tratto da Raffaele Morelli, Autostima, le regole pratiche
a cura dell'Istituto Riza
Penso che, perché ci sia autostima (ovviamente non quella dei luoghi comuni), occorre partire sì da regole pratiche, ma che scaturiscano dalla parte più significativa di noi stessi.
Guardo la gente intorno a me - dice Bauer - vengono qui in Africa, fra le mie tribù, non a cercare il mistero, ma il nulla che sono. La gente viaggia, per così dire per turismo, cioè alla ricerca del nulla. E poi non c'è niente da cercare e niente, assolutamente niente, da capire.
Anche Jung è dello stesso avviso quando scrive:
Li vedete questi turisti, che vanno dappertutto e sono sempre alla ricerca di qualcosa, sempre nella vana speranza di trovarla. Durante i miei numerosi viaggi ho incontrato persone che stavano facendo il loro terzo giro intorno al mondo... senza interruzione. Viaggiavano soltanto per viaggiare, all'eterna ricerca di qualcosa. In Africa centrale conobbi una donna che era venuta da sola in macchina da Città del Capo e voleva andare al Cairo. "Perché" le chiesi. "Perché vuol farlo?". Rimasi stupito quando la guardai negli occhi: gli occhi di un animale braccato, che corre, corre, sempre nella speranza di trovare qualcosa. "Che cosa mai sta cercando?" le chiesi. "Che cosa si aspetta, a cosa corre dietro?". Era come posseduta: posseduta da tanti diavoli che la perseguitavano. E perché era posseduta? Perché viveva una vita senza senso. Una vita totalmente grottesca, banale, totalmente vuota, insignificante, priva di senso. Se oggi verrà uccisa, non sarà successo niente, non scomparirà niente... perché non era niente! (La via simbolica)
E allora? Che cosa si può fare perché la nostra vita ritrovi quel significato, quel "senso nascosto", quella pienezza che sembra essere di pertinenza del Sé e non del nostro Io?
Che cosa si può fare, se l'Io è comunque il centro della nostra relazione con il mondo del reale e degli altri? Non influiscono forse su di noi i giudizi che ci esprimono addosso? Come si può mettere sullo sfondo l'educazione che così pesantemente ha influito nel determinare la stima che abbiamo di noi stessi? Se nel Sé tutto è unito, nell'Io tutto ci sembra spezzettato.
"Esco il mattino presto - Anna Maria 36 anni - porto i bambini a scuola. Mezz'ora dopo sono al lavoro. Alle 5 esco dall'ufficio, corro a riprendere i bambini, gli faccio fare i compiti. Poi la spesa, preparo la cena, arriva mio marito, si cena. Si guarda la tele. A letto. Ha senso tutto questo? La vita dei miei genitori, più dura sicuramente della mia, piena di sacrifici di tipo materiale era certamente però più felice della mia. Forse era il dopoguerra e loro dovevano lottare per degli obiettivi. Oggi abbiamo tutto, almeno quello che serve sul piano economico, però io almeno mi sento vuota".
Che cosa si può rispondere ad Anna Maria? La sua analisi è essenziale: credo che ognuno di noi, almeno per un certo periodo della sua vita, si sia sentito ben rappresentato dalle sue parole.
Nelle parole di Roberto (38 anni) l'assenza di "senso" è ancor più marcata.
"Il mio lavoro non mi piace, tutti i giorni mi dico che devo cambiare lavoro, che avrei dovuto fare il grafico pubblicitario e non il commesso in un negozio di abbigliamento. Mi sento sempre fuori luogo, quando arriva un cliente. Poi faccio degli sforzi e alla fine riesco a tirare la fine della giornata. Lei po-trebbe dirmi: perché non cambia lavoro, perché non cerca qualcosa di più adatto alle sue aspirazioni? Potrei risponderle che è un momento dì crisi, che ho paura di lasciare il certo per l'incerto. Ma non è vero. E' che la mia mente è più forte di me. Mi vengono in mente le parole che ci diceva mio padre: "guai a fare salti nel buio". Così ogni giorno mi dico che la mia vita deve cambiare e invece rimane tutto identico. Ci vorrebbe la bacchetta magica".
Anche nelle parole di Roberto ci ritroviamo, le capiamo, le sentiamo nostre. Quante volte il nostro lavoro ci è sembrato vuoto, ripetitivo, e più di tutto inadatto a noi?
