioni e miseria, ma anche
indicibili sofferenze per milioni di uomini. Le parti in guerra si erano
macchiate di crimini esecrabili, esecuzioni sommarie, violenze e stragi
di civili. Gli austriaci avevano creato dei campi di concentramento dove
avevano raccolto innocenti giudicati spie o filorussi. I russi avevano
deportato nelle regioni interne del loro territorio migliaia di
intellettuali, politici e semplici civili sospettati di infedeltà. La
Galizia ne era uscita annientata. Aveva subito, a causa del ripetuto
passaggio degli eserciti, profonde distruzioni. Le città erano state
bombardate, i villaggi bruciati. Quasi trecentomila case ed edifici
pubblici erano stati rasi al suolo. Le campagne erano inutilizzabili per
le voragini delle bombe e lo scavo di chilometri di trincee, decine di
centinaia di ettari di bosco erano andate in fumo. L’industria era
ridotta al tracollo. Lo sviluppo produttivo ne era uscito seriamente
compromesso. Strade, ferrovie, vie di comunicazione e snodi commerciali
non esistevano più.
Fritz Kreisler Quattro settimane
nelle trincee - nota editoriale Gingko Ed. San Pietro Capofiume
Molinella (BO)
La miseria “austriaca” cominciava
dalle regioni propriamente slovacche per estendersi all’est magiaro con
le sue propagazioni Romene e Yugoslave e alla Galizia “Polacco-Ucraina”.
Queste erano aree ad altissima densità agricola e con una struttura
sociale ed economica arretrata di decenni. Nel 1867, dopo la
riorganizzazione dell'impero in doppia monarchia, una larga autonomia
venne concessa alla Galizia e un riconoscimento indiretto agli ebrei:
«Gli israeliti residenti nel Paese godranno dell’eguaglianza dei
diritti, allo stesso modo degli abitanti di religione cristiana,
nell’esercizio di tutti i diritti civici e nell’accesso a ogni funzione
politica. Tutte le leggi, le tradizioni e le ordinanze contrarie a
questo principio sono abolite». La provincia fu quindi amministrata dai
polacchi, maggioritari, nello specifico da un'oligarchia di piccola
nobiltà che allora non superava le 2.000 famiglie di cui 400 (1866) era
proprietaria del 42,98% dei seminativi e del 90,45% delle aree boschive
!!.
A partire dagli anni ’80 dell’800, per effetto della situazione
economica, si ebbe un'emigrazione di massa di contadini galiziani.
L'emigrazione iniziò con carattere stagionale verso la Germania (da poco
unificata e dall'economia dinamica) e divenne in seguito transatlantica
verso Stati Uniti, Brasile e Canada. Ad emigrare dalla Galizia erano
tutte le etnie presenti, nessuna esclusa compreso i polacchi. I
proletari polacchi migrarono principalmente verso il New England e gli
stati del Midwest degli Stati Uniti, ma anche in Brasile e altrove; gli
ucraini migrarono verso Brasile, Canada e USA, con un flusso molto
intenso dalla Podolia Meridionale verso il Canada Occ.; gli ebrei
migrarono verso il Nuovo Mondo direttamente, o indirettamente attraverso
altre parti dell'Austria-Ungheria. In totale, diverse centinaia di
migliaia di persone furono coinvolte in questa "migrazione economica"
fino allo scoppio della I guerra mondiale. |
Joseph Roth "Viaggio in Galizia"
La gente e il Paese
Il Paese ha in Europa occidentale una brutta fama. La battuta a buon
mercato e anche un po' stantia dell'alterigia l'incivilita instaura un
insipido collegamento con insetti, sporcizia, disonestà. Ma se un tempo
era calzante l'osservazione che nell'Est europeo c'era meno pulizia che
in Occidente, oggi il dirlo è banale; e chi oggi ancora lo ripeta
caratterizza non tanto la regione che vuol descrivere quanto
l'originalità che non possiede. Eppure, la Galizia, il grande campo di
battaglia della Grande Guerra, non è stata ancora riabilitata. Neanche
agli occhi di coloro che nei campi di battaglia vedono i campi
dell'onore. Benché i corpi di tanti europei occidentali si siano sfalda
ti in terra galiziana e l'abbiano concimata. Benché dalle ossa in
putrefazione dei soldati del Tirolo, della Bassa Austria, del Reich
germanico fiorisca il granturco di questo Paese.
