Che cos'era il gruppo di
Gelli? Che cosa fanno oggi i suoi membri? Ecco la storia della loggia e
le «pagine gialle» della Propaganda 2, mentre il suo affiliato più noto
punta alla presidenza del Consiglio
di Gianni
Barbacetto
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Licio Gelli (in alto) Gustavo
Selva Vito Napoli
Massimo De Carolis
Publio Fiori
Roberto Gervaso
Antonio Martino
Vittorio Emanuele
Roberto Calvi
Silvio Berlusconi
Luigi Bisignani
Maurizio
Costanzo | |
La notizia la dà il telegiornale
della notte: la presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di rendere
pubblici gli elenchi della loggia massonica P2, l'associazione segreta che
il Maestro venerabile Licio Gelli chiama «l'Istituzione». È il 20 maggio
1981, vent'anni fa. L'Italia è scossa: di quella loggia misteriosa si
parla ormai da molto tempo, ma ora i suoi componenti prendono un nome e un
volto. E gli italiani scoprono che esiste un potere sotterraneo, un
governo parallelo, uno Stato nello Stato. Negli elenchi della loggia sono
iscritti i nomi di quattro ministri o ex ministri, 44 parlamentari, tutti
i vertici dei servizi segreti, il comandante della Guardia di finanza,
alti ufficiali dei Carabinieri, militari, prefetti, funzionari,
magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali,
giornalisti...
Una settimana dopo, il governo presieduto da
Arnaldo Forlani dà le dimissioni. Nasce il primo governo laico della
storia d'Italia, guidato da Giovanni Spadolini. È varata una commissione
parlamentare d'inchiesta sulla loggia di Gelli, sotto la presidenza di
Tina Anselmi. È approvata una legge dello Stato che vieta le associazioni
segrete e scioglie la P2. I capi dei servizi di sicurezza sono tutti
licenziati. Qualche piduista ha la carriera bloccata, qualcuno subisce
procedimenti disciplinari, una ventina di affiliati finisce sotto
processo. I magistrati aprono indagini sulla loggia, con l'ipotesi che
abbia realizzato una cospirazione politica contro le istituzioni della
Repubblica. Ma oggi, vent'anni dopo, che cosa è restato di quel
terremoto? Dove sono, che cosa fanno i membri del club P2? Il più noto di
essi, che vent'anni fa era soltanto un giovane, brillante palazzinaro, ora
spera di diventare nientemeno che presidente del Consiglio. Ecco dunque la
storia dimenticata dell'«Istituzione» che ha segnato alcuni decenni della
storia italiana.
Da Sindona alla P2. Nella seconda
metà degli anni Settanta qualche articolo di giornale aveva accennato
all'esistenza di una loggia massonica potentissima e misteriosissima.
Ombre, sospetti, dicerie? Nel 1980 il consigliere istruttore di Milano
Antonio Amati deve aprire due inchieste giudiziarie: una sull'assassinio
dell'avvocato milanese commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano
l'11 luglio 1979; l'altra sullo strano rapimento di Sindona, scomparso da
New York il 2 agosto 1979 e poi ricomparso il 16 ottobre. Nessuno allora
avrebbe pensato che quelle inchieste avrebbero portato alla
P2.
Amati assegna i due fascicoli, insieme, a due giovani
magistrati. Il primo, più esperto, si chiama Giuliano Turone, baffi curati
e dita sottili, irrequieto e rigorosissimo. Dopo il liceo Manzoni di
Milano, dopo un anno negli Stati Uniti, dopo la laurea in legge, era stato
tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto la magistratura:
perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la politica estera del suo
governo, mentre il magistrato decide e giudica, con il solo aiuto della
legge e della sua coscienza. Affascinato dalla geometria dell'indagine,
aveva voluto diventare giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata
dal nuovo codice) di giudice e investigatore. Poco più che trentenne, era
entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati
italiani, l'imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e nel 1974 aveva fatto
arrestare il responsabile, un ometto siciliano che abitava in via
Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d'identità aveva scritto Luciano
Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con il nome di
Luciano Liggio.