"Ah, maledetti figli del tramonto dell'Occidente - mi dice il Vecchio di una tribù che vive ai margini della foresta - che non sapete più che cosa sia il piacere della vita. Spezzettate tutto e alla fine non sapete più nemmeno che cosa volete, non vi ricordate chi siete, da dove venite e dove andate. Scambiate la "causa perenne" che è in noi con l'involucro passeggero. La felicità non viene dalla testa, meno che mai dalla testa che ragiona. Vi riempite di cose, di scopi, hobbies, come dite voi, per riempire il vuoto che avete dentro. Siete sempre fuori da voi stessi. Come fai ad essere contento se esci da te stesso? Per forza i bianchi si sentono inadeguati".
Come si combatte il sentimento di inadeguatezza? Come si distinguono i falsi scopi da quelli più centrati sulla nostra essenza?
"Come posso essere contento?" mi dice Alfonso, un manager di 35 anni. "Aspetto una promozione che non arriva da 3 anni. Si ha un bel dire, che magari questo è un falso scopo della mia esistenza. Però io ci penso; la promozione non arriva, viene data a un altro e io mi sento crollare il mondo addosso".
E' evidente che il nostro Io si ancora, per la struttura stessa della sua identità, al reale e all'esterno. Non può pensare che la felicità possa venire dal sogno, o dalle immagini. Non pensa alla felicità se non come lo stato che scaturisce dalla realizzazione di progetti, di obiettivi.
Ognuno di noi si dice: "Sarò felice quando? Quando avrò la macchina nuova, la casa più bella, la compagna o l'amante ideale, quando incontrerò chi mi capirà. E ancora quando avrò più soldi, quando piacerò di più ai miei amici, quando sarò dimagrito, quando, quando ... ". Quando?
A me non sono mai piaciuti i profeti... o almeno di quelli che circolano e sono circolati in gran numero negli ultimi anni. Quelli che più o meno ci hanno detto e spiegato come avremmo dovuto fare, che cosa avremmo dovuto essere o diventare.
Chissà perché non c'è profeta da cui poi non scaturisca una setta, da cui poi non scaturiscano regole, che a tutto puntano fuorché all'indipendenza e all'autonomia dell'individuo?
La via per l'autodeterminazione non è e non può essere una fuga esasperata dall'Io e dal reale (i mistici) e neppure può essere la realizzazione fine a se stessa degli obiettivi vuoti e privi di senso cui alludevano Bauer e Jung.
Nemmeno i falsi profeti che ci dicono che cosa dobbiamo fare o a chi assomigliare o come essere o cosa recitare possono darci l'autostima, se non quella che passa per la loro approvazione. La grandezza dell'Occidente è stata quella di aver tenuto sempre desta la coscienza, semmai forse troppo desta...
Per questo bisogna diffidare da chi assicura felicità, promettendoci di realizzare gli scopi che il reale ci propone (soldi, amore, gloria, successo, bellezza).
Ma neppure mi rassicura colui che spinge all'abbandono e alla fuga dai beni materiali, per una via tutta orientata alla meditazione e all'isolamento dal mondo, per non "corrompere" il Dio che ci abita con le illusioni della materia e della vita.
Mi piace di più il pensiero che fa suo l'alchimista, e di cui ho accennato più indietro.
Per l'alchimista la saggezza si basa su due capisaldi: la capacità di autotrasformazione e la capacità di guardare istante per istante noi stessi e il mondo che abitiamo.
L'alchimia ha una caratteristica che la rende unica: mette l'uomo al centro dell'Universo, come ha ben illustrato Jung e soprattutto cerca nel suo programma presente, in modo simile in culture del tutto differenti fin dagli albori dell'uomo, di porre l'attenzione sulla trasformazione della materia in coscienza.
Come ho già accennato, l'alchimia è la via della conoscenza attraverso l'incontro con il reale, non la fuga o la rinuncia.
Perché ci interessa la riflessione sull'alchimia? Perché vorrei prenderla come "esempio arcaico" di un modello di approccio al Reale, in cui l'individuo ha sempre presente la "scia infinita", cui alludevo. Se il programma scritto nel cuore dell'alchimista è quello della metamorfosi cosciente (dalla pietra all'oro, dalla materia alla luce) egli sa che ogni oggetto nel mondo, ogni gesto che lo riguardi non è "ristretto" alle vicissitudini dello spazio. in cui è collocato.