"Kukuruza" si chiamano qui le pannocchie di granturco. Una volta mature,
orlano i tetti di paglia delle capanne dei contadini, grandi, gialle
nappe naturali, con le lunghe barbe gialle mosse dal vento. Con la
kukuruza s'ingrassano i maiali, le oche, le anatre, che finiscono nei
mercati delle grandi città. Poveri commercianti ebrei in Galizia mettono
le pannocchie in pentole piene d'acqua bollente e con quelle pannocchie
bollite girano per le strade e le vendono a quegli altri poveri ebrei
che commerciano in stracci, vetri rotti e vecchi giornali. Così i
venditori di kukuruza vivono degli straccivendoli. Ma di che vivono gli
straccivendoli?. Vivere è duro. La Galizia ha da nutrire oltre otto
milioni di abitanti. La terra è ricca, poveri gli abitanti. Sono
contadini, mercanti, piccoli artigiani, funzionari, soldati, ufficiali,
bottegai, bancari, proprietari terrieri. Troppi i commercianti, troppi i
funzionari, troppi i soldati, troppi gli ufficiali. Vivono tutti, a ben
vedere, a spese dell'unica classe produttiva: i contadini. I quali sono
pii, superstiziosi, paurosi. Vivono nel timore reverenziale del prete e
hanno un rispetto smisurato della "città", dalla quale arrivano le
strane vetture senza cavalli, i funzionari, gli ebrei, i signori, i
medici, gli ingegneri, i geometri, l'elettricità, detta "elettrica"; la
città in cui si mandano le figlie a far le domestiche o le prostitute;
la città in cui ci sono i tribunali, gli scaltri avvocati, dai quali ci
si deve guardare, i giudici giusti in toga dietro le croci metalliche,
sotto l'immagine a colori del Salvatore, nel cui santo nome l'uomo è
condannato a pene di mesi e di anni, e anche a morte per impiccagione;
la città che viene nutrita affinché di essa si possa vivere, vi si
comprino scialli e grembiuli colorati, la città in cui fioriscono le
"commissioni", le ordinanze, i paragrafi, i giornali. Così era quando
regnava l'imperatore Francesco Giuseppe e così è oggi.
Ci sono altre uniformi, altre aquile, altre insegne. Le cose essenziali
invece non mutano. Tra le cose essenziali ci sono: l'aria, l'animo umano
e Dio con tutti i santi, che abitano nei suoi cieli e le cui immagini
sono lungo le strade. Queste immagini di santi tra le spighe dei vasti
campi, ai margini dei prati, nelle radure dei boschi sono state nella
Grande Guerra distrutte, sforacchiate, storpiate e riedificate,
ridipinte, di nuovo provviste di iscrizioni, là dove lo spirito di
sacrificio dei contadini era grande quanto era profonda la loro pietà.
Non è così dappertutto. In un piccolo villaggio della Galizia orientale
c'è ancora quel Cristo diventato celebre, la cui croce fu mandata in
frantumi da un proiettile sarcastico, così che non rimase che un
Salvatore di pietra con i piedi sanguinanti inchiodati al mozzicone
della croce e le braccia spalancate nella disperazione di non capire il
silenzio di Dio e tutto quello sparacchiare del mondo; un Salvatore
crocifisso senza che pendesse dalla croce; l'esito simbolico di un
fortuito caso guerresco. A giusta ragione questo miracolo è stato
lasciato così. Tutt'intorno, lentamente le trincee han preso a
rimarginarsi.
Le cicatrici però sono brutte, come delle deturpanti dermopatie della
terra. Vorrei evitare quel comodo tipo di resoconto che guarda dal
finestrino del treno e annota le impressioni che restano con rapida
soddisfazione. lo invece non ci riesco. li mio sguardo vaga di continuo
dalle eloquenti fisionomie dei compagni di viaggio nel melanconico,
piatto mondo senza confini, in questo sommesso lutto della terra, dentro
la quale vanno sprofondando i campi di battaglia, integrazioni a
posteriori. E per quanto, tra i miei vicini, un uomo strano quanto
tipico possa accingersi a rivelare tutto un mondo, il suo mondo, quanto
a me non riesco a fare a meno dell'immagine della stazioncina,
Tutte queste stazioni sono anguste, miserelle, consistono di un
marciapiede e di qualche binario, il marciapiede sembra il segmento di
una strada in mezzo ai campi. Come se fosse un angolo di strada davanti
alla Borsa, i mercanti ebrei sostano qui, neri neri, i capelli rossi.