Gherardo Colombo, il secondo magistrato, era
invece un giovanotto che arrivava a palazzo di giustizia con i jeans e la
camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona di
capelli refrattari al pettine. Era cresciuto in una grande casa sui colli
della Brianza, padre medico e un po' poeta, nonno e bisnonno avvocati.
Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con aria apparentemente
svagata, accompagnando le parole con brevi gesti secchi della mano, che
poi spesso lasciava così, sospesa a mezz'aria. Per nove mesi, Turone e
Colombo lavorano sodo. Macinano insieme decine e decine di interrogatori,
perquisizioni, indagini bancarie. Sono letteralmente risucchiati da
un'inchiesta che è un giallo appassionante, pieno di misteri e di colpi di
scena. «Era un tessuto dai cento fili intrecciati», secondo Turone, «così
abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla
trama».
Il sequestro di Sindona: strano, con quella
improbabile rivendicazione del «Gruppo proletario di eversione per una
giustizia migliore». Strani anche gli affidavit (dichiarazioni giurate)
che una decina di persone invia negli Stati Uniti, ai magistrati
americani, per testimoniare che il povero Sindona, che ha fatto bancarotta
e ha lasciato sul lastrico centinaia di clienti, è perseguitato dai
magistrati italiani soltanto per la sua fede anticomunista. Uno degli
affidavit è firmato da un certo Licio Gelli.
Dice: «Nella mia qualità di uomo d'affari sono conosciuto come
anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro
Michele Sindona. È un bersaglio per loro e viene costantemente attaccato
dalla stampa comunista. L'odio dei comunisti per Michele Sindona trova la
sua origine nel fatto che egli è anticomunista e perché ha sempre
appoggiato la libera impresa in un'Italia democratica». La prosa non è un
granché, ma l'ossessione anticomunista è ben presente (e allora, almeno, i
comunisti c'erano davvero...).
Licio Gelli, fascista e massone.
Chi è questo Gelli? - si chiedono Turone e Colombo. Quasi sconosciuto,
allora, dal grande pubblico, era il Maestro Venerabile della loggia
massonica Propaganda 2, che riuniva la crema del potere italiano. C'era la
fila, per ottenere udienza da Gelli nella sua suite all'hotel Excelsior,
in via Veneto, a Roma. La loggia era segreta, per non mettere in imbarazzo
i suoi potenti iscritti, dispensati anche dalle ritualità massoniche.
Bastava la sostanza. Gelli era arrivato al vertice della P2 dopo una
onorata carriera come fascista, simpatizzante della Repubblica di Salò,
doppiogiochista con la Resistenza, collaboratore dei servizi segreti
inglesi e americani, infine agente segreto della Repubblica italiana.
Volonteroso funzionario del Doppio Stato: soldato, come tanti altri
fascisti e nazisti, arruolato nell'esercito invisibile che gli Alleati
avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e Mussolini, per
combattere la «guerra non ortodossa» contro il comunismo. Entrato nella
massoneria, aveva contribuito a selezionare, dentro l'esercito, gli
ufficiali anticomunisti disposti ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato
(tentato) del 1970 aveva avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era
l'incarico di entrare al Quirinale e trarre in arresto il presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che
finivano sempre con un bel «viva la Resistenza, viva l'Italia». Poi il
golpe non ci fu, sospeso forse dagli americani, ma la «guerra non
ortodossa» continuò, con una serie di stragi che insanguinarono l'Italia.
Fino al 1974, anno di svolta. Allora la strategia della guerra segreta
contro il comunismo cambiò: basta con la contrapposizione diretta, con i
progetti apertamente golpisti, sostituiti da una più flessibile
occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società,
di tutti i centri di potere. La massoneria (o almeno una parte di essa)
fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club
del Doppio Stato, questo circolo dell'oltranzismo atlantico. Nasce la P2
di Licio Gelli. In cui poi, all'italiana, entrano anche (e per alcuni
soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli affarucci. Ma
tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo ancora non lo sapevano,
non lo immaginavano neanche. I due andavano avanti per la loro strada, a
districare i misteri del caso Sindona.
