IL VENERDÌ di Repubblica
Il tedesco che vuol risarcire gli italiani
Proprio come Oscar Schindler, un professore di storia ha compilato una lista: quella dei prigionieri ridotti ai lavori forzati da Hitler nella sua città. Che indennizza personalmente a nome della Germania. E così finisce sui nostri schermi – Per aver accesso ai documenti c’è voluto un ricorso legale – La città vuole rimuovere la vicenda buia dei soldati schiavi
Paola Zanuttini
C' è un signore tedesco che da cinque anni ha un'idea fissa: riconciliarsi e risarcire, seppur simbolicamente, quei militari prevalentemente ucraini e italiani che a centinaia diventarono gli schiavi di Hitler nelle due fabbriche chimiche di Gersthofen, la sua ridente, ma non troppo, cittadina bavarese. La cosa ci riguarda, e anche molto, perché la pagina degli lmi, gli internati militari italiani, una delle più trascurate della nostra storia, coinvolge oltre mezzo milione di soldati che, dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò o di entrare nelle SS, finendo così nei Lager. E nelle fabbriche belliche del Terzo Reich, costretti ai lavori forzati. Questo signore, che ha 56 anni e insegna storia e inglese al liceo Paul Klee di Gersthofen, si chiama Bernhard Lehmann, ma il suo nome viene sempre più accostato a quello di Oscar Schindler. Per via di una lista che ha compilato insieme ai suoi studenti per ridare identità e dignità a quella massa anonima di uomini passati dalla guerra alla schiavitù. Lehmann e i suoi studenti si misero al lavoro quando la Fondazione Memoria, responsabilità e futuro, istituita con una legge della Repubblica federale tedesca del 12 agosto 2000 per indennizzare il lavoro coatto estorto dalla Germania nazista, escluse con motivazioni alquanto cavillose gli internati militari italiani russi e ucraini da ogni forma di risarcimento. Il professore, che non è proprio in linea con gli umori conservatori della sua città, propose alla classe, ragazzi e ragazze fra i 17 e i 19 anni, una ricerca un po' inedita: «Abbiamo deciso di entrare negli archivi e nelle fabbriche di Gersthofen per far riemergere dall'oblio questa zona d'ombra della nostra storia cittadina. Perché quando si parla in generale sono tutti d'accordo sul bisogno di recuperare la memoria, ma quando si va sui fatti locali cominciano le resistenze, le ragioni di opportunità, i silenzi. Nessuno aveva piacere di scoprire, ammettere, ricordare che nelle nostre fabbriche si era praticato il lavoro forzato». Non è stato semplice ristabilire la verità: anche in Germania esistono i muri di gomma e respingono con teutonica fermezza la volontà di sapere. Il sindaco non voleva che si mettessero alla gogna onorati cittadini che avevano solo eseguito degli ordini. Le fabbriche, la IG Farben e la Transehe, opponevano resistenza più o meno passiva. Il professore e la sua classe hanno fatto ricorso al Tribunale amministrativo di Augsburg e l'hanno spuntata. Solo così sono potuti entrare negli archivi, scovare i nomi degli schiavi di Hitler, rintracciare quelli ancora vivi, organizzare spettacoli di beneficenza con artisti solidali alla causa, e raccogliere i primi centomila euro per avviare i risarcimenti. Una delle prime volte che l'indomito professore venne in Italia, nel settembre del 2004, il Corriere della Sera pubblicò un articolo. Lo sceneggiatore Emiliano Sacchetti e il regista Alessandro Di Gregorio lo lessero e decisero su due piedi di raggiungerlo a Reggio Emilia dove stava consegnando una delle sue buste contenenti, a seconda dei casi, dai 600 ai 1500 euro. Quella storia, decisero, doveva diventare un film. Lo è diventato: si intitola 8744, dal numero della piastrina di Anselmo Mazzi, uno degli internati di