Non aspettano nessuno, non accompagnano alcun amico, vanno a mettersi
sul marciapiede, perché a un piccolo commerciante si addice l'andarvi e
star a vedere il treno che arriva, la gente che scende, questo treno che
passa una volta al giorno, unico collegamento col mondo, e ne porta il
rumore e come un'eco dei grandi affari che si concludono intorno al
globo. Il treno scarica giornali tedeschi da Vienna, da Praga e da
Ostrava. Uno legge ad alta voce. Intanto i mercanti, discutendo in
gruppi, rincasano per la strada tra i campi che collega il grosso paese
con la ferrovia, a sinistra campi, a destra campi, a destra l'immagine
di Cristo, a sinistra un santo e tra i due gli ebrei a capo chino,
sollevando l'abito svolazzante, badando accuratamente a non toccarla,
quella croce, a scansare l'immagine del Redentore, Scilla e Cariddi
della fede estranea e volutamente incompresa. Schizza il fango della
strada. In lontananza il fango riluce come argento sporco. Di notte
potresti prendere le strade per fiumi torbidi dove cielo luna e stelle a
migliaia si riflettono deformate come in un cristallo sudicio. Venti
volte all'anno si buttano in quella fanghiglia pietre e pietre, rozzi e
mal squadrati blocchi, malta e mattoni color ruggine, e la chiamano
massicciata. Ma alla fine vittorioso resta il fango, e si va
inghiottendo blocchi, malta e mattoni, e la sua superficie traditora
simula lisce pianure, laddove intere catene di monti sonnecchiano sotto
acque gorgoglianti, una giogaia di calanchi tormentosamente solcata da
strette, ripide gole. |
La “migrazione
economica" verso il Brasile, la "Febbre brasiliana" venne descritta
nelle opere letterarie della poetessa polacca Maria Konopnicka (Suwalki
1842 - Leopoli 1910).
Nel 1888 la Galizia occupava una
superficie di 78.550 km² (corrispondente in Italia a Piemonte,
Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta messe assieme) ed era
popolata da circa 6,4 milioni di abitanti, di cui 4,8 milioni erano
contadini (75% della popolazione totale). La densità della popolazione
era di 81 abitanti per km2 (1/3 di quella delle regioni italiane
indicate). L'aspettativa media di vita era di 27 anni per gli uomini e
di 28,5 per le donne, rispetto ai 33 e 37 anni di Boemia, 39 e 41 di
Francia e 40 e 42 di Inghilterra (dato unico: Spagna 32, Romania 35,
Italia 39, Svezia e Norvegia 50). Bisogna dare atto che questo dato
statistico è fortemente condizionato dalla mortalità infantile. Il
reddito medio pro capite non superava i 53 fiorini, rispetto ai 100
dell'Ungheria e ai 450 dell'Inghilterra.
Da Wiki |
Colonne e colonne di salmerie son passate per queste strade, pesanti
cannoni han lasciato tracce profonde, i cavalli sprofondavano sino alla
sella - me lo ricordo, me lo ricordo ancora. Ho percorso una volta
queste e altre strade, uomo da soma tra bestie da soma, e il fango
immortale ci divorava come ora divora la massicciata.
Come in montagna un fiume forma dei laghi, così la strada s'allarga
circolarmente a spiazzo per il mercato. La nascita di una città è da
scorgere qui. La città è figlia della strada. Leggi misteriose
statuiscono che in questo punto sorga una cittadina, in quest'altro non
più d'un villaggio. Questo ampio e a pianta centrale, quello invece
stretto e disposto per lungo. Lunedì è giorno di mercato. il mercato
ingenera il borgo. Questo la cittadina. Che mai diverrà una città. Le
carriere delle località hanno, come quelle degli uomini, fatalmente dei
limiti.