La perquisizione fatale. Scoprono
che Sindona non è stato rapito, ma ha organizzato una messa in scena per
sparire dagli Stati Uniti e arrivare in Italia, in Sicilia. Scoprono che è
lui a trattare il salvataggio delle sue banche con Giulio Andreotti, a
minacciare il presidente della Mediobanca Enrico Cuccia (che si oppone al
piano di risanamento), è lui a far uccidere Giorgio Ambrosoli, nella notte
dell'11 luglio 1979, con tre colpi di 357 magnum sparati al petto da un
sicario che viene dagli Stati Uniti. A ospitare Sindona a Palermo, in
quell'estate di scirocco e di sangue, è un medico italoamericano: Joseph
Miceli Crimi, massone, esperto di riti esoterici e di chirurgie plastiche.
È lui che spara alla gamba del banchiere, con sapienza clinica, per
cercare di rendere credibile il rapimento. I due giudici istruttori gli
sequestrano alcune carte e, tra queste, uno stupido biglietto ferroviario
Palermo-Arezzo, usato da Miceli Crimi nell'estate del 1979. Domanda:
perché un viaggio dalla Sicilia ad Arezzo? Risposta: «Per andare dal
dentista presso cui ero in cura». Fantasiosa, ma i due milanesi non
abboccano. Miceli Crimi, messo alle strette, ammette: ma sì, sono andato
da un certo Licio Gelli, per discutere con lui la situazione di Sindona.
Questo Gelli comincia proprio a incuriosire i due giudici istruttori. I
personaggi che si muovono attorno a Sindona e si danno da fare per
salvarlo, scoprono Turone e Colombo, finiscono tutti per arrivare a Gelli:
Rodolfo Guzzi, l'avvocato del bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, suo
genero; Philip Guarino e Paul Rao, due massoni che incontrano il
Venerabile poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Ecco
perché, nel marzo 1981, i giudici milanesi ordinano una perquisizione di
tutti gli indirizzi del Venerabile. «Cautela assoluta», ricorda Colombo,
«avevamo intuito che per ottenere risultati dovevamo procedere con la
massima segretezza». La sera di lunedì 16 marzo 1981 una sessantina di
agenti della Guardia di finanza si muove da Milano verso i quattro
indirizzi di Gelli annotati su una agenda di Sindona sequestrata al
banchiere dalla polizia di New York: villa Wanda di Arezzo, l'abitazione
privata; la suite all'Excelsior dove riceveva autorità, politici,
postulanti; un'azienda di Frosinone; e gli uffici di una fabbrica
d'abbigliamento, la Giole di Castiglion Fibocchi.
L'incarico
delle perquisizioni è affidato a un uomo di cui Turone e Colombo
conoscono la lealtà istituzionale, il colonnello della Guardia di finanza
Vincenzo Bianchi. Ha l'ordine di agire senza informare nessuno e senza
avere alcun contatto con le autorità locali, i carabinieri, la polizia, la
magistratura del posto, neppure i comandi della Guardia di finanza. I suoi
finanzieri, arrivati in Toscana, non passano la notte nella caserma di
Arezzo, ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti,
l'appuntamento è all'alba del 17 marzo. Scatta la perquisizione. Nessun
risultato a Roma. Niente a villa Wanda. L'azienda di Frosinone è un
vecchio indirizzo. Alla Giole, invece, c'è una montagna di carte. Gelli
non si trova, è a Montevideo. Ma la sua segretaria, Carla, protegge con
vigore i documenti stipati nella scrivania, nei cassetti, nella
cassaforte, in una valigia... Nella cassaforte ci sono gli elenchi della
loggia segreta. «Sequestrate tutto», ordinano, per telefono, i giudici
istruttori. La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi arriva via
radio una chiamata del generale Orazio
Giannini, comandante della Guardia di finanza: c'è anche il suo
nome, in quegli elenchi, come quello del suo predecessore, il
generale Raffaele Giudice, come quello del capo
di stato maggiore della Finanza, il generale Donato Lo
Prete. E il comandante delle Fiamme gialle di Arezzo, e una folla
di generali, colonnelli, maggiori...
Verso il porto delle nebbie.
