IL VENERDÌ di Repubblica
Storia del Porrajmos, la Shoah degli zingari che nessuno conosce
Ne
furono uccisi almeno 500 mila, più di ventimila entrarono ad Auschwitz. Ma il
numero è arrotondato per difetto. E solo pochi storici si occupano dello
sterminio rimosso di Sinti e Rom
di
Paola Zanuttini
Oggi,
27 gennaio, a 61 anni dall'apertura dei cancelli di Auschwitz, 1500 studenti
romani celebrano il Giorno della Memoria assistendo all'anteprima di Volevo
solo vivere di Mimmo Calopresti. Il documentario monta, con grande
sensibilità e in forma corale, i racconti di nove ebrei italiani che da quei
cancelli riuscirono a venir fuori: ancora una volta si trasmetterà la
memoria, ancora una volta le testimonianze raccolte dalla Shoah Foundation
(dalle quali ha attinto Calopresti) produrranno nuove consapevolezze. Ma
la storia di quegli
anni tragici è un pozzo
senza fondo. Se ormai la parola Shoah
ha un significato sempre più
conosciuto, non si può dire la stessa casa per la sua variante zigana Porrajmos
(alla lettera, divoramento) con la quale l'intellettuale rom Ian Hancock, a
partire dagli anni 90, ha dato un nome allo sterminio di oltre cinquecentomila
zingari. La stima è ufficiale e verosimilmente in difetto perché, per molti
anni, questo sterminio pianificato ed effettuato per ragioni puramente razziali
è stato rimosso. E assimilato alle comunque feroci persecuzioni di «asociali»,
testimoni di Geova, politici, omosessuali, trascurando che i nazisti
consideravano
l'asocialità zingara non un comportamento deviante ma un dato
genetico. «Nei
processi, a partire da quello di
Norimberga, mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti»,
ricorda Giovanna Boursier, storica e giornalista di Report che da
molti anni cerca di fare luce sullo sterminio negato. «E nonostante la
Convenzione di Bonn, voluta dagli Alleati nel 1945, imponesse alla Germania di
indennizzare le vittime di persecuzioni razziali, a loro la magistratura non
concesse alcun risarcimento. Solo nel 1980, il governo tedesco riconobbe che
sotto il regime nazista e nell'Europa occupata anche loro avevano subito una
persecuzione razziale. E solo nel 1994 si è tenuta la prima giornata di
commemorazione delle vittime rom del nazismo al Museo dell'Olocausto di
Washington». Boursier, che per la Shoah Foundation ha raccolto le uniche tre
testimonianze di sinti italiani, conservate anche all'Archivio Centrale dello
Stato, nel 2004 andò ad Auschwitz per una cerimonia che il popolo del vento
celebrava per la sua gente finita nel vento. Lì incontrò Hugo Hollenreiner,
un sinti tedesco che da bambino passò per Auschwitz e per gli esperimenti del
dottor Mengele, molto interessato agli zingari; in quanto «ariani decaduti»,
proseguendo quindi per Mauthausen e Bergen-Belsen. Da quell'incontro è uscito
un piccolo, folgorante documentario-intervista che la rivista anarchica A inserirà
nel cofanetto A forza di essere vento.
Hugo
Hollenreiner era figlio di un militare, quindi apparentemente integrato. Era
povero, ma aveva un amico tedesco purosangue che gli regalava sempre una mela.
Quando c'erano altri bambini,
però, gli tirava solo il torsolo, finché arrivò il giorno in cui lo calpestò
per non farglielo prendere. La discriminazione, che in Germania vigeva già da
tempo e in Baviera, in forma di legge, addirittura dal 1926, si era trasformata
in persecuzione. Se nel '37 erano iniziate deportazioni e sterilizzazioni, nel
dicembre del '38 Himmler emana un decreto che segna la fine della «questione
zingara»: sinti e rom devono scegliere fra sterilizzazione e internamento. La
memoria del Porrajmos è rimossa e sfilacciata anche perché diversa è la
memoria degli zingari, che tramandano la loro storia per via orale, favolistica.
E, come gli ebrei, i sopravvissuti rom e sinti hanno ugualmente faticato a
rievocare quelle atrocità, temendo ancor più di non essere creduti, visto
il pregiudizio che pesa sulla loro attendibilità. Ma la testimonianza di Hugo
è un documento di lucidità agghiacciante. Sono atti della storia il racconto
del viaggio in treno e della sporcizia asfissiante; della determinazione a
resistere
ai sadici esperimenti di Mengele, che a lui e al fratello infilò «un pezzo
di ferro piegato in mezzo alle gambe fin dove faceva male», sino a farli «nuotare
nel sangue»; dei cani scagliati contro gli organi sessuali di cinque sinti nudi
e della donna che sparò in testa all’uomo biondo che cercava di staccare le
bestie. Digitando su Google Zigeunerlager, ovvero il recinto per i nomadi
di Auschwitz dal quale una delle prime notti di agosto del 1944 furono
prelevati circa 4000 uomini, donne e bambini per chiuderli, tutti quella notte,
nelle camere a gas, il motore di ricerca obietta: «Forse cercavi Zigeunerlieder»
ovvero i Canti zingari di Brahms. Per molti anni nei suoi frequenti
incontri pubblici, anche Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz e
instancabile testimone della Shoah, aveva omesso il racconto dello Zigeunerlager:
«Me lo fece ricordare in un'intervista per la tv del Pci proprio Giovanna
Boursier. Da allora non c'è volta che non nomini quel campo, che a noi sembrava
un'isola di vita, con i bambini che giocavano tra i panni stesi». In Italia
si parla di seimila zingari internati ma mancano i riscontri: omonimie e arresti
ripetuti sono fonte di confusione. Non si sa neanche quanti ne furono
deportati: nel suo libro di memorie Giuseppe Levakovich racconta la storia di
sua moglie Wilma, e di altre due giovani zingare, Muja e Mitska, finite a
Ravensbrück e a Dachau. La prima a raccogliere testimonianze è stata la
ricercatrice
rom Mirella Karpati, che però non aveva a disposizione i materiali storici
per effettuare i riscontri. Poi è arrivata Boursier. La prima circolare
ministeriale che ordina di «epurare il territorio nazionale» dagli zingari
stranieri, molti dei quali erano efficienti artigiani, è del 1926, il primo
ordine di internamento del 1940. I campi di internamento potevano essere misti
o solo per rom come, molto probabilmente quello di Agnone (Isernia). Altri nomi,
come Boiano, Vinchiaturo, le Tremiti, Perdasdefogu, Tossicia, Gries, Tignano,
Berra, ricorrono nelle memorie dei vecchi rom, ma Rosa Corbelletto, che si è
appena laureata a Torino con una tesi sullo sterminio negato, incrociando
rapporti di polizia, documenti amministrativi e altri reperti è riuscita a
trovare le evidenze di un migliaio di rastrellamenti. «l documenti sono ancora
sparsi» dice, «negli archivi dovrebbero catalogarli, ma i materiali per
ricostruire questa storia ci sono. Basta cercarli».
Il Venerdì di Repubblica, 27 gennaio 2006