Sono scarse, a quanto sembra, le condizioni per lo sviluppo esterno
degli organismi in questo Paese. Essi non crescono in ampiezza. Crescono
grottescamente. In questo maltrattato, malvisto angolo d'Europa è ancora
vivo il romanticismo. In talune zone ogni cosa è irreale: famiglie che
d'estate vivono del commercio della salsa di cetrioli e in inverno
pregando per i morti; castelli comitali dove s'aggirano fantasmi;
ragazzetti scalzi che vendono acqua da bere nelle stazioni, e
nient'altro. A Leopoli è avvenuto che un grosso cavallo da tiro
precipitasse attraverso una grata di un canale aperto. Le aperture dei
canali a Leopoli non sono più grandi, né i cavalli più piccoli, che in
tutto il resto d'Europa. Però Dio fa succedere i miracoli. Ogni giorno
fa che succedano. Ogni domenica Egli supera se stesso.
Nelle piccole città galiziane l'uomo è diverso che in quelle dell'Europa
occidentale. Qui egli cresce in un agio i cui confini sono la mezzetta
del mattino e l'osteria la sera. Le cittadine della Galizia invece non
offrono agio alcuno. Trasformano persino i loro piccolo-borghesi in una
rarità. Promuovono l'evoluzione verso la condizione di rarità. C'è in
quelle cittadine la frenesia delle grandi metropoli. C'è un movimento
senza che se ne veda lo scopo e se ne conosca il motivo. Ma sul piatto
Paese trascorre incessante un vento perennemente eguale, che quasi non
avverti. Colline, avvisaglie dei Carpazi, azzurreggiano in lontananza.
Cerchi di corvi alti sui boschi. Sono sempre stati di casa qui. Dai
tempi della guerra si sono infoltiti. Non una fabbrica, un cartello
pubblicitario, niente fuliggine. Nei mercati si vendono primitivi
burattini di legno, come in Europa duecento anni fa. Che l'Europa qui
sia venuta meno?. No, non è venuta meno. I rapporti tra l'Europa e
questo Paese messo per così dire al bando sono continui e vivaci. In
certe librerie ho visto le ultime novità letterarie inglesi e francesi.
Un vento culturale sparge semi in terra polacca. Il contatto con la
Francia è il più intenso. Al di sopra della Germania, che sembra
galleggiare in uno spazio morto, è uno sprizzare di scintille nelle due
direzioni.
La Galizia è una solitudine sperduta e tuttavia non è isolata; è
bandita, non tagliata fuori; ha più cultura di quanto non faccia
presumere la sua insufficiente canalizzazione; molto disordine e, ancor
più, stranezze. In tanti la conoscono dal tempo della guerra; quando
però nascondeva il suo volto. Non era un paese. Era una tappa, o il
fronte. Ma ha i suoi propri piaceri, i suoi propri canti, la sua gente e
il suo splendore; lo splendore triste dei denigrati.
Leopoli, la città |
Nella parte occidentale, ai piedi dei carpazi, una spinta
alla industrializzazione era stata la “riscoperta” del petrolio (Boryslaw
1854) che può essere anteposta a quella americana. Nel 1913, dai pozzi
che andavano scemando, sgorgavano ancora ca. 2 milioni di tonn, il 5%
della produzione totale mondiale che vedeva ai primi posti Usa, Russia,
Messico, e la Shell coi giacimenti del Borneo. Nel 1890, c’erano 6.000
ebrei tra i 9.000 lavoratori dei campi petroliferi di Boryslaw e delle
attività connesse. Negli anni antecedenti la Guerra furono sostituiti
dai polacchi sottopagati perché a dire di qualcuno gli ebrei erano
inaffidabili. Si arrivò anche a chiedere agli operai e ai dirigenti di
sostenere un esame di lingua polacca che non fu superato dal 99% degli
scrutinati |
È una grossa presunzione voler descrivere le città. Le città hanno molti
volti, molti umori, migliaia di direzioni, variopinte mete, oscuri
segreti, segreti trasparenti. Le città molto nascondono e molto
palesano, ognuna è un'unità, ognuna è una molteplicità, ognuna ha un
tempo più lungo che non un cronista, un uomo, un gruppo, una nazione. Le
città sopravvivono ai popoli ai quali debbono la loro esistenza, e alle
lingue nelle quali i loro architetti si sono intesi. Nascita, vita e
morte di una città dipendono da molte leggi, che non si possono ridurre
in alcuno schema che non consentono alcuna regola.