Tutte le carte sono portate a Milano. Turone e Colombo le catalogano,
personalmente, pagina per pagina. Ne fanno due copie. L'originale entra
nel fascicolo dell'inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con
l'incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la
seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione («Formazioni comuniste
combattenti») tra i fascicoli di un collega di cui i due si fidano, il
giudice Pietro Forno. Non si sa mai. Fuori dal palazzo di giustizia di
Milano, intanto, nessuno sa delle carte sequestrate a Gelli. Eppure
qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo. La notizia
comincia a trapelare. La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20
marzo. Ma non è chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici. Il
giorno dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro
Montanelli) scrive: «Nell'ambito delle indagini per l'affare Sindona,
stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di
Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, Venerabile
Maestro della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi
l'intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza, mentre Roma
avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore
della Repubblica Sica». Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a
villa Wanda ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico
Sica, detto «Rubamazzo», per ora non c'entra nulla. Ma basteranno poche
settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a
strappare l'indagine ai magistrati milanesi.
Turone e Colombo,
consci del peso istituzionale della loro scoperta, decidono che è loro
dovere informare il capo dello Stato: ma il presidente Sandro Pertini è
all'estero, così ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani. Si
recano a Roma il 25 marzo, l'appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo
Madama. Aspettano per due ore. Poi la segreteria di Forlani comunica che
c'è stato un equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi. I due
giudici si spostano lì. Ad accoglierli è il capo di gabinetto di Forlani.
«Ci siamo guardati negli occhi in silenzio», ricorda Colombo, «il
funzionario davanti a noi era il prefetto Mario
Semprini, tessera P2 1637». Forlani è cortese, chiede se le carte
trovate possono essere non autentiche. I due giudici gli mostrano una
firma autografa del ministro della Giustizia Adolfo
Sarti sulla domanda d'iscrizione alla loggia. Chiedono: «Signor
presidente, avrà certamente un documento controfirmato dal suo ministro
Guardasigilli...». Forlani ne prende uno, confronta i due fogli, si
convince. «Datemi tempo di riflettere», conclude Forlani. «Di solito offro
agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare
che questa volta non sia il caso». Forlani tira in lungo. Non vuole
prendersi la responsabilità di rendere pubblici gli elenchi. Cerca di
scaricarla sui giudici milanesi. Sui giornali del 20 maggio i titoli
confermano quella sensazione: «Forlani: spetta ai giudici togliere il
segreto sulla P2». Turone, Colombo e il capo dell'ufficio Amati inviano
immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui sostengono
che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle deposizioni dei
testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non «il restante
materiale trasmesso». Forlani capisce che non può più aspettare. Le liste
di Gelli sono rese pubbliche.
Oltre agli elenchi degli
affiliati e alla documentazione sulla loggia, tra le carte sequestrate
vi sono 33 buste sigillate con intestazioni diverse: «Accordo
Eni-Petromin», «Calvi Roberto vertenza con Banca d'Italia»,
«Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli», «On. Claudio
Martelli»... C'erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli,
del Conto Protezione e di tanto altro ancora. Ma i tempi non erano maturi.
Da Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto «Rubamazzo»)
e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci. Sollevano il conflitto
di competenza e la Cassazione, il 2 settembre 1981, strappa l'inchiesta a
Milano per affidarla a Roma. Non sviluppata, l'indagine si spegne. «Mi è
arrivata sulla scrivania già morta», dice Elisabetta Cesqui, il pubblico
ministero che eredita l'indagine. L'accusa di cospirazione politica contro
le istituzioni della Repubblica mediante associazione cade: tutti i
rinviati a giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era
divisa, più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e
comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo tardi e
per tutti scatta la prescrizione.
Più utile il lavoro della
Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, che dichiara le
liste della P2, con 972 nomi, «autentiche» e «attendibili», ma incomplete.
E con anni di lavoro produce un materiale immenso e prezioso, la
documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e
di potere. Ma nel 1981 le speranze - o le paure - erano altre: una parte
del Paese sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita
politica e istituzionale; un'altra temeva che il proprio potere si
incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
Tessera numero 1816. Oggi il più
noto degli iscritti alla P2 è Silvio
Berlusconi, tessera numero 1816. Per la P2 Berlusconi ha subito la
sua prima condanna, ormai definitiva: per falsa testimonianza. Nel 1990, a
Venezia, viene infatti giudicato colpevole di aver giurato il falso
davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla loggia. L'anno
prima, però, c'era stata una provvidenziale amnistia.
