I BERSAGLIERI

E IL CINEMA

 " El Alamein - 

la linea del fuoco"

di Enzo Monteleone 


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Regia e sceneggiatura: Enzo Monteleone
Fotografia:
Daniele Nannuzzi
Montaggio:
Cecilia Zanuso
Scenografia:
Ettore Guerrieri
Costumi:
Andrea Viotti
Musica:
Pivio, Aldo De Scalzi
Produttore:
Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz
Produzione:
Cattleya
Distribuzione:
Medusa
Italia 2002

 locandine e immagini  sono tratte da

http://film.spettacolo.virgilio.it/cinema/

 il promo  http://www.youtube.com/watch?v=t6X4geGcc90&feature=related

 

Interpreti e personaggi

Pier Francesco Favino il sergente 
Emilio Solfrizzi
Il Tenente Fiore
Paolo Briguglia
Serra il volontario
Thomas Trabacchi
il Capitano
Luciano Scarpa
Spagna
Silvio Orlando 
il generale
Piero Maggiò
Roberto Citran
Il colonnello
Giuseppe Cederna
il chirurgo
Antonio Petrocelli

  Churchill disse: «Prima non avevamo mai vinto, dopo non abbiamo più perso»,

"Una generazione sfortunata, che si è trovata nel momento sbagliato. Un'immagine della battaglia di El Alamein, nel luogo sbagliato e soprattutto dalla parte sbagliata ", ha spiegato Monteleone a Venezia. "Il mio non è un film di guerra alla maniera degli americani, che usano un'infinità di effetti speciali e trascurano quello più importante: l'emozione. Il mio è un film in cui il fattore umano è quello più importante: per questo ho voluto far parlare questi uomini, che avevano vent'anni sessanta anni fa e che credevano di aver vinto mentre già era iniziata la ritirata "

TRAMA

Ad El Alamein l'Armata Italo-tedesca verrà sbaragliata e costretta ad una ritirata umiliante dopo i successi dell'estate: è la prima grande sconfitta dell'esercito italo-tedesco. Soldati in prima linea che devono lottare contro la dissenteria e tirare avanti con una razione ridotta d’acqua. Uomini che hanno lasciato la loro terra e le loro famiglie per difendere la patria in un posto così lontano da casa, piccoli eroi sconosciuti che sono morti dimenticati nelle sabbie del deserto... La Divisione Pavia, un manipolo di uomini nel settore sud di El Alamein ai bordi della depressione di Qattara (non fronteggiava il nemico), sopravvive in attesa di ordini e di scorte ad "improbabili bombardamenti" dell’esercito inglese, difendendosi più dalla fame e dal clima che dalle incursioni del nemico. Ognuno tenta di aggrapparsi ad una piccola certezza, al ricordo della propria casa o agli affetti nati in trincea per non lasciarsi sopraffare da un disagio che pare insanabile. In questo modo i soldati, uniti dallo stesso destino, condividono il dolore e l’angoscia durante ogni missione, sempre l’ultima per alcuni di loro, fino al giorno in cui l’attesa s’interrompe: Il 23 ottobre, dopo un decisivo bombardamento notturno (non in quel settore), gli Inglesi si preparano all’offensiva. Determinata dall’eroismo dei suoi uomini a fare la propria parte, la Pavia prende la via di una linea di difesa arretrata  che non raggiungerà mai, abbandonata senza più una meta all’inesorabilità del deserto, con  feriti e senza mezzi di trasporto.
 

CRITICA CINEMATOGRAFICA

"Al di là di ogni ideologia i veri problemi del film sono di ordine cinematografico. Perché Monteleone, già sceneggiatore di film come 'Mediterraneo', 'Marrakech Express', 'Alla rivoluzione sulla 2 cavalli', evita la retorica bellicistica ma non quella generazionale. Sicché questi soldati persi nel deserto del 1942, confrontati al pericolo, ai disagi, alla dissenteria, alle cannonate che piovono improvvise. a volte polverizzandoli letteralmente, finiscono malgrado tutto per somigliare un po' troppo ai 'combattenti' o ai reduci di altre epoche. (...) domina una chiave 'soft' che per non speculare sull'orrore toglie impatto al racconto e dribbla i veri problemi di messinscena posti dal soggetto. (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 8 novembre 2002) 

