IL VENERDÌ di Repubblica

Foto con dedica del Duce alla sua amata musa. Ebrea

Un documentario di RaiTre svela un curioso «carteggio» tra Mussolini e Margherita Sarfatti, che fu la sua compagna prima della Petacci. Rapporto molto ambiguo, segnato dalla militanza socialista. E dal dolore. L'autore anticipa quel che vedremo

di Nicola Caracciolo

 

Negli anni Sessanta, corrispondente per La Stampa a Washington, conobbi uno dei grandi giornalisti d'allora, Stewart Alsop, pubblicava una column su decine di giornali, dalla costa atlantica a quella pacifica: milioni di lettori. Per me, un maestro da ascoltare. Ricordo una sua regola: in ogni articolo devono esserci almeno due notizie inedite. Anche in occasione del programma Mussolini tra pace e guerra abbiamo trovato inediti straordinari. Gli anni di cui trattiamo vanno dal 1938 al giugno del '4O, data dell'entrata in guerra dell'Italia. Utilizziamo materiale dalle cineteche di tutto il mondo. Per l'Italia dal Luce, principalmente, ma anche dagli Stati Uniti, dall'Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dall'ex Unione Sovietica. La Seconda guerra mondiale, sostiene uno storico attendibile come Martin Gilbert, il biografo di Churchill, è stata in assoluto la più sanguinosa di tutta la storia dell'umanità. Alla sciagura contribuiscono vari fattori: l'espansionismo dell'Italia fascista e del Giappone, la guerra civile spagnola, le stragi di Stalin. E Mussolini che fa? Vuole e non vuole. «Desidera» dice Ciano nel Diario «essere il condottiero del Paese in guerra». Attizza l'incendio, così lo descriverà l'ambasciatore francese a Roma André Francois Poncet, per essere chiamato a spegnerlo. E ottenere, per questo, qualche ricompensa. Fidando nel suo fiuto e nella sua fortuna gioca con il fuoco. Hitler invece non ha né dubbi né esitazioni. «Io sono la guerra» confida a un suo seguace. Margherita Sarfatti, scrittrice, della ricca borghesia ebraica, lascia l'Italia nel dicembre del '38: è cominciata anche da noi la persecuzione antisemita. Una profuga di tipo particolare: la Sarfatti per oltre venti anni fu l'amante di Mussolini. Il suo posto venne preso intorno al 1937 da Claretta Setacci. Abbiamo ottenuto dall'archivio Sarfatti foto totalmente inedite di Mussolini con dedica a Margherita: sono le tracce di un rapporto ambiguo, una storia complessa d'amore e perfidia. «A Margherita che mi accompagna nel mio cammino» firma il Duce nel '22. «A Margherita Sarfatti che ha conosciuto con me le grandi velocità». «A Margherita a tempo trovato». Allusione, forse, al «tempo perduto» della Ricerca di Proust. Margherita era una scrittrice. Grazie al rapporto con il Duce e al suo talento diventerà la regina della mondanità culturale romana. Il suo salotto apriva le porte delle case editrici, dei giornali, delle gallerie d'arte. C'era, tra i due, o sembrava ci fosse, un comune ricordo di dolore. Ambedue erano usciti dal Partito socialista nel '14 perché volevano che l'Italia partecipasse alla Grande guerra. La Sinistra interventista. Mussolini fu tribuno di quell'appello alle armi. Margherita lo pagherà carissimo. Suo figlio Roberto a 17 anni partì volontario. Mori eroicamente. Medaglia d'oro alla memoria. Mussolini che gli era affezionato, scrisse sul Popolo d'Italia un ricordo commosso: «Era un bambino alto, dai lineamenti armoniosi. Per gli adolescenti come lui nella guerra c'è qualcosa di religioso, di poetico, di profondo». Altre fotografie mostrano l'inaugurazione nel '38 del monumento funebre a Roberto. Piove. La madre affranta piange. Per capire l'orrore di questa storia occorre rendersi conto che avrebbe potuto avere un altro finale. Gli ebrei a Salò venivano consegnati ai nazisti che li mandavano a morire nei campi di sterminio. Tra di essi, non fosse morto al fronte nel '18, poteva esserci Roberto Sarfatti. Nel '39 finisce la Guerra di Spagna, sanguinosa anticipazione della Seconda guerra mondiale. Per gli antifascisti italiani è l'occasione di prendere le armi in difesa della Repubblica spagnola, attaccata dai franchisti appoggiati da Mussolini. Viene formato il battaglione Garibaldi che sarà comandato da Randolfo Pacciardi e filmato in combattimento da Ernest Hemingway. Ma dove era finito questo documentario? Né il Luce, né il Centro sperimentale di cinematografia né l'Archivio storico del movimento operaio lo avevano. Finalmente lo rintracciammo a Washington. Mostra il battaglione Garibaldi all'assalto. Il testo di Hemingway, bellissimo, parla dell'immensa solitudine di uomini che affrontano il fuoco e che si interrogano su quello che sarà il loro destino. Un miliziano è ferito alla testa. Un altro lo benda. Chi sono? Pacciardi lo racconta nelle sue memorie. Il ferito è lui. Chi lo soccorre è Pietro Nenni. La macchina da presa di Hemingway ci fa vedere, dopo il combattimento, l'ospedale da campo, pieno di feriti e di morenti. Belle facce di bravi ragazzi italiani. Torna in mente il congedo dalla guerra di George Orwell in Addio alla Catalogna: «Mi restano l'odore delle trincee, l'alba tra i monti che si perdono in distanze inconcepibili, il crepitio delle pallottole, la luce fredda di Barcellona. E poi le facce dei miliziani. Soprattutto loro, uomini che ho visto in prima linea e che ora sono sparsi Dio sa dove, alcuni uccisi, alcuni mutilati, altri in galera. Buona fortuna a tutti quanti!». Tappe di questa via crucis verso un abisso. Si poteva evitare la catastrofe? Ma intanto catastrofe è stata.

Il Venerdì di Repubblica 1 settembre 2006

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