Quando parla della P2, Berlusconi se la
cava, di solito, con qualche battuta. Eppure l'iscrizione alla loggia è
stata determinante per i suoi primi affari immobiliari. Per esempio per
ottenere credito dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2,
con ben otto alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei Paschi di Siena
(era piduista il direttore generale Giovanni
Cresti). Conclude la Commissione Anselmi: gli imprenditori Silvio
Berlusconi e Giovanni Fabbri (il re della carta) «trovarono appoggi e
finanziamenti al di là di ogni merito creditizio». Ma poi, fatte le case,
bisogna venderle. E non fu facile, per Berlusconi. Lo soccorse, agli inizi
della sua carriera di immobiliarista, un «fratello» della loggia segreta,
il napoletano Ferruccio De Lorenzo, già
sottosegretario liberale in un governo Andreotti e padre di Francesco,
futuro ministro della Sanità e imputato di Mani pulite: Ferruccio De
Lorenzo acquistò, come presidente dell'Enpam (l'Ente nazionale previdenza
e assistenza dei medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di
appartamenti di Milano 2. L'Enpam decise poi di affidare a Berlusconi
anche la gestione del teatro Manzoni di Milano, controllato
dall'ente.
Il 26
ottobre 1981, dopo lo scoppio dello scandalo P2, Silvio Berlusconi dichiarerà al giudice
istruttore del Tribunale di Milano: «Fu Gervaso a presentarmi a
Gelli, dicendomi che questi aveva vivo desiderio di conoscermi,
perché era stato ben impressionato dalla mia intervista apparsa nel
libro di Gervaso Il dito nell'occhio...». E anni dopo, il 3
novembre 1993, ai giudici della Corte d'Assise di Roma: «Gervaso mi
parlò di Gelli in termini molto positivi [...]. Incontrai Gelli due
volte, penso all'Excelsior, anche se non mi ricordo se una volta
fuori dall'Excelsior, e una volta al Grand Hotel, dove io scendevo
quando venivo a Roma per le mie cose [...]. Io resistetti molto a
dare la mia adesione. Lui mi riempì di complimenti, dicendomi che mi
considerava tra i nuovi imprenditori quello più bravo, e insistette
molto sul fatto che io avevo un futuro importante davanti. Poi
attraverso Gervaso mi fece sapere che avrebbe tenuto molto a una mia
adesione a questa sua associazione, che per la verità allora
appariva come una normalissima associazione, come se fosse un
Rotary, un Lions, e non c'erano motivi, per quello che se ne sapevo,
per pensare che la cosa fosse diversa. Io resistetti molto a dare la
mia adesione, e poi lo feci perché Gervaso insistette
particolarmente dicendomi di rendere una cortesia personale a lui.
Ci fu anche un motivo, diciamo così, pratico. Gervaso mi andava
dicendo che Gelli era molto introdotto presso le autorità politiche
argentine, e che in Argentina si doveva sviluppare una grande serie
di lavori pubblici. Io allora ero presidente di un Consorzio per
l'edilizia industrializzata che raccoglieva tutte le principali
aziende italiane del settore - non la mia azienda; era proprio una
carica che avevo a titolo onorifico e, diciamo così, anche perché
ero giovane. Il fatto che mi avessero chiamato a questa carica aveva
solleticato il mio orgoglio, la mia ambizione personale, e intravidi
in quello una possibile utilità... Però di quello non ne parlammo
mai, perché voglio sottolineare che tutto il mio rapporto si risolse
nel fatto della mia adesione. Ho sentito che nella relazione
parlamentare, al riguardo, mi venne attribuito anche un versamento
di lire centomila. Per quello che ricordo, ma sono sicuro di questo,
a me non fu mai chiesto nulla e non feci nessun versamento mai
[...]. Gelli voleva avere intorno a se le persone migliori
dell'Italia per un club, su cui probabilmente ci sarebbero dovute
essere delle riunioni, delle conversazioni, a cui peraltro non fui
mai invitato, e di cui nessuno mai mi parlò [...]. Il motivo
principale è stato proprio questo, l'insistenza di Gervaso che è un
mio carissimo amico. Lui mi disse: "Fammi fare bella figura", lui
aveva bisogno di scrivere sul "Corriere della Sera", voleva scrivere
sul "Corriere della Sera"... "Ma cosa ti costa, dammi questa
possibilità, fammi fare bella figura", e io aderii [...]. Gervaso mi
raccontava che Gelli era introdotto presso tutti i più alti gradi
istituzionali del Paese e che quindi era persona assolutamente
rispettabile... Oltre al fatto di Gervaso, anche il fatto dei
complimenti che ricevetti, e il tipo di insistenza motivata col
fatto che si vedeva in me una persona di sicuro avvenire, il meglio
che l'imprenditoria italiana in quel momento esprimesse tra i
giovani imprenditori. Probabilmente fu anche la mia vanità che mi
portò [...]. Gervaso voleva rendersi utile, apparire anche, credo,
importante agli occhi di questi signori...».
