IL VENERDÌ di Repubblica
La
drammatica storia di
Petr e quella
incredibile del suo diario
A
14 anni fu deportato, a 16 morì ad Auschwitz. Viveva a Praga e scriveva
su un bloc notes. Che rispuntò
in occasione di un'altra tragedia, lo scoppio dello Shuttle... Un libro racconta
come, sessant'anni dopo, il caso ha unito il destino di
due ebrei
di
Antonella Barina
«Martedì
30 giugno 1942. Di pomeriggio a scuola. Nella pagella avrò tutti ottimo.
L'insegnante me l'ha detto perché faccia in tempo a dirlo alla nonna, prima che
venga deportata. Sono stato buttato fuori dal tram da un tedesco in malo modo.
Ha detto: Heraus! Fuori! E io sono dovuto scendere; hanno detto che
trasportavo una coperta non impacchettata. Sono dovuto correre sotto una
terribile pioggia». «9 luglio 1942. Di mattina alle 5 la mamma è andata ad
accompagnare la nonna che partiva con il treno. I deportati camminavano in
gruppi di cinquanta persone accompagnati dai soldati lungo il binario sud. Ci
hanno dato la pagella».
Aveva
13 anni petr Ginz, era un adolescente ebreo di Praga, quando nella città
occupata dai nazisti scriveva il suo diario: appunti
privati - un segreto tra lui e la pagina -
in cui
la quotidianità della scuola, degli amici, dei giochi si intrecciava con
l'osservazione di un mondo sconvolto. Una vita, per gli ebrei marchiati dalla
stella gialla («avevo tre stelle una sotto l'altra: sul soprabito, sul
cappotto e sulla camicia»), scandita da divieti e umiliazioni sempre più
atroci. Mentre ad uno ad uno venivano prelevati vicini e conoscenti, del tutto
ignari di quel che li aspettava. A 14 anni Petr fu rinchiuso nel campo di
concentramento di Terezín, vicino a Praga. A 16 fu caricato su un carro
bestiame
e deportato ad Auschwitz. Appena arrivato, finì in una fossa comune. La
prossima settimana, quando il mondo commemorerà i sei milioni di vittime
della Shoah, nel giorno della Memoria, usciranno in Italia quegli appunti di
Petr, scampati per
miracolo alla distruzione. Recuperati dalla sorella, Chava Ginz Pressburger, che
li ha trascritti, annotati, arricchiti di poesie e racconti del fratello: Il
diario di Petr Ginz. Un adolescente ebreo da Praga ad Auschwitz, editore
Frassinelli. Si trattava di due quadernetti che Petr si era fabbricato da solo
con della carta vecchia (agli ebrei era vietato acquistare notes nuovi in
cartoleria) e che aveva continuato ad annotare dal 19 settembre 1941 al 9
agosto 1942, poco prima di essere deportato a Terezín. Diari che ci permettono
di osservare Praga dopo l'invasione nazista con gli occhi di un suo piccolo
abitante. E che ricomparvero all'improvviso, inattesi, sessant'anni dopo. Era
il 2003 quando Ilan Ramon, primo israeliano in orbita, decollò con altri sei
astronauti da Cape Canaveral, nella navetta spaziale Columbia. Sua madre era
morta ad Auschwitz e lui aveva voluto portare con sé nello spazio un
simbolo della Shoah: proprio un disegno di Petr Ginz, fino ad allora conservato
nel Museo dell'Olocausto di Gerusalemme. La missione spaziale finì
tragicamente: lo shuttle si disintegrò in volo pochi minuti prima
dell'atterraggio. Il pubblico mondiale ne fu sconvolto e la tv parlò anche del
disegno di Petr, raccontando la sua storia. Fu allora che qualcuno contattò
da Praga il Museo dell'Olocausto, dicendo di aver trovato quaderni e disegni
firmati da un Petr Ginz in una casa acquistata qualche anno prima. Il Museo era
interessato ad acquistarli? A verificare che si trattasse dello stesso Petr fu
chiamata Chava Pressburger: sì, la calligrafia degli estratti arrivati per
posta elettronica da Praga era proprio quella di suo fratello e anche gli
avvenimenti descritti erano veri. Chava partì per Praga e tornò in possesso
del piccolo tesoro di ricordi di famiglia. Sei libricini compilati fitti fitti
(tra gli 8 e i 14 anni Petr aveva scritto anche cinque romanzi, uno sulla
falsariga di Jules Verne, vari articoli e poesie). Nonché alcuni suoi disegni
incisi su linoleum. Perché Petr si sentiva scrittore, libraio, tipografo,
editore, reporter. Quando i nazisti lo espulsero da scuola iniziò a pianificare
da solo i propri studi, facendo il bilancio settimana per settimana di ciò
che era riuscito a realizzare. Perfino quando fu rinchiuso nel campo di
Terezin fondò e diresse una rivista, Vedem («Conduciamo»), redatto
dai giovani che occupavano una casa del blocco L417. Terezín
era una sorta di «lager-modello», utile per la propaganda, da mostrare
alla Croce Rossa e alle diplomazie straniere, dove
passarono 140 mila detenuti. Dagli scritti di Petr dei due anni trascorsi lì,
in quel «ghetto senza mura», si intuisce che pensava di tornare prima o poi a
casa, in quella sua famiglia colta e progressista, dal padre poliglotta che
dirigeva l'ufficio esportazioni di un'impresa tessile, dalla madre che amava
la musica e cantava arie d'opera, dal nonno libraio antiquario. Invece tutti i
suoi familiari, tranne il papà e la sorella, sono morti nei campi di sterminio.
«Ciò che adesso è
assolutamente
normale in un'altra epoca farebbe scalpore», scrive Petr prima della
deportazione,
nei diari che oggi vengono pubblicati. Ed ecco la libertà degli ebrei di
Praga limitata ogni giorno di più
da nuovi decreti: «Gli ebrei non
possono andare dal barbiere». «In piazza San Venceslao c'è scritto che gli
ebrei non possono più leggere il giornale». «I tabacchi non li possono
comprare i carcerati, i pazzi e gli ebrei». La loro vita è sempre più
grama: «Alla mamma si è gonfiato il viso tanto che è irriconoscibile. Pare
che siano i surrogati che mangiamo». «Gli zii Sláva e Milos sono tornati dal
lavoro; laggiù se la passano molto male: nella baracca, dove abitano in 300,
entra acqua dal tetto e dal pavimento». Intanto gli amici continuano a essere
portati via: «Ehrlich della classe accanto viene deportato lunedì con un
convoglio di cinquemila ebrei». «Pare che partiranno per Terezín quelli il
cui cognome inizia per Löv, Löw, Lev. Eravamo in pensiero per i Levitus».
Con
il passare dei mesi,
gli appunti di Petr si facevano
sempre più nervosi, la
calligrafia meno chiara. Finché non toccò anche a lui. Dopo
essere arrivato a Terezín, Petr
aggiunse nel diario la descrizione della sua partenza, usando in parte una
scrittura segreta, inventata da lui, fatta di cirillico, ebraico e
stenografia, che la sorella è riuscita a decifrare: «Mamma, ci sono anch'io
nella lista dei deportati". Era fuori di sé, cominciò a piangere, non
sapeva cosa fare. lo la consolavo. Cominciarono i preparativi».
Il Venerdì di Repubblica, 20 gennaio 2006