"Gli episodi surreali sono le cose migliori di 'El Alamein - La linea del fuoco', assieme a un'efficace scelta dei personaggi che non ricorre agli stereotipi del war-film americano, dove tutti sono ipercaratterizzati - molto alti, molto bassi, molto grossi - onde essere riconoscibili malgrado l'uniformità della divisa. Per il resto il film adotta uno schema narrativo molto classico, filtrando dal racconto di Serra secondo il modello, un tantino abusato, della 'presa di coscienza'". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 23 novembre 2002) http://www.acec.glauco.it/acec2/allegati/334/IM1_03_ZFilm%20.pdf  

Il film costituisce a tratti il prologo del documentario, dando corpo ai ricordi dei reduci, e contribuendo a chiarire quegli stati d'animo, quel senso di stordimento e caos, che prese i militari italiani, al settimo, ottavo giorno di incessante martellamento dei mortai inglesi. Una guerra che, al di là delle vittime, fu soprattutto psicologica, combattuta contro un nemico invisibile, che Monteleone rende bene disegnando le paure e le aspettative di una pattuglia in bilico tra la fortezza Bastiani e la trincea di Monicelli, nella Grande Guerra. Come in certi film sulla guerra in Corea e in Vietnam (si pensi solo al recente La sottile linea rossa o a Full Metal Jacket), il nemico non si vede che raramente, magari alla fine: viceversa lo si sente tra bagliori, scoppi e colpi e, soprattutto, egli è in grado di vedere gli italiani… È nel terzo tempo, infine, che il racconto assume i toni dell'epica laica, priva di retorica. Come in un'odissea di disperati la pattuglia sopravvissuta inizia una ritirata metaforica, deterritorializzata. Il deserto partorisce altro deserto, i luoghi fisici e geografici diventano quelli della mente. La tensione non si elimina, ma anzi cresce col passare dei minuti, accresciuta dallo scherno dei tedeschi in fuga sul camion, che non si fermano a raccogliere gli italiani, così come non si ferma il colonnello Roberto Citran, che con falsa retorica, ma vero opportunismo, recita davanti alla pattuglia sperduta un'improbabile esortazione ("un soldato italiano sa sempre come cavarsela”), mentre si ferma, e definitivamente, il generale Silvio Orlando, per dare sepoltura al suo attendente e finirla lì, con un colpo di pistola alla tempia. Quella tensione che poteva sfociare nella macchietta o nella. pur corretta, caratterizzazione dei personaggi, in realtà resta alta e si connota di malinconia: un sentimento di impotenza davanti alla Storia che prende piccoli e grandi interpreti, lasciati tutti egualmente soli davanti al destino, in un gioco di cui non hanno mai conosciuto le regole. Abbandonati dalle gerarchie militari e dalla politica gli italiani in Africa non hanno solo dato una prova di coraggio e di valore, così come volle la retorica dell'epoca, che per cinquant'anni ha marciato sull'onore delle armi reso dagli inglesi ai nostri eroi, a El Alamein.. Fonte critica: Michele Gottardi Segno Cinema n.119

CRITICA DEL SITO: Quella di Orlando oltre che essere una comparsata, è una macchietta poiché non avevamo generali a tre stelle di quella levatura e in prima linea. Frattini, divisionario, della Folgore quando si arrende mette soggezione agli Inglesi. Quella che Monteleone chiama impropriamente "la linea del fuoco" era il bordo della depressione di Qattara: al massimo poteva essere utilizzata da pattuglie inglesi suicide. Se non c'era benzina per i carri armati da li non andavi al mare con una piccola deviazione di 70 + 70 km di piste desertiche battute dall'aviazione e dalle colonne corazzate delle retrovie.