TESTO TRATTO DA: G. RUGGERI E
M. GUARINO - BERLUSCONI INCHIESTA SUL SIGNOR
TV |
Quando Gelli parla di
Berlusconi, è lapidario: «Ha preso il
nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto», dichiara
all'Indipendente nel febbraio 1996. Il Piano di rinascita democratica era
il programma politico della P2. Fu sequestrato il 4 luglio 1981
all'aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia
Gelli, figlia del Venerabile. Riletto oggi, risulta profetico. Prevede,
infatti, di «usare gli strumenti finanziari per l'immediata nascita di due
movimenti l'uno sulla sinistra e l'altro sulla destra». Tali movimenti
«dovrebbero essere fondati da altrettanti club promotori». Nell'attesa, il
Piano suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile «inserirsi
nell'attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il partito».
Con «un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi» si potrebbe poi «provocare
la scissione e la nascita di una libera confederazione sindacale». Per
quanto riguarda la stampa, «occorrerà redigere un elenco di almeno due o
tre elementi per ciascun quotidiano e periodico in modo tale che nessuno
sappia dell'altro»; «ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il
compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra». Poi
bisognerà: «acquisire alcuni settimanali di battaglia», «coordinare tutta
la stampa provinciale e locale attraverso un'agenzia centralizzata»,
«coordinare molte tv via cavo con l'agenzia per la stampa locale»,
«dissolvere la Rai in nome della libertà d'antenna»; «punto chiave è
l'immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in modo
da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese». Tecnologia
a parte: preveggente, no?
La giustizia va ricondotta «alla
sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di
eversione». Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del
pubblico ministero e dei giudici, «l'istruzione pubblica dei processi
nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici
giudicanti», la «riforma del Consiglio superiore della magistratura che
deve essere responsabile verso il Parlamento». Molto è già stato
realizzato. Per il resto si vedrà. Che fine hanno fatto gli altri
«fratelli» di loggia? Alcuni hanno fatto proprio una brutta fine. Sindona,
dopo essere stato condannato per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto
in carcere, per una tazzina di caffè al veleno. Il suo successore nella
finanza d'avventura, Roberto Calvi, tessera
numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco Ambrosiano,
nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di miliardi e l'ha
fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno 1982, è stato trovato
penzolante sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Mino Pecorelli, tessera 1750, giornalista in contatto
con i servizi segreti, direttore di Op e piduista anomalo che voleva
giocare in proprio, è stato crivellato di colpi nella sua automobile, il
20 marzo 1979.
La loggia multinazionale. Gelli è
agli arresti domiciliari a villa Wanda, condannato per il crac del Banco
Ambrosiano. Molti degli affiliati, il nocciolo duro del club
dell'oltranzismo atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione,
stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi. Così Vito
Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito, Giovanni
Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D'Amato, Giovanbattista
Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del Gaudio, Giovanni
Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio Caradonna, Edgardo
Sogno... Ci vorrebbe almeno un libro per ciascuno, per raccontare
la multiforme attività di questi fedeli servitori del Doppio
Stato. Organizzazione multinazionale, la P2 aveva affiliati che
operavano in Sudamerica: Uruguay, Brasile e soprattutto Argentina. In
Argentina, dove Gelli aveva rapporti molto stretti con i servizi segreti,
aveva arruolato nella loggia l'ammiraglio Emilio
Massera, capo di Stato maggiore della Marina, Josè Lopez Rega, ministro del Benessere sociale di
Juan Domingo Peron, Alberto Vignes, ministro
degli Esteri, l'ammiraglio Carlos Alberto Corti
e altri militari.