Si tratta di leggi eccezionali. Potrei descrivere case, tratti di
strada, piazze, chiese, facciate, portali, parchi, famiglie, stili
architettonici, gruppi di abitanti, funzionari e monumenti. Ciò
metterebbe a fuoco l'essenza di una città non più di quanto la mera
indicazione dei gradi centigradi riesca a dar conto della temperatura di
una determinata zona. (A Berlino già si gela quando il termometro segna
15 gradi.) Occorrerebbe esser capaci di esprimere in parole il colore,
il profumo, la densità, la piacevolezza dell'aria; ciò che in mancanza
di una definizione calzante è da esprimersi con il concetto scientifico
di "atmosfera". Ci sono città che sanno di cavoli acidi. A ciò nessun
barocco pone rimedio. Una domenica sera arrivai in una piccola città
della Galizia orientale. C'era una strada principale con case
insignificanti. Abitano questa città commercianti ebrei, artigiani
ruteni e funzionari polacchi. I marciapiedi sono accidentati, il fondo
stradale una riuscita imitazione di una catena montuosa. La
canalizzazione è carente. Nei vicoletti laterali è stesa ad asciugare
biancheria a strisce rosse e quadretti blu. Non dovrebbe tutto saper di
cipolla, di polvere, di muffa?
Nient'affatto. Lo stradone di questa città sfocia nell'immancabile
corso. Gli abiti degli uomini erano di un'ovvia, oggettiva eleganza. Le
ragazze sciamavano come rondini con svelta, ultraconsapevole leggiadria.
Un mendicante dall'aria serena chiedeva l'elemosina con nobile rammarico
- gli era penoso l'esser costretto a importunarmi, Si sentiva parlare
russo, polacco, romeno, tedesco e jiddisch. Era come una piccola filiale
del grande mondo. Eppure in questa città non c'è un museo, un teatro, un
giornale. In compenso però esiste una di quelle "scuole talmudiche" da
cui escono scienziati, scrittori, filosofi della religione di livello
europeo; e mistici, rabbini, proprietari di grandi magazzini. Conobbi in
questa città casualmente un insegnante di liceo. Disse: «Lei è tedesco?
Mi spieghi, che ne è stato della scoperta di quel professore che estrae
l'oro dal mercurio? Che cosa residua ancora? Che cosa c'è oltre a ciò
nel mercurio? Non faccio che pensarci. Le dirò, io ho moltissimo tempo.
Se avessi tanti soldi, andrei a inforrnarmene in Germania. Questa storia
non mi dà pace!». Così parlò l'uomo. Dovrà aspettare altri due anni
prima che qualcuna venga lì dalla Germania.
Allignano uomini siffatti nelle cittadine della Galizia orientale.
Allignerebbero pure verosimilmente in quelle più grandi. Ma non ce ne
sono di più grandi. Nella Galizia orientale ce n'è una sola: la città di
Leopoli.
In questa città ci sono entrato due volte in un certo senso da
vincitore, e non fu del tutto senza pericoli. Per lungo tempo essa fu
una "tappa", sede di un comando di corpo d'armata austriaco, di un
giornale di trincea tedesco, di molti uffici militari, di un centro di
raccolta imperial-regio del personale, di una "sussistenza ufficiali".
C'era una polizia militare, un "centro di informazioni e notizie", un
comando ferroviario austriaco e tedesco, ospedali, epidemie e
corrispondenti di guerra. Qui la guerra era di casa, qui erano di casa i
fenomeni che l'accompagnano e che sono ancor peggio perché permanenti.
Per questa città combatterono dopo il crollo polacchi e ruteni, e qui
avvenne il pogrom di novembre. E ancor oggi Leopoli ha l'aspetto di una
tappa.