 

il film completo  http://www.youtube.com/watch?v=iTprjxwjz8M&feature=related

linea del fuoco http://www.youtube.com/watch?v=iTprjxwjz8M

CRITICA DEL SITO
Il film realizzato coi contributi di Stato, con mezzi miseri (per fortuna), che solo l'ambientazione ha fatto passare sotto silenzio è godibile visivamente anche se si prende molte licenze storiche ed alcune gravi inesattezze che destinano il film ad opera letteraria e non storica(sarà perchè c'è qualcuno che paga ed è quello che non lo va a vedere). Non a caso Monteleone, ex sceneggiatore di Mediterraneo, posa qui la tendenza Salvatores, in tutt'altra situazione storica, del gruppo, degli antieroi che odiano la guerra. E non è neanche vero, come dice sopra Monteleone, che credevano di aver vinto. Questo non lo credevano neanche i "volontari" della Folgore, o il volontario Serra. Su questa tendenza il film prende poi la strada del mix, del Reader Digest di tutti i film di guerra visti fino ad ora, compreso la Grande Guerra di Monicelli, sorvolando come si dice a fianco sulla scelta del fronte. La comica finale è quella del cavallo di Mussolini ( non lo mangeranno) che, vista la loro posizione, deve essere arrivato li per sbaglio o perchè l'ha ordinato Monteleone.
  .... per i Ragazzi della Folgore la battaglia durò fino al 6 Novembre! Alcuni sparuti gruppi di paracadutisti furono intercettati addirittura il giorno 8. Questa è la più palese dimostrazione che mentre tutti gli altri si erano ormai arresi da giorni, la Folgore combatteva e resisteva. Da sola. Le stesse cronache inglesi dichiararono che la Folgore combatté fin quando fu sparato l'ultimo colpo. Ora ammesso che il Sig. Monteleone avesse davvero sentito in cuore il desiderio di parlare della battaglia di El Alamein per ricordare il sacrificio dei tanti caduti dimenticati, mi chiedo: perché evitare di parlare della Folgore? Perché parlare di El Qattara? Perché parlare della Pavia? Perché mirare a questa ricerca di una versione alternativa (e discutibile, sia dal punto di vista storico che etico) a tutti i costi? Perché, nonostante siano passati ormai 60 anni, non dover riconoscere alle migliaia di caduti in battaglia l'onore che hanno meritato? Quel che letteralmente mi ha mandato in bestia è l'arroganza, la presunzione, la mancanza di sensibilità, attraverso la quale il Sig. Monteleone sembra non avvedersi minimamente dell'enorme torto che il suo film arreca ai caduti in battaglia. Ad un certo punto, il Volontario Universitario Serra, di fronte ad alcuni commilitoni caduti, elucubra una serie di considerazioni interiori sulla morte. Egli riflette sul fatto che "la morte è bella solo sui libri, la poesia nella morte non esiste, di fronte alla morte siamo tutti uguali, che la morte non è bella, la morte puzza". E' innegabile che tutto questo sia profondamente vero, ma è a mio avviso altrettanto innegabile, che c'è una differenza precisa tra la morte con le mani in alto e la morte con le armi in pugno. E' la differenza che divide gli uomini dagli Uomini. Come precisato in apertura però, il film tecnicamente - è un bel film e questo mi addolora in quanto contribuisce ad accrescere ancor di più la mia indignazione. Ho l'impressione che il Sig. Monteleone, per motivi che non voglio azzardarmi ad ipotizzare, con la propria versione alternativa, abbia mortificato il proprio talento e questo la dice lunga sul pregiudizio, il rancore, l'odio che taluni nutrono per la nostra amata Folgore. Perchè scegliere un titolo come "El Alamein" se l'intento era ben altro? da Cse Alamein

