IL VENERDÌ di Repubblica
Il difficile destino di chiamarsi Rolf Mengele
Un film ricostruisce l'incontro fra il criminale nazista e il figlio, che vive tra Germania e Francia. Marcello Pezzetti, esperto di Shoah, racconta la sua storia
di Federica Lamberti Zanardi
«Non ho mai fatto del male a nessuno, lo giuro sulla testa di mia madre». Così Josef Mengele, il medico delle SS accusato di aver compiuto esperimenti medici sugli ebrei a Auschwitz, cerca di convincere suo figlio che in realtà è una vittima e non il carnefice. È uno dei momenti più forti di My Father, che racconta l'unico incontro, avvenuto nel 1977 in Brasile, fra «l'Angelo della morte» e il figlio Rolf, ormai trentenne. Diretto da Egidio Eronico, il film (dal primo giugno nei cinema italiani) riprende il romanzo di Peter Schneider, Papà, che ricostruisce l'avvenimento realmente accaduto e raccontato dallo stesso Rolf Mengele in un'intervista rilasciata nell'estate del 1985 al settimanale tedesco Bunte Illustrierte. Il nazista più ricercato da Simon Wiesenthal ha il volto vecchio e stanco di Charlton Heston, che con una fierezza inquietante non si piega alle accuse del figlio e di tutto il mondo. Thomas Kretschmann (il biondo capitano della nave in King Kong) è il figlio combattuto fra la necessità di sapere la verità sulle colpe del padre e il desiderio di crederlo innocente. Sul set accanto ad attori e registi c'era Marcello Pezzetti, storico del centro di documentazione ebraica di Milano, uno dei massimi studiosi di Auschwitz, consulente di molti film sulla Shoah, da Schindler's List a La vita è bella.
Pezzetti, nel film gli orrori del laboratorio di Mengele sono mostrati con dei flashback essenziali. Perché?
«Con il regista abbiamo passato notti a chiederci: cosa facciamo vedere? Siamo stati d'accordo nel non mostrare l'orrore. Così come aveva fatto Spielberg, che in Schindler's List non è entrato nelle camere a gas. Però siamo stati molto accurati nella ricostruzione del laboratorio. Abbiamo chiamato sul set uno dei gemelli sopravvissuti ai terribili esperimenti: Otto Klein. Aveva sette anni quando era ad Auschwitz con suo fratello. Ci ha aiutato per la scena dell'uccisione di due gemelli».
Deve essere stato terribile per lui.
«Si, era molto colpito: anche perché avevamo ricostruito perfettamente il laboratorio di Mengele. Per fortuna Klein ha una grandissima autoironia senza la quale non sarebbe sopravvissuto. Lui e suo fratello non si sono mai parlati di quello che era accaduto nel lager. Il gemello è morto qualche anno fa per le conseguenze degli esperimenti. Molti dei sopravvissuti alle torture di Mengele soffrono ancora di dolori lancinanti. Per questo si cerca la documentazione sugli esperimenti: per capire che cosa è stato fatto e trovare un rimedio».
Nel film, Mengele, indicando dei quaderni, dice al figlio: lì c'è tutta la mia versione dei fatti. Esistono davvero i diari?
«Sì».
E dove sono?
«Bisognerebbe chiederlo a Rolf Mengele. Suo padre aveva una documentazione enorme sulla sua sperimentazione. Era così fissato sulla precisione che non si fidava delle fotografie e chiedeva a un'assistente di ritrarre a matita le sue cavie. La ricerca partiva dalla misurazione delle diverse parti del corpo per finire con l'analisi degli organi interni. Perché non bisogna dimenticare che tutti gli esperimenti finivano con l'uccisione simultanea dei due gemelli con un'iniezione di fenolo al cuore. Il suo assistente racconta che una volta uno dei gemelli mori poco prima che lui decretasse l'ora in cui doveva ucciderli insieme. Mengele ebbe una crisi di ira spaventosa».
Ma qual era la motivazione scientifica di questi esperimenti mostruosi?
«Mengele, già quando lavorava al Kaiser Wilhelm lnstitut di Berlino, si occupava di gemelli, convinto che esprimessero al massimo le qualità della razza. Voleva scoprire il modo per selezionare qualità e difetti e creare una razza superiore con la quale "ripopolare" l'Est. Ma la scoperta del Dna nel 1953 ha dimostrato che le sue tesi erano anche scientificamente assurde».
Lei dice che Rolf Mengele potrebbe avere i documenti. Lo ha mai incontrato?
«No, non è facile. Ora ha 62 anni, pur essendo avvocato, non esercita più e gestisce un locale al confine fra Germania e Francia. Qualche tempo fa sembrava che un rabbino di Berlino fosse riuscito a convincerlo a dare la documentazione degli esperimenti al mondo ebraico. Ma non è avvenuto. Peccato, ci contavamo tutti. Come contavamo sul fatto che denunciasse il padre»,
Nemmeno la prima moglie di Mengele lo ha denunciato. Ha mai raccontato qualcosa del marito?
«No. Abitava a Merano, ma era un personaggio inavvicinabile. Quando Mengele venne a trovarla in Italia, Wiesenthal riuscì quasi a catturarlo».
Ma chi ha protetto la fuga e la latitanza di Mengele?
«Le SS erano un'organizzazione criminale che ha rubato moltissimo denaro. Questi soldi sono serviti a "mantenere" i nazisti fuggiti in Sud America. E poi sono stati aiutati dal Vaticano».
Dal Papa?
«No, da Monsignor Hudal, che rappresentava la chiesa tedesca all'interno del Vaticano ed è stato il maggior responsabile della fuga dei criminali nazisti».
Il Papa il 28 maggio sarà ad Auschwitz. Che cosa si aspetta?
«È il primo papa tedesco dopo la Shoah ed è fondamentale quello che dirà. Forse è venuto il momento, non dico di condannare, ma per lo meno di parlare dell'aiuto che la Chiesa cattolica ha dato al nazismo».
Nel fllm rimane il dubbio che Mengele non sia davvero morto nel 1979 in Brasile.
«lo penso sia morto davvero. Il regista lascia intendere che non è proprio cosi».
È mai stato valutato il Dna?
«Israele ha fatto tutti gli accertamenti e ha stabilito che il cadavere trovato era quello di Mengele. Ma soffro molto all'idea che sia morto facendo il bagno. Non è possibile che non abbia mai pagato».
Il Venerdì di Repubblica, 26 maggio 2006