Qui la strada principale si chiamava una volta via Karl Ludwig, per
lealtà verso la casa regnante. Oggi si chiama via delle Legioni. il
riferimento è alle legioni polacche. Qui un tempo c'era il corso degli
ufficiali austriaci. Oggi vi passeggiano gli ufficiali polacchi. Qui si
sentiva sempre parlar tedesco, polacco, ruteno. Oggi si parla polacco,
tedesco e ruteno. Nei pressi del teatro, che delimita la strada alla sua
estremità inferiore, la gente parla jiddisch. In quella zona si è sempre
parlato jiddisch. È probabile che non vi si parlerà mai altro idioma.
Contro questo plurilinguisrno si leva - a torto -la rinvigorita
coscienza nazionale polacca che ha trovato in qualche modo conferma
nella recentissima evoluzione storica. Le nazioni piccole e giovani sono
suscettibili. L'unitarietà nazionale e linguistica può essere una forza,
la molteplicità delle nazionalità e delle lingue lo è sempre. In questo
senso Leopoli è un arricchimento dello Stato polacco. La città è una
chiazza variopinta: bianco-rosso, giallo-blu e un po' di giallo-nero.
Non saprei a chi potrebbe nuocere.
Questa policromia non è stridente, non abbaglia, non suscita scandalo,
non è fine a se stessa come quella delle città balcanico-orientali, come Budapest ad esempio, che è più balcanica
dei Balcani. Il variegato poliglottismo della città di Leopoli è come
quando di primo mattino si è ancora mezzo addormentati e già mezzo
svegli. E come la prima giovinezza di una policromia. Giovani contadine
con le loro ceste percorrono sui loro carri la strada principale, il
fieno odora. Un uomo fa uscire dall'organetto una canzone popolare.
Paglia e tritumi sono sparsi sul fondo stradale. Le signore che vanno in
pasticceria indossano le ultime toilettes arrivate da Parigi, vestiti
che già han la pretesa di essere delle "creazioni". Nelle strade
laterali si battono tappeti. Adam Mickiewicz, il grande poeta polacco,
sta in mezzo alla strada. Ebrei in caffettano pattugliano ai suoi piedi,
sentinelle del commercio. Un uomo con un sacco sulla spalla destra grida
«Commercio!» con melodiosa piagnucolosità. Ciò non impedisce a nessuno
degli slanciati e assai bellicosi ufficiali di cavalleria di
strascinare la grande, arcuata sciabola, di far tintinnare i musicali
speroni. L'ufficiale fa tintinnare, strascina, avanza con elegante
virilità in una piccola nube di musica guerresca, e tuttavia è un uomo
pacifico - e come se avesse non una possente sciabola a strascico ma un
semplice ombrello si spinge dentro quel fitto gruppo di mercanti che
discutono di politica e concludono un affare e le due cose
simultaneamente. Tanto democratici sono qui i militari. Ho visto un
tenente con molte decorazioni. e variopinti cordoncini sul petto. Aveva
in mano un bicchiere di conserva. Alla moglie reggeva la cesta della
spesa.
Questo tuffo nell'eterno-umano, nel privato, nel domestico riconcilia
con le nubi di guerra suscitate dal tintinnare degli speroni e dal
rutilio delle onorificenze. In altre cittadine, a portare la conserva è
un attendente, tre passi indietro rispetto a sua signoria il signor
tenente. Fa bene qualche volta vedere che un tenente è un uomo.
La città democratizza, semplifica, umanizza e sembra combinare queste
qualità con le sue inclinazioni cosmopolitiche. La tendenza alla vastità
è sempre al tempo stesso una volontà di oggettività naturale. Non si può
essere solenni se si è molteplici. La stessa dimensione sacra diventa
qui popolare. Le grandi, antiche chiese escono dal riserbo dei loro
sacri fini per frammischiarsi al popolo. E il popolo ha fede. Accanto
alle grandi sinagoghe fiorisce il commercio stradale ebraico. Ai loro
muri si appoggiano i mercanti. Davanti ai portali delle chiese si
accoccolano i mendicanti. Se il buon Dio venisse a Leopoli,
percorrerebbe a piedi la via delle Legioni.
Strade, piazze, case che hanno come la destinazione e l'obbligo di
essere distinte e signorili, palazzi dietro cancellate, edifici pubblici
ai quali si accede salendo delle scale - hanno tutti grande popolarità.
