IL VENERDÌ di Repubblica

Visitarlo? Una specie di corsa a ostacoli

Nessun cartello stradale né alberghi, mezzi limitati: il paese polacco di Oswieczim preferisce rimuovere

di Francesca Caferri

Non è sempre bella la memoria. A volte è scomoda, dolorosa, imbarazzante: meglio ovattarla, se nasconderla proprio non si può. A Oswieczim ci provano in tanti: non ci sono cartelli con scritto Auschwitz sulla strada che arriva da Cracovia, né grosse indicazioni una volta arrivati. Il tassista ti scarica all'ingresso del campo con un fastidio evidente, che ha il sapore del rancore. Un sentimento strano, lo stesso che si trova passeggiando nelle vie della città vecchia. Nessun testo sul campo di concentramento nelle librerie, dove però c'è posto per le versioni polacche dei romanzi di lsabelle Allende e Harry Potter: «Quelli li trova al campo» risponde il commesso, se si prova a interrogarlo. Ci prova Oswieczim a negare il suo passato: ci provano le decine di persone che abitano nelle case che un tempo furono parte del campo di Auschwitz, o quelli che nei pressi di Birkenau progettano discoteche o supermercati. Non ci sono alberghi degni di questo nome in città, nonostante le migliaia di visitatori che arrivano ogni anno: solo un ostello spartano, nato per i giovani, dove tutto parla di pace e di convivenza. Un fiore nel deserto, o nella neve del gelido inverno polacco. Ci prova Oswieczim, ma non può riuscirci. Perché basta varcare il cancello di metallo con la scritta «il lavoro rende liberi» che un pugno colpisce lo stomaco: in pochi passi, la placida cittadina polacca sparisce e i fantasmi del passato tornano a vivere. Orchestrine che suonano, prigionieri con la divisa a strisce, lavori forzati, esecuzioni, camere a gas: Auschwitz, in una parola sola. L'orrore di tutto un secolo fatto luogo. E alla testa arriva una vertigine lunga, forte. Non sparirà, per molto tempo. Lo sanno per primi gli studenti, la metà del mezzo milione di visitatori che ogni anno arriva ad Auschwitz. Camminano in silenzio, come fossero zombie. È il mondo esterno quello che entra ogni giorno nei luoghi dell'orrore: la baracca degli esperimenti, dove i prigionieri erano sottoposti a inimmaginabili prove «scientifiche», quella dell'isolamento, con le sue celle lunghe poco più di due metri, quella dei condannati a morte: due porte, una per entrare, una per uscire. Direttamente nel cortile delle fucilazioni, dove una fiamma perenne ricorda le migliaia di persone morte qui. E pochi passi più in là, le baracche trasformate in museo: si cammina in fila, in corridoi stretti e bui, su cui incombono due Iati di vetrine. Dentro, la vita che fu. Migliaia di scarpe, di tutti i tipi: i tacchi delle donne, le suole grosse degli operai e dei contadini, le babbucce dei bambini. Occhiali, spazzolini da denti, pettini. E ancora valigie, ricoperte dalle scritte con i nomi di chi le portava: hanno viaggiato da Italia, Ungheria, Francia e Olanda per arrivare fin qui. Sono sopravvissute ai loro proprietari di cui, qualche vetrina più in là, non resta che una enorme e informe massa di capelli: tutti indistintamente grigi. È il segno del tempo, che minaccia Auschwitz: nulla di quello che è qui era fatto per durare così a lungo, e si vede. I capelli si dissolvono, le calzature cadono a pezzi, il legno delle baracche è minacciato da tarli e gelo: ma tenere in vita il campo è un lavoro da filosofi, prima ancora che da restauratori. Ci sono voluti anni solo per decidere come ripristinare le recinzioni esterne: e da anni, esperti di tutto il mondo discutono senza trovare soluzioni di cosa fare di ciò che resta dei crematori e delle camere a gas. Gli inverni polacchi li stanno divorando, ma sono in tanti quelli che pretendono che neanche una pietra sia rimossa, sostituita o solo toccata. Le eccezioni sono poche, e per questo risaltano: come quel posto, a qualche centinaia di metri dal cancello di Birkenau, dove quasi nessuno si ferma. Non ci sono parcheggi, né cartelli a indicare la Judenrampe, il luogo dove i convogli arrivati da tutta Europa si fermavano e i prigionieri, soprattutto ebrei, venivano fatti scendere e divisi: a destra c'era la morte, rapida, immediata, senza appello. A sinistra una vita fatta di lavori forzati e paura, presumibilmente breve. Per decenni, questo luogo è stato dimenticato e solo la testardaggine di un gruppo di storici - per primo l'italiano Marcello Pezzetti - e i finanziamenti della francese Fondation pour la Shoah hanno consentito che qualche mese fa iniziassero i lavori di restauro. Eppure ancora oggi la Judenrampe non fa parte del percorso ufficiale del museo. Le visite ufficiali si fermano a Auschiwitz l: solo i testardi, o gli informati, si impegnano a cercare la navetta che, in primavera ed estate, percorre i tre chilometri che separano il campo principale dal suo satellite, Auschwitz-Birkenau, il vero luogo dello sterminio, il lager concepito per distruggere gli ebrei, con le camere a gas e i crematori a pochi passi dal bosco di betulle che dà il nome al campo. Bisogna impegnarsi per arrivare fino a qui e toccare il fondo dell'orrore: prendere un taxi o trovare da soli la strada, per poi passare sotto alla famosa torre, guardare le baracche che si estendono a perdita d'occhio, i camminare in un terreno ancora oggi reso soffice dalle ceneri dei morti fino ad arrivare alle rovine dei crematori. È un posto orribile Auschwitz-Birkenau, ma ancora di più, è un posto scomodo, che molti vorrebbero dimenticare: e che proprio per questo tutti dovrebbero vedere.

Da Il Venerdì di Repubblica, 21 gennaio 2005

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