Il cavaliere mutilato
La distruzione di Gallipoli
di Augusto Buono Libero
recensione a cura di
Giorgio Barba e Anna Maria Crisigiovanni



Copertina libro Le città, tutte le città, sono come esseri viventi che nascono, respirano e muoiono dopo una lenta decadenza. Esse emanano un fascino che incatena chi là vi è nato e cresciuto. Alcune città del Sud poi, soprattutto quelle di mare, con quegli sguardi sugli orizzonti infiniti dell'acqua e le loro bianche case abbarbicate sugli scogli, diffondono un canto di sirena che ammalia e annienta ogni brama. Così il vecchio lupo di mare che approdi in queste città-isola, dopo le tempestose vicende della vita, difficilmente ha la forza di staccarsi da esse, e comincia ad amarle per la loro abbagliante e misteriosa bellezza, e tenta di carpirne i segreti più intimi scandagliandone il passato e ricercandone le radici, e si lega sempre di più ad esse. D'altro canto comincia ad odiarle, perché il loro abbraccio d'amore soffoca la libertà, l'istinto di esplorare il mondo. Non riesce più a disancorarsi. Il sentimento che prevale è di odio-amore verso i luoghi, la storia, i cittadini; odio in quanto è cosciente di aver perduto l'indipendenza, amore perché la mente è inebriata da un dolce profumo e da un sensuale amplesso che sfibrano l'anima e la appagano nello stesso tempo. Insomma il viaggio nel mondo si trasforma in viaggio nei sensi e nei sentimenti, giustificando, spesso servendosi dello schermo dell'ironia, una dipendenza viscerale ad una terra che non è la propria e identificandola con una donna-sirena che diventa madre putativa - moglie ideale - morte ossessiva.
E' con questo stato d'animo che un marinaio, giunto per caso nel corso della sua navigazione in un porto, qui si è trasferito e ha deciso di non allontanarsi più da esso. Fuor di metafora, il porto - il porto sepolto chiuso in fondo all'anima e da scoprire dopo un'immersione nelle profondità più intime - in questo caso è Gallipoli, e il marinaio-Ulisse-Nessuno non è altri che Augusto Benemeglio, gallipolino per scelta volontaria e non fortuita. Egli, infatti, nato a San Buono in provincia di Chieti, si è stabilito a Gallipoli, "perla dello Ionio" e "balcone delle fate", sirena del mare, isola amena, e da questo approdo ha iniziato la sua ricerca nel passato per scoprire le cause del suo ormai indissolubile legame con la città ionica. E se la prima tappa del suo itinerario intellettuale e letterario è stata L'isola della luce in cui ha liricamente vagheggiato la mitica fondazione di Anxa, immersa nelle nebbie e circondata da un mare ialino e di incontaminata purezza, e se successivamente, nel ruggito del leone ferito a morte, ha raccontato la conquista di Gallipoli da parte dei veneziani nel 1484, ora Augusto Buono Libero con questo nuovo libro, Il cavaliere mutilato, intende accendere una torcia per illuminare il buio Medioevo che con la sua oscurità avvolge la storica distruzione della città di Gallipoli.
Enzo, re di Sardegna, figlio naturale di Federico II, fatto prigioniero dai Bolognesi e morto in prigione nel 1272, scriveva "Là dove è il mio core notte e die" riferendosi alla Puglia, luogo in cui è ambientato il romanzo. La fine dei discendenti di Federico II, infatti, è strettamente connessa con la punizione inflitta dal giustiziere della Terra d'Otranto alla città che aveva ospitato i trentatré baroni ribelli e che successivamente si era schierata con Corradino, il giovanissimo erede degli Hohenstaufen, sconfitto da Carlo d'Angiò nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268. Dopo il saccheggio della città i gallipolitani si sparsero nei paesi limitrofi e venne loro vietato dal re di ritornare nel luogo ove un tempo sorgeva la città. Per cento anni, secondo la leggenda, i gallipolini non posarono piede sulla loro terra fino a che … "un cavaliere nero, su un cavallo nero coperto da una gualdrappa nera, con una lancia nera e uno scudo nero"...
E' il cavaliere nero, infatti, il personaggio cardine intorno a cui ruota tutta l'opera che si colloca nel Basso Medioevo, in un Sud percorso da eserciti guelfi e ghibellini, infervorato da una robusta e a volte villica religiosità che contrasta con il lusso e la lussuria degli uomini di Chiesa, abbandonato nella cieca ignoranza e nella credulità. Tutti i personaggi del romanzo sono afflitti dal senso del peccato e si muovono in luoghi così oscuri e aspri da far ricordare l'inferno dantesco, mentre i rari sprazzi di luminosità sono riservati alle visioni solari di Gallipoli, una città invisibile, una città che non c'è e forse non c'è mai stata e non ci sarà mai, una città che sembra assorbire e poi emanare la luce diafana della felicità, una città in cui si può raggiungere la serenità, una città che appare e scompare, un'utopia, un non luogo, inaccessibile, indecifrabile, indescrivibile.