Egli sa che ogni cosa, come anche se stesso, appartiene al divenire del cosmo e tratta tutto come se ogni momento dell'Universo fosse una porta aperta verso la totalità. E' al Tutto che si rivolge in ogni sua azione e con il Tutto intrattiene un rapporto di vicendevole scambio. In ogni azione vede la presenza di una "scia infinita".
Per questo a nulla si sottrae l'alchimista: fa sua la frase così cara al taoista "per il puro tutto è puro".
Il vecchio africano, il saggio di un'antica tribù dell'interno, mi dice: "Non c'è niente da cambiare. Nessuno di noi deve migliorare. Non si tratta di fare una vita diversa da quella che si fa normalmente. Ma per un'instante prova a pensare che, qualsiasi cosa fai, il Signore del Mondo è li presente". Se il Sé è presente, solo che la coscienza voglia vederlo, allora tutto non è più inutile, vuoto e senza senso.
Mi piace riportare un passo di Jung calato sullo stesso tema, collocato in un'altra cultura, rispetto a quella africana.
Una volta ebbi una conversazione con un maestro di cerimonie di una tribù degli indiani Pueblo, il quale mi raccontò cose molto interessanti. "Sì, siamo una piccola tribù disse - questi americani vogliono mettere il naso nella nostra religione. E sbagliano, perché noi siamo i figli del Sole. Quello che cammina lassù - e indicò il sole - è il nostro Padre. Noi dobbiamo aiutarlo tutti i giorni a levarsi sopra l'orizzonte e a camminare nel cielo. E non lo facciamo soltanto per noi: lo facciamo per l'America, per il mondo intero. E se questi americani interferiscono nella nostra religione con le loro missioni, vedranno cosa capiterà. Fra dieci anni il Padre Sole non sorgerà più, perché noi non potremo più aiutarlo".
Bene, direte voi, questa è semplicemente una sorta di moderata pazzia. Non è vero! Quelle persone non hanno problemi. Hanno la loro vita quotidiana, la loro vita simbolica. Si alzano il mattino con un senso di grande, divina responsabilità: sono i figli del Padre Sole, e il loro dovere quotidiano consiste nell'aiutarlo a salire sopra l'orizzonte... non solo per loro, ma per il mondo intero. Dovreste vederli: hanno una dignità naturale, pienamente realizzata. E lo capii benissimo quando mi disse: "Guardi questi americani: sono sempre alla ricerca di qualcosa. Sono sempre irrequieti, sempre sul chi vive. Ma che cosa vogliono! Non c'è niente da cercare!". (La via simbolica)
Certamente in ognuno di noi si può affacciare tutta un'altra psicologia rispetto a quella banale e vuota di senso del quotidiano, se il Signore del Mondo (il Sé) è in qualche modo presente in ogni nostra azione, in ogni nostro atto.
"Ah, certo - mi dice Alain Bauer - la vita cambia se quando dormi il "tuo" Signore del Mondo dorme, idem quando mangi, quando corri, quando fai l'amore. Se ragioni così la tua bellezza è la bellezza del mondo. Tutto ha senso, la coscienza si dilata".
Il saggio per l'alchimista non fa cose differenti, non appartiene ad un altro mondo: fa e agisce le stesse cose di tutti. La differenza è che lui è presente a sé stesso e al mondo in ogni cosa che accade.
Il saggio africano non si aspetta nulla, non cerca nulla. Dilata l'istante dentro di sé e tutto gli appare come un eterno presente.
Ed ecco che cominciano ad affacciarsi le risposte per Anna Maria, Roberto, Alfonso, anche se il discorso sul "Signore del Mondo" sembra portarci lontano. Ad una conferenza su 2001, Odissea nello Spazio che tenevo qualche mese fa a Milano, una persona del pubblico ha controbattuto ad alcune mie osservazioni.
Il senso del suo discorso era più o meno questo: "Ma a cosa ci serve il Monolito, sapere della sua presenza, se poi il mondo è quella schifezza che vediamo, se tutti i giorni fai comunque cose banali che ti rendono più o meno infelice o vuoto? Non vedo praticamente con il mio capoufficio o con la mia compagna in che cosa possa cambiare la mia vita se ammetto o no la presenza del Sé". In pratica ci ricolleghiamo con quello che diceva prima Alfonso: se ad un altro danno la promozione per cui ho lottato e che mi spetta, io mi sento crollare il mondo addosso. Che me ne faccio del Sé?