E in un che di popolare si discioglie la rigorosità della forma. Questo
addolcirsi delle forme severe degenera anche in disordine, in lentezze
devastanti, in confusioni suicide. Le leggi sono numerose. La loro
violazione è legge suprema, ancorché non scritta. Il vecchio "tran tran
austriaco" trova un'adeguata prosecuzione nell'indolenza, che è una
qualità slava e una compagna della melanconia.
C'è un caffè letterario, "Roma" si chiama. Bravi cittadini lo
frequentano. Anche qui si dissolvono i confini tra frequentazione
abituale e bohème, Il figlio del noto avvocato è un habitue, regista,
letterato. Nel tavolo accanto potrebbero sedere dei suoi parenti. Questi
tratti di separazione sono tracciati con gesso tenue, appena visibile.
E la città dei confini dissolti. La propaggine più orientale del vecchio
mondo imperial-regio. Alle spalle di Leopoli comincia la Russia, un
mondo diverso. La molto più occidentale Cracovia è meno austriaca. E
rimasta sempre un museo nazionale. Tra Vienna e Leopoli c'è ancor oggi,
come sempre, uno scambio culturale. Ma si è aggiunta anche Bucarest. Il
rivolgimento, in altri termini, ha spinto tutte le città galiziane di
alcune miglia verso est. Forse per la benedizione dell'Oriente ...
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http://kehilalinks.jewishgen.org/drohobycz/shtetls/shtetls_histboryslaw.asp
Nel 1850 c’erano in Galizia ca 350.000
ebrei più che raddoppiati nel 1910. Vivevano qui i 2/3 di tutti gli
ebrei dell'impero asburgico. Nel 1900 gli ebrei costituivano il 72,1% di
tutti i residenti a Brody, il 57,3% in Buczacz, 57,1% a Rawa Ruska, il
52,7% in Sanok, 51,3% in Stanislawow (Stanislaviv), 51,2% in Gorlice,
50,8% in Kolomyja (Kolomyia). Nei primi anni del ‘900 gli incrementi
furono minori, nonostante la forte natalità, perché molti ebrei presero
la via dell’esilio, sulla scia di quelli Russi, verso le americhe.
I primi veri e propri pogrom dell'età moderna in Russia, a differenza
della Galizia austriaca dove gli ebrei erano riconosciuti, furono
attuati nel 1881 in seguito all'assassinio dello zar Alessandro II. Un
paio di decenni dopo, con il fallimento della prima rivoluzione russa
(1905), circa seicento fra villaggi e città a maggioranza ebrea furono
al centro di pogrom. Sebbene di tali «spedizioni punitive» fossero
incolpati cittadini maltolleranti, sembra certo che esse furono
volutamente organizzate dal governo zarista per convogliare la protesta
sociale dell’indigenza verso un nemico interno, il nemico per
antonomasia, il capro espiatorio, e non verso l’autocrate regnante
assolutista colpevole di quella situazione. Ne più ne meno di quanto
succederà anni dopo con Hitler.
In seguito a questi fatti oltre 200.000 ebrei emigrarono transitando
dalla Galizia e fermandosi nelle grandi città dell’impero come Budapest,
Vienna e Praga o prendendo la strada dell’emigrazione verso la Francia e
da qui verso l’america. Le prime vittorie russe del 1914, in Galizia e
nella Polonia passata di mano con i tedeschi, provocarono una nuova
ondata migratoria per le ormai desuete accuse di pangermanesimo e di una
politica di russificazione che riguardava tutti.. Alla fine del XIX
secolo c’erano 206 comunità ebraiche in Boemia, 50 in Moravia, 15 in
Bucovina, 2 in Dalmazia, 253 in Galizia, 1 in Stiria, 10 in Slesia, 1 in
Vorarlberg, 2 in Kustenland, 14 nella Bassa Austria e 2 in Alta Austria.
Negli anni dal 1881 al 1910, i soli Stati Uniti hanno naturalizzato
oltre 3 milioni di immigrati provenienti dall’impero austro-ungarico e
gli Ebrei costituivano il 9,1% di essi (281.150).
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