Anna Caccia Dominioni passi dall'articolo apparso su Cse Alamein

E così, contro ogni mia previsione, ho visto il film “El Alamein, la linea del fuoco”. L’ho fatto per appoggiare l’iniziativa del circolo Cartur de Akker (patrocinio del Comune di Bologna). Sapevo della serietà della manifestazione, attestata dalla presenza di relatori di spessore: un reduce della Trieste, il prof. Morselli; Luca Poggiali, storico e caporedattore della rivista “Storia e Battaglie”; Claudio Zagnoli, organizzatore della strepitosa parata di mezzi storici ad Alamein, lo scorso 20 ottobre. ... E ora veniamo al film. Sapevo che il regista aveva dichiarato di non aver voluto citare la Folgore perché “erano tutti volontari, volevo dare un’immagine del soldato normale”. Legittima decisione, naturalmente. Allora, tanto per coerenza, avrebbe potuto parlare di qualunque altro settore della battaglia: c’erano 60 chilometri di fronte a disposizione, perché incaponirsi con il bordo della depressione di Qattara? Per motivi cinematografici e scenografici? Bene: in quel punto, così interessante cinematograficamente parlando, sulla citata “linea del fuoco” non c’era affatto la Pavia. C’era il V battaglione Folgore. E qui arriva la vera sorpresa. Avevo sentito un’intervista in cui il Sig. Monteleone diceva di aver tratto ispirazione dagli scritti di mio padre, e avevo immaginato che si riferisse ad “Alamein, 1933-1962”. Mi sbagliavo. Il libro è “Takfìr”, scritto a 4 mani con il Gen. (allora maggiore) e medaglia d’oro Giuseppe Izzo, comandante del V Folgore. E garantisco che la fonte è proprio quella. Proprio così: il regista ha occupato le posizioni del V Folgore e ne ha sbattuto fuori i veri occupanti, schiaffandoci allegramente dei fanti della Pavia, che in realtà erano molto più indietro. Perché mai? Perché, parlando del V Folgore, non avrebbe potuto limitarsi a parlare dello spezzatino fatto coi cammelli mandati dal nemico per verificare l’esistenza dei campi minati (episodio narrato da Izzo in Takfìr, non brillante trovata dello sceneggiatore). Avrebbe dovuto riportare il quadro effettivo di quel settore. Dove erano degli uomini che avevano acquisito la sicurezza del proprio valore, l’orgoglio delle molte prove superate e la “fredda determinatezza di essere superiori al nemico e al destino”(G.Izzo, “Takfìr”). Dove non si giaceva miserevoli e abbandonati, ma si lavorava con alacrità per difendere le posizioni con dei mezzi quasi inesistenti, modificandone il piazzamento secondo principi tattici accuratamente studiati per ottenerne il massimo risultato. Gli uomini della Folgore non erano i derelitti che mostra il film. Erano uomini che assaltavano a piedi i carri armati, urlando insulti nelle feritoie per stanare il nemico e affrontarlo in corpo a corpo. Prendete questi uomini, cambiategli il nome, eliminate ogni forma di attività, di spirito guerresco e di ardimento. E confezionatene una pellicola. Questa è l’operazione cinematografica che ho visto al cinema Capitol di Bologna.

E questa, amici miei, si chiama MISTIFICAZIONE. .... Il film è un falso storico. È una miscela composta da 9 dosi di autocommiserazione e 1 dose di sommesso orgoglio, che suscita una compassionevole tenerezza nei confronti di quei poveri diavoli dei protagonisti. E, per usare un’ultima goccia del summenzionato orgoglio, termina esibendo in tutta sua grandiosa solennità il Sacrario Militare di Alamein (credo che termini così: appena ho visto comparire il sacrario ho lasciato la sala). Quel sacrario è un monumento gigantesco, candido, visibile a 60 km di distanza. Mio padre ha impiegato più 10 anni per raccogliere le salme dei nostri morti nel deserto ed ha costruito per loro questo gigante di pietra che tuona fieramente :“Ai Caduti Italiani” (come è scritto sopra l’entrata). Il film sussurra fra le lacrime: “a quei tapini che si sono difesi alla bell’e meglio”. Avrebbe dovuto avere la decenza di tenere il gigante fuori dai suoi fotogrammi. Altro che sommesso orgoglio. Altro che compassionevole tenerezza. Ben altro fu fatto ad Alamein, e sono stufa marcia di questa contraffazione artata che impedisce agli italiani di sapere delle gesta eroiche dei nostri soldati. Chi preferisce il piagnisteo, si accomodi pure al cinema.

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