L'arte della pazienza
di
Ezechiele Leandro
E’
difficile determinare in che modo paure, angosce e tormenti interiori possano
incidere sull’animo di un artista, ancor più difficile è stabilire quanto
l’ambiente sociale ostile, i difficili rapporti umani e le vicende quotidiane
possano influenzarlo e condizionarne la vena creativa. E’ impossibile inserire
Leandro in una ben determinata corrente artistica del Novecento, egli fu un
autodidatta, si formò alla scuola della vita e fonte di ispirazione per lui
furono il Salento medievale del mosaico di Otranto, con le sue rappresentazioni
allegoriche, simboliche, quasi magiche, e il Salento arcaico, quello delle
grotte con i graffiti di Porto Badisco, quello dei dolmen e dei menhir. Non è
un caso se Leandro amava definirsi un artista “primitivo”. Non naif, ma
primitivo, in quanto le sue rappresentazioni artistiche sono una proiezione nel
passato remoto del genere umano. E Leandro spesso sognava di ritrovarsi nel
passato dell’umanità, riusciva a comprendere le paure degli uomini, capiva la
loro ansia religiosa. Poi dopo il sogno stendeva quei segni sulla tela in
maniera automatica, senza porsi domande sul significato di ciò che stava
dipingendo. Un artista “primitivo”, si è detto, ma anche per molti aspetti
all’avanguardia, visto che ha anticipato i tempi, proponendo sin dagli anni
Trenta sculture in cemento e opere realizzate con materiale di risulta, non con
i rifiuti ma con ciò che noi oggi definiremmo “materie prime secondarie”,
ricavate cioè dagli scarti della società. Cocci, piastrelle, vetro, intonaci,
ferro, ghisa, metalli, tutto ciò che la società eliminava poteva essere
riciclato. Da questo materiale informe e quasi privo di valore di mercato,
Leandro, ecologista ante litteram, riusciva a ricavare l’arte che disseminava
nel suo giardino a San Cesario sotto forma di essenze generate dalla terra:
“mostri” o “pupi” per i suoi concittadini, opere d’arte per la critica
più all’avanguardia non soltanto salentina (di lui scrivevano tra gli altri
Ennio Bonea, A. Verri), ma anche nazionale (la RAI si interessò al suo
santuario), e internazionale, soprattutto dopo il suo giro in Europa nel 1975. E
poi l’artista salentino fu in contatto con le maggiori personalità artistiche
e culturali dell’epoca ed ebbe scambi epistolari con Giovanni XXIII, con Paolo
VI, con Renato Guttuso e persino con Pablo Picasso.
Trasformare
e ridare dignità a ciò che la società consumistica considerava rifiuti era
una “pazzia” nell’ottica della gente “normale”, che lo vedeva
continuamente girare per le strade a raccogliere tutto ciò che gli capitava a tiro, ma
gli artisti, però, interpretano la realtà in maniera differente e spesso sanno
anticipare i tempi, proponendo soluzioni alternative.
Leandro,
tanto contestato in vita, dopo la morte, avvenuta il 17 febbraio 1970, pochi
giorni prima della mostra allestita dal Comune di San Cesario, che in quel modo
riconosceva ufficialmente la sua arte, è stato quasi dimenticato per molti
anni. In pochi lo hanno ricordato e tra questi l’Associazione Raggio Verde che
nel 1998 ha organizzato una mostra sui disegni inediti e nel 2000 gli ha
dedicato il libro “L’opera di Leandro – tre approcci alla sua
conoscenza”: tre studi che intendono essere un punto di partenza per
ricostruire e approfondire la tormentata vicenda dell’uomo e dell’artista
che con la sua religiosità seppe rappresentare gli aspetti più reconditi
dell’umanità. A San Cesario lo ricordano per le sue stranezze e stravaganze;
i giovani, invece, a malapena conoscono il suo nome e soltanto pochi hanno
visitato la sua casa-museo, grazie soprattutto ad iniziative di carattere
scolastico. A vent’anni dalla sua morte, però, si può dire veramente che fu
un uomo che ebbe tanta pazienza sia nella raccolta della materia inerte, sia nel
laborioso lavoro di infonderle una dignità artistica, sia nel concederle il
dono dell’eternità, nonostante diffidenze e incomprensioni.