Pochi del club P2 sono stati messi davvero
fuori gioco dallo scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi. I
magistrati (unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e
sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura. Ma ciò non toglie
che uno dei magistrati iscritti alla P2, Giuseppe
Renato Croce, tessera numero 2071, oggi giudice per le indagini
preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia dando ragione a
Marcello Dell'Utri in una delle tante contese giudiziarie che il braccio
destro di Berlusconi ha aperte. Molti dei piduisti sono stati messi da
parte dagli anni e dall'età. Ma chi resiste all'azione del ciclo biologico
non se la cava poi tanto male. Tra i giornalisti (di allora), Gustavo Selva è parlamentare di An; Maurizio Costanzo è direttore di Canale 5 e uomo
politicamente trasversale, anche se sempre dalla parte di Berlusconi nei
momenti cruciali; Massimo Donelli è direttore
della nuova tv del Sole 24 ore. Roberto Gervaso
continua a scrivere un fiume di articoli e di libri e nessuno si ricorda
più di una simpatica lettera che inviò, tanto tempo fa, a Gelli: «Caro
Licio, ho chiesto a Di Bella (direttore del
Corriere della sera quando era nelle mani della P2, ndr) di farmi
collaborare. È bene che tutti capiscano che bisogna premiare gli amici.
Oggi Di Bella parlerà della mia collaborazione con
Tassan Din (direttore generale del Corriere, piduista come
l'editore del Corriere, Angelo Rizzoli, ndr). Vedi di fare, se puoi, una
telefonata a Tassan Din, affinchè non mi metta i bastoni tra le ruote».
Più defilato Paolo Mosca, ex direttore della Domenica del Corriere. Gino Nebiolo, all'epoca direttore del Tg1, è stato
mandato da Letizia Moratti a dirigere la sede Rai di Montevideo (una
capitale della P2) e oggi scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara. Franco Colombo, ex corrispondente della Rai a Parigi
e aspirante piduista, oggi ha cambiato mestiere: è vicepresidente della
società del Traforo del Monte Bianco e si sta dando molto da fare per gli
appalti che devono riaprire il tunnel. Alberto
Sensini (aspirante piduista, come Colombo) scrive di politica sui
giornali.
Tra i politici, Pietro
Longo, segretario del Partito socialdemocratico, divenne il simbolo
negativo del piduista con cappuccio. Ma a tanti altri è andata meglio.
Publio Fiori (tessera 1878), ex deputato
democristiano, è trasmigrato in An e nel 1994 è diventato ministro di
Berlusconi. Una poltrona di ministro è già capitata, durante il governo
Berlusconi, anche ad Antonio Martino (anch'egli
a Gelli aveva solo presentato la domanda d'iscrizione). Invece Duilio Poggiolini (tessera 2247), ex ministro
democristiano della Sanità, ha avuto la carriera stroncata non dalla P2,
ma dai lingotti d'oro di Tangentopoli trovati nel pouf del salotto. Massimo De Carolis (tessera P2 1815, solo un numero
in meno di quella di Berlusconi), negli anni Settanta era democristiano e
leader della «Maggioranza silenziosa», oggi è tornato alla politica sotto
le bandiere di Forza Italia e grazie al rapporto diretto con Berlusconi ha
ottenuto la presidenza del Consiglio comunale di Milano e la promessa di
una candidatura in Parlamento. Le ha dovuto abbandonare entrambe, dietro
la ferma insistenza del sindaco Gabriele Albertini, dopo essere stato
coinvolto in alcuni scandali. È accusato, tra l'altro, di aver chiesto 200
milioni per rivelare notizie riservate a una azienda partecipante a una
gara per un appalto a Milano. Ma il fatto curioso è che, insieme a De
Carolis, nel processo in corso a Milano sia coinvolta un'altra vecchia
conoscenza della P2: Luigi Franconi (tessera P2
numero 1778). I rapporti solidi resistono nel tempo.