Gersthofen, purtroppo scomparso, autore di un diario che è stato un documento fondamentale per le ricerche. Il film, del quale si possono avere notizie sul sito www.8744.it, sta cominciando a girare: circuiti molto alternativi, naturalmente. «Ma non puntiamo a farei i soldi» dice Sacchetti, «vorremmo soltanto che si vedesse nelle scuole». E 8744 nelle scuole si può vedere benissimo: montato quasi come un videoclip, informa, appassiona, indigna, commuove. Insomma, un prodotto su misura per il pubblico giovanile. Ma anche per insegnanti in crisi motivazionale. Davanti alla telecamera digitale, il prof ha dovuto anche recitare, cavandosela con onore, perché 8744 è un docudrama che mescola fiction e realtà. Quindi, Lehmann ha reinterpretato tutte le fasi della vicenda, dalle telefonate tese con il sindaco Siegfried Deffner al lavoro di classe con gli studenti, che non erano più gli stessi, visto che i veri protagonisti dell'impresa hanno ormai lasciato la scuola. Ma gli incontri con i soldati italiani e le loro testimonianze o la cautela con cui i cittadini di Gersthofen rispondono alle interviste sull'opportunità di «rivangare il passato» sono documenti di spiazzante realismo. «Questa è una città ricca e tranquilla che non vuole problemi, soprattutto con il passato. Dal '52 al '67 ha eletto lo stesso sindaco che c'era dal '40 al '45, un galantuomo incarcerato per più di tre anni dagli Americani» spiega Lehmann. E anche l'attuale borgomastro, in carica dal '91 assomiglia più a un despota illuminato del Settecento che a un primo cittadino. L'anno scorso, quando gli ho chiesto un finanziamento più consistente per erigere, in nome della riconciliazione, un monumento con i nomi di 533 prigionieri militari schiavizzati nelle nostre fabbriche scolpiti nella pietra, mi ha risposto che c'era stato un armistizio ma nessuna riconciliazione». Dalle parole degli ex internati intervistati nel film emergono altri sentimenti: un fatalismo molto italiano rispetto alla guerra e ai suoi orrori, il ricordo dei piccoli e sporadici gesti di solidarietà da parte degli abitanti di Gersthofen, la totale assenza di rancore verso i tedeschi. Perché la guerra la decide chi comanda, non chi la fa, spiega semplicemente uno dei reduci. Eppure, un po' di risentimento per la discutibile decisione di escludere gli italiani dai risarcimenti sarebbe anche lecito, visto che in quei Lager morirono almeno cinquantamila internati e altrettanti subirono gravissimi danni alla salute. Ma in realtà i diretti interessati ne sapevano poco o niente della Fondazione memoria, responsabilità e futuro. E ancora meno sapevano che il governo di Silvio Berlusconi non si è speso più di tanto sulla vicenda, anche perché esiste un trattato del 1961 che avrebbe potuto far ricadere sulle casse dello Stato italiano questo genere di indennizzi. Chi ha lavorato negli stabilimenti chimici di Gersthofen ha almeno la consolazione di non essere stato impegnato nella produzione del Zyklon B, il gas usato nei campi di sterminio, però ha partecipato alla fabbricazione del propellente del V2, la micidiale bomba volante che avrebbe dovuto mettere in ginocchio l'Inghilterra, inventata da Wernher von Braun, in seguito direttore della Nasa. «Naturalmente a Gersthofen c'è una strada intitolata a Von Braun» ammette il professore, per una volta sopraffatto dalla rassegnazione. «Ho chiesto al sindaco di cambiargli intestazione, mi ha risposto picche, dicendo che anche gli americani lo ammiravano tanto. Ho rilanciato: diamo almeno il nome di uno schiavo di Hitler a un'altra via, per una questione di imparzialità». Provate a indovinare cosa ha risposto il borgomastro Deffner.
Il Venerdì di Repubblica, 28 aprile 2006