E' chiaro che è da prospettive come queste che la vita perde di senso e di significato...
In molti anni di psicoterapia ho visto generarsi grandi infelicità in coloro che erano quasi completamente proiettati su un progetto realizzativo.
"Quando faccio una cosa, io vado sino in fondo, costi quel che costi" mi dice Francesco, 42 anni. "Guai se mi facessi distogliere da cose sentimentali o dalle emozioni. Fin che uno non arriva alla meta che si è prefisso, non deve divagare. Deve avere in mente solo quello. Altrimenti il suo obiettivo fallisce. Se devo arrivare ad una cosa io mi ci metto anima e corpo".
I manager di successo o gli "uomini realizzati" delle mie generazioni hanno fatto loro questo slogan che si può più o meno così riassumere: "Non conta niente, se non quello che realizzi sul lavoro. Se hai successo, allora puoi rilassarti, mai prima. C'è un unico obiettivo: arrivare... Il resto non conta".
In genere chi lotta per arrivare ad un risultato ritiene che ci voglia una quota significativa di sofferenza. "Se non soffri, non puoi arrivare alla meta". E più di tutto pensa che i discorsi che non siano strettamente inerenti al risultato che si prefigge siano vacui, vuoti, inutili se non dannosi.
Così ricordo il caso di un noto industriale che mentre raggiungeva e vedeva realizzarsi il sogno della sua vita (l'acquisto dell'azienda del suo maggiore concorrente), veniva abbandonato dalla moglie che lo aveva sostituito con un comune amico e, contemporaneamente, aveva dovuto accompagnare la figlia in clinica psichiatrica, mentre il primogenito usciva da una Comune all'altra per tossicodipendenza da eroina.
Chi è "attaccato" al suo progetto da realizzare (la promozione, l'ascesa lavorativa, la carriera) non ha in mente altro. Quando qualcuno, come il partner o l'amico, lo invita a "distrarsi", ad esempio coinvolgendolo in una serata piacevole o ludica, reagisce dicendo: "Ho in mente ben altro io". E così anche quando è in una serata di svago alla fine parla solo del suo lavoro. Non c'è niente per cui valga veramente la pena di vivere se non per quel progetto da realizzare.
Si costruisce così quella che amo chiamare la "vita fuori tempo" Si, fuori tempo perché è tutta costruita su un progetto da realizzare. Io sarò O.K. solo quando quel progetto sarà realizzato. Sino ad allora non esiste altro tempo che quello che verrà. Non c'è l'istante, non c'è l'adesso. Altri invece vivono nel passato, nel ricordo, nel rancore. "Mi chiedo perché mai è finito il rapporto con mio marito. Dove ho sbagliato? Continuo ad auto-accusarmi. Ho sempre in mente la mia vita com'era".
Il mondo dei rancori, cui si legano inesorabilmente i sensi di colpa, è anch'esso fuori tempo.
"L'uomo bianco non è capace di fare la cosa più semplice - mi dice Bauer - stare nel suo momento, nel suo tempo. Pensa che se gode dell'istante in cui si trova, poi sarà punito. Per cui vive come sospeso tra due momenti che non esistono: il passato che non c'è più e il futuro che forse non arriverà mai".
Chi ha mai detto che se continui a pensare ad una cosa, questa poi ti verrà meglio? Per quale motivo si deve costruire uno spazio per un successo nella sofferenza? E se anche arriverai allo scopo, chi ti toglierà quella sofferenza che ti sei dato? Perché non proviamo a pensare, in ogni cosa che facciamo, che questo è l'unico istante che stiamo vivendo. La vita in genere ci scorre via infelice perché il nostro Io crede che l'attimo che sta vivendo sia un momento di passaggio in attesa di "momenti migliori" che verranno.
Proviamo a pensare, come fa il nostro Sé, che ogni attimo sia l'unico. Allora l'istante si allarga, lo spazio si dilata e conta tutto quello che sto facendo adesso, in questo momento.
Anche se non sarò promosso, anche se non ho la partner che sognavo, anche se il mio lavoro non è quello che mi realizza, io in questo istante ci sono. Esisto. Allargo la mia mente su questo dilatarsi del presente.
Chiudo gli occhi, esisto… ora esisto ora. Consisto.
Non c'è nessun oggetto che mi fa esistere. Nessuno scopo è più importante del mio Sé.