Politica & affari. Un
banchiere iscritto alla P2, certo meno noto di Sindona e Calvi, era Antonio D'Alì, proprietario della Banca Sicula e
datore di lavoro di boss di mafia come i Messina Denaro. Oggi ha passato
la mano al figlio, Antonio D'Alì jr., eletto senatore a Trapani nelle
liste di Forza Italia. Angelo Rizzoli, che si
fece sfilare di mano il Corriere dalla compagnia della P2, oggi fa il
produttore cinematografico. Roberto Memmo
(tessera 1651), finanziere che tanto si diede da fare per salvare Sindona,
oggi è buon amico di Marcello Dell'Utri, di Cesare Previti e del giudice
Renato Squillante, che incontrava insieme, e dirige la Fondazione Memmo
per l'arte e la cultura, con sede a Roma nel Palazzo Ruspoli. Rolando Picchioni (tessera 2095), torinese, ex
deputato dc, coinvolto (ma assolto) nello scandalo petroli, oggi è in area
Udeur ed è segretario generale del Salone del libro di Torino. Giancarlo Elia Valori, unico caso di piduista
espulso dalla loggia perché faceva troppa concorrenza al Venerabile
Maestro, oggi è presidente dell'Associazione industriali di Roma,
infaticabile scrittore di libri e instancabile tessitore di rapporti e di
alleanze. Vittorio Emanuele di Savoia (tessera
1621) è un curioso caso di uomo off-shore: non può rientrare in Italia, ma
in Italia fa business, seppure attraverso società estere. Ora vorrebbe
poter rientrare definitivamente, anche se nei fatti non ne è mai stato
fuori, a giudicare dai suoi affari e traffici (d'armi): nei decenni scorsi
è stato, anche grazie alla sua integrazione nel club P2, mediatore
d'affari all'estero per conto di aziende italiane (Agusta) e addirittura
di Stato (Italimpianti, Condotte...), quello stesso Stato sul cui
territorio non poteva mettere piede. Di Berlusconi ha detto (era il 1994):
«è un buon manager, può rimettere ordine nell'economia italiana». Come?
Per esempio «cancellando quel disastro» che è «lo Statuto dei lavoratori,
con il divieto di licenziamento». Apprezzamenti naturali, tra compagni di
loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio
politica». Vittorio Emanuele non vota, ma c'è da scommetterci che tifa per
Berlusconi, che potrà farlo finalmente rientrare in Italia, questa volta
anche fisicamente.
Vent'anni dopo, in Italia è tempo di
revisioni. Anche sulla P2. è stato un legittimo club di amiconi, magari
con qualcuno che ne approfittava un po' per fare affari. Gelli? Un abile
traffichino che millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio
questo, la P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per
l'elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico in
Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d'incontro tra politica,
affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è confluito il partito del
golpe, reduce della stagione delle stragi 1969-74, ma con una nuova
strategia, più flessibile, più attenta alla politica. E ai soldi, che
possono comprarla: come suggerisce, appunto, il Piano di
rinascita.
E oggi? La fase, naturalmente, è nuova. La
società è cambiata. Anche gli uomini alla ribalta sono, in buona parte,
diversi. Ma nella storia italiana non si butta via niente, c'è una
continuità di fondo con il peggio delle nostre vicende, fatte di un
anticomunismo eversivo, bancarotte e spoliazioni di denaro pubblico,
politica corrotta, stragi, morti ammazzati, rapporti inconfessabili con le
organizzazioni criminali. Il passato, il tremendo passato italiano, deve
sempre restare non del tutto chiarito, perché i dossier, gli uomini, i
segreti, i ricatti che da quel passato provengono possano essere riciclati
nel futuro. Da questo punto di vista, la parabola di Silvio Berlusconi,
uomo «nuovissimo» che viene dal passato vecchissimo di Gelli e affiliati,
è la parabola dell'Italia.
Leggi
l'intervista a Licio Gelli su La Repubblica del 28 Settembre 2003
(formato Word)
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