Altro paesaggio ameno di tutto il romanzo è sicuramente la Provenza, terra d'origine di Carlo d'Angiò, terra dell'innocenza, paradiso perduto e poi ritrovato, terra che ricorda tanto Gallipoli, percorsa da folate di vento, con il cielo terso e l'aria salubre. Per il resto l'opera ci immerge negli abissi oscuri dell'ignoranza, della religiosità superstiziosa, del paganesimo orfico, sintomo di incertezza esistenziale, che pervade gli uomini meridionali, al confine tra la luce e l'ombra e alla perpetua ricerca di certezze nella magia delle vecchie macare, come la "vecchia che dorme" oppure in quegli uomini che erano ritenuti da tutti santi. Queste figure, che ancora si aggirano nei paesi del Sud, erano il tramite tra il mondo metafisico e il mondo fisico. Dal momento che i contadini avevano paura dei preti e dell'Inquisizione, pronta com'era a condannare tutto ciò che non rientrava nei dogmi della Chiesa, essi, per avere delle certezze, si rivolgevano a chi deteneva la cultura popolare e cioè verso coloro che avevano fatto della loro esistenza una continua rinuncia alla vita terrena, mortificando il corpo per fortificare l'anima. Questi santi, reputati tali dal popolo, interpretano un desiderio di evasione dai mali della vita e rappresentano veri e propri eroi, un po' ingenui, un po' comici, un po' saltimbanchi con le loro stranezze e stravaganze e soprattutto con le loro paure: paure verso le cose terrene (il sovrano che impone la morte della memoria collettiva, il mondo ecclesiastico che vuole la fine della cultura); paure verso le cose ultraterrene (uno spiccato senso del peccato che tormenta l'anima giungendo persino a personificare il male). Questi timori atavici si concretizzano e ciò che è fuori del normale o è santo o è demoniaco, anzi è il demonio stesso che prende una forma tra l'umano e il disumano, confondendo gli uomini e accrescendo la loro ignoranza. Il popolo è vicino agli pseudo-santi, crede in loro e in essi confida per miracoli e per avere e ottenere la luce della conoscenza. Ma essi possono offrirne solo un barlume, il resto rimane avvolto nel mistero e nel sogno. Oltre agli asceti, agli stiliti, agli eremiti, in quel periodo burrascoso godevano di credibilità anche alcune donne che possedevano il "dono" della vista e sibillinamente scostavano il velame del futuro, rivelandolo per enigmi: "verrà un giorno - dice nel romanzo la "vecchia che dorme" - uno che è giusto, che ha il cuore puro... Quello vi salverà". Dal disambiguamento di queste parole profetiche si sviluppa l'intreccio del romanzo. Chi è colui che ha il cuore così puro da poter realizzare la ricostruzione di Gallipoli? "Nessuno", appunto. Per tale sogno-desiderio tutti i personaggi del romanzo si aggirano sulle colline, nelle piane e nelle paludi intorno all'isola della città bella e aspettano… aspettano Nessuno, figlio del cavaliere mutilato per la rifondazione della città "la grande rosa azzurra … piena della luce sanguinante del tramonto".
L'incipit del libro preannuncia l'uomo che farà risorgere Gallipoli: "Nessuno, in quelle oscure contrade irte di rocce taglienti e pale di fichi d'India che si alzano al cielo come dolmen di carne verde, in quelle terre pietrose d'acque avare in cui trasuda lo scirocco affliggendo l'aria con nuvole di tafani neri e danze di polvere rossa e miasmi e odore di marcio dolciastro e fetore di morte … nessuno ricordava più la distruzione di Gallipoli". Nessuno, appunto, farà rinascere la città, aiutato dal quarto cavaliere dell'Apocalisse, il cavaliere della distruzione e della palingenesi, e da una schiera di uomini villici, rozzi, creduloni, artisti, santi e … bestemmiatori, che in quei cento anni di crimine contro il passato avevano tentato invano di scoprire le tracce dell'antica Gallipoli e avevano mantenuto nel mito il ricordo. In tale contesto vengono passati in rassegna personaggi irreali che, come collocati in penombra, prendono sembianza, diventano verisimili e assumono caratteristiche e forme umane. Il vecchio Balbulus, Giovanni Paneacqua, Pappo Nonnato, il Moleddhu, Giungadin, Giorgio il Silenziario, Fra' Cerino Bastonatore, il cavaliere mutilato, l'avo di tutti, Marian la Nomade, Gianni il Chierico volante, Aldino, la bella Imelda, sor Ataulfo Panzaquadrata sono personaggi creati dalla fervida fantasia dell'autore, mai esistiti storicamente, ma che forse in quel Medioevo fosco e cruento potevano esserci. Calvino, nel quarto capitolo del romanzo Il cavaliere inesistente esordisce in questo modo: "Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell'Evo in cui questa storia si svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla d'esistente. E d'altra parte il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto". Pertanto, possiamo concludere che magari potevano esserci persone, di cui noi ignoriamo l'esistenza, che sono realmente vissute e forse la storia ha taciuto le loro imprese che la fantasia può raccontare e glorificare. E poi, se non sono esistiti allora quei personaggi e con quei nomi, perché non possono esistere oggi, nella realtà di una Gallipoli proiettata verso il futuro, ma ancora legata alle memorie e al passato?
Non sono certo personaggi oggettivi, ma molti gallipolini in essi potrebbero identificarsi e riconoscere qualche aspetto del loro carattere. Dopo la lettura del romanzo forse si sorprenderanno e forse si glorieranno di essere in qualche modo parte stessa della storia già scritta di Gallipoli. Ma, al di là delle pure non coincidenze, tutti i personaggi del romanzo di Augusto Buono Libero, pur essendo descritti con un tono canzonatorio, tra l'eroico, il comico e il grottesco, non sono stati creati per fustigare i costumi o i comportamenti attuali. Essi hanno la funzione di far sorridere e a volte anche ridere il lettore, che crede di leggere una storia vera, mentre invece sta gustando una favola. Di vero, sicuramente c'è un fatto storico ben preciso, la distruzione di Gallipoli appunto e alcuni personaggi storici che si muovono e interagiscono con altri personaggi di pura fantasia. E se l'autore ha voluto inserire una schiera di strani individui tra un popolo di formiche in un passato dove tutto poteva accadere, per sé ha riservato due personaggi. Egli, infatti, ha sdoppiato la sua personalità e ha scelto come alter ego i due eroi positivi del romanzo: il cavaliere mutilato e l'avo di tutti. Il cavaliere mutilato è l'espressione del desiderio di potenza e di gloria insito negli uomini, del bisogno di fare qualcosa di importante nella vita, di affermarsi combattendo per il bene e a difesa degli innocenti. La mutilazione deriva dalla consapevolezza delle difficoltà da affrontare nell'adempiere la propria missione e dall'inadeguatezza delle proprie capacità a portare a compimento l'impresa. Questa coscienza del limite non si esaurisce in vani tentativi di autoaffermazione, ma porta all'assurdo e al bizzarro. Insomma il cavaliere mutilato, Azzo Primo di San Buono (non a caso proviene dallo stesso paese di nascita dell'autore) rappresenta i pregi e i difetti, le brame e le indolenze, le ambizioni e le sconfitte di Augusto Buono Libero, il quale stende un sottile velo di autoironia su fantastiche avventure, ambientandole in un sogno in cui può accadere ogni cosa e il suo contrario.
L'altro alter ego dell'autore è l'avo di tutti, quel vecchio ciarlone, cantastorie che sa incantare con la sua fantasia. Addirittura arroga a sé la capacità creativa e poietica della parola, sa far muovere ariostescamente i personaggi della storia come su una scacchiera, guardandoli dall'alto, studiando le loro mosse future, percorrendo avanti e indietro i sentieri tortuosi del tempo, non dell'intera umanità, ma di ogni singolo pezzo del mosaico. Insomma, proprio come farebbe Dio. Infatti, lo scrittore, quando crea, crede di essere onnipotente, onnipresente e onnisciente, in quanto osserva divertito il muoversi scomposto degli uomini e interviene ogni tanto per dare degli input e attende per vedere l'ingarbugliarsi del labirinto di vite che s'incontrano, s'incrociano, si separano senza seguire un filo logico. Il vecchio ciurmatore sa narrare le sue storie e sa trasmettere agli altri le gioie dell'infanzia, del paradiso perduto (Gallipoli distrutta) e del paradiso ritrovato (la speranza di una ricostruzione della città non solo nella fantasia, ma nella realtà). L'autore-uomo-protagonista si ritrova novello Teseo che sgomitola il filo di Arianna per segnare le tappe del suo passaggio, ma non riesce comunque a ritrovare la strada del ritorno: la storia è stata scritta e non può essere cancellata, non esiste solo un percorso, ma tanti percorsi quanti sono i personaggi che osservano, partecipano, agiscono e infine accettano il loro destino di formiche laboriose che scavano sotto terra, costruiscono intere città - come i monaci basiliani - e poi svaniscono nel nulla senza lasciare orma nel silenzio dei tempi. Comunque l'autore ha messo un po' della sua personalità in ogni creatura sia per somiglianza che per contrasto. Anzi potremmo dire che fattili uscire dal limbo, ha scolpito a tutto tondo i personaggi mutuando caratteri e situazioni da persone reali e interpretandole e rivisitandole alla luce della sua vena poetica.
Certamente chi si riconoscerà in qualcuno di quei personaggi sarà soddisfatto di sapere che, nel bene o nel male, tra il serio e il faceto, egli avrà scritto in parte - insieme all'autore - la storia della città, in quanto degno di essere ricordato e annoverato fra i cittadini della perla dello Ionio, alla quale ha legato il proprio nome per mezzo di un vincolo indissolubile, un romanzo che aspira, forse, a una nuova fondazione di Gallipoli basata sulla letteratura, sulle idee e sulla cultura.
Il lettore che percorrerà i tortuosi sentieri de Il cavaliere mutilato, pensando di trovarsi di fronte ad un romanzo dall'impianto tradizionale, rimarrà sicuramente sorpreso nel constatare che l'autore ha voluto evitare di ingabbiare la sua opera in un ben preciso genere letterario. Egli è andato oltre il genere letterario creando una nuova forma di letteratura tra realtà storica e finzione letteraria, che pochi altri scrittori hanno sperimentato. A tal proposito ci sovviene alla memoria il Baldus di Teofilo Folengo il quale, nel suo poema in lingua maccheronica, narra le gesta del giovane Baldus tra l'epico e il grottesco. Ancora un altro riferimento antecedente è il Morgante del Pulci, poema epico-cavalleresco di giganti e mezzi giganti, che apre la strada al poema eroicomico del Seicento. Intendiamo alludere alla Secchia rapita del Tassoni, testo in cui un piccolo evento storico (il furto di una secchia appunto) scatena una guerra tra modenesi e bolognesi. Ma siamo nel campo della narrazione in versi ancora, anche se Giuseppe Pederiali recentemente ha realizzato una bella parafrasi per le edizioni scolastiche, riducendo in una prosa leggera e ariosa i versi seicenteschi del romanzo eroicomico più famoso.
Spostandoci al nostro secolo, occorre ricordare la Trilogia de I nostri antenati di Italo Calvino, cioè i tre romanzi che idealmente sono alla base della realizzazione de Il cavaliere mutilato. Ma se Calvino nelle opere Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato e Il barone rampante intende costruire una favola con un certo intento moralistico, condannando alcuni aspetti della civiltà moderna, Augusto non si propone questo fine. La sua non è una satira degli usi e dei costumi degli uomini del suo spazio e del suo tempo (Gallipoli e i gallipolini di oggi), ma un divertissement in cui il bizzarro gioco fantastico della mente si diverte appunto a creare mondi e situazioni reali come in un palcoscenico sul quale ciascuno recita a soggetto. Un gioco intellettuale, quindi, e non una ricerca erudita, l'opera di Augusto Buono Libero che, intrecciando vari registri espressivi, commisura il linguaggio al rango dei personaggi (anche se ogni tanto, per suscitare un sorriso o una risata, il re parla come un comune bifolco in un francese italianizzato che lo ridicolizza e lo riporta tra i comuni mortali) e offre un quadro variegato della società meridionale del Medioevo tra sacro e profano, nobiltà e villicità, peccato e innocenza. Per ottenere ciò, l'autore si serve di un pastiche linguistico, amalgamando le varietà linguistiche, ricorrendo spesso all'italiano, al latino, cercando l'effetto comico mediante una sintassi popolare, un lessico dialettale, frammischiando i vari dialetti (abruzzese, salentino, siciliano) a francesismi e a sottocodici specialistici. Persino l'uso delle parolacce, in un tale contesto, è funzionale allo scopo che l'autore intende perseguire, senza scadere mai nella volgarità.
La padronanza del mezzo espressivo, la fluidità con cui vengono trasmessi i messaggi, l'alchimia di prosa e poesia e la tecnica del discorso indiretto libero, che permette all'autore di riportare pensieri ed enunciati senza utilizzare i verbi dichiarativi, alleggeriscono la prosa e imprimono velocità all'azione narrata e scioltezza alle digressioni liricheggianti. All'autore non manca certo la consapevolezza di avere per le mani l'onnipotente parola, ma egli non si lascia fuorviare dal solito autocompiacimento narcisistico, caratteristica di molti scrittori contemporanei, in quanto sa ben dosare euforia e disforia nel linguaggio a seconda degli effetti che egli vuole ottenere sul lettore che resta sempre con il fiato sospeso fino alla fine del libro e, nello stesso tempo, è spinto a porsi continuamente domande e a seguire l'intreccio della storia abbracciando il passato, il presente e il futuro.


TITOLO: Il cavaliere mutilato
La distruzione di Gallipoli
AUTORE: Augusto Buono Libero
CASA
EDITRICE:
L'Uomo e il Mare
PAGINE: 208
DATA DI
PUBBLICAZIONE
1998