IL VENERDÌ di Repubblica
Perché
la Francia fa i conti solo ora con gli intellettuali che mise in galera
Max
Ernst, Luigi Longo, il figlio di Thomas Mann, Golo: a Les Milles, in Provenza,
furono rinchiusi antifascisti e artisti. Poi, ebrei destinati ai lager. Una
memoria abbandonata che, finalmente, Parigi decide di fare sua
dal
nostro inviato Marco Cicala
Les
Milles (Aix en Provence). Prima
la vergogna, poi il crimine, si consumarono nella bellezza. A chi, da turista,
abbia visitato le plumbee baracche di Auschwitz, Buchenwald o Dachau, farà un
effetto quasi bucolico entrare nell’immensa fornace di Les Milles (pochi
chilometri fuori Aix en Provence) dove, tra il ’39 e il ’42, vennero
internati migliaia di antifascisti d’ogni nazionalità, e, in seguito, ebrei
avviati allo sterminio. Le alte ciminiere stanno ancora lì. Tuffate nella
trionfale primavera provenzale. Tra gli alberi fitti, d’un verde giovane e
profondo. L’erba punteggiata da sciami di papaveri. Il cielo teso nella luce
sconfinata, cézanniana. Dopo anni di smemoratezza, nei mesi in cui si celebrava
il sessantesimo anniversario della Liberazione dei Lager, la Francia decideva di
rifare i conti con quel passato ingombrante, sbloccando un primo finanziamento
di tre milioni di euro per trasformare il sito in museo della memoria. Un
successo per l’Associazione Memoire du Camp des Milles, per il sociologo Alain
Chouraqui, anima del progetto, insieme alla Fondazione per la memoria della
Shoah. Settembre 1939: le armate del Reich si sono già divorate mezza Polonia.
Sgranati lungo le frontiere orientali, tre milioni di soldati francesi attendono
pigramente l’attacco. A Parigi, mentre si gonfiano i venti di guerra,
l’esangue governo Daladier (quello del Patto di Monaco, con cui le democrazie
occidentali lasciavano via libera all’annessione nazista della Cecoslovacchia
e alla guerra totale) vara misure d’eccezione a tutela della sicurezza
nazionale. Un decreto stabilisce che qualsiasi straniero rifugiatosi in Francia
da Paesi nemici dev’essere considerato soggetto potenzialmente pericoloso. E,
come tale, rinchiuso in «centri speciali». Non è un’invenzione francese,
quasi tutti i paesi belligeranti, dagli Usa al Giappone, faranno lo stesso. In
Francia, però, dilaga la paranoia xenofoba, il terrore della «quinta colonna»:
spie e infiltrati che potrebbero spianare la strada all’invasione nazista. In
realtà, la stragrande maggioranza di quegli stranieri è costituita da
antifascisti perseguitati, riparati nella Patria dei Diritti dell’uomo da
tutta Europa: Germania, Austri, Polonia, Italia … (da Les Milles passano, tra
gli altri, i comunisti Luigi Longo e Giuliano Paletta, fratello di Giancarlo).
Con la Wehrmacht che premeva ai confini, molti rifugiati si erano presentati
spontaneamente in caserme e commissariati per arruolarsi nell’esercito
francese e battersi contro un incubo che sembrava inseguirli ovunque. Eccesso di
fiducia: dalle autorità della République riceveranno in cambio solo
maltrattamenti, minacce, nel migliore dei casi, burocratica indifferenza.
Schedati come «indesiderabili» vengono ammassati in campi di reclusione come
il Vernat (Pirenei) o Les Milles. Dietro la fornace di Aix en Provence si
ritroveranno, fianco a fianco, le menti migliori di una generazione, il fiore
dell’intellighenzia mitteleuropea anni Venti e Trenta. I pittori Max Ernst e
Hans Bellmer (che durante la prigionia ritrasse l’amico rappresentandolo con
la faccia costruita di mattoni); lo scrittore Lion Feuchwanger (sulla detenzione
scriverà il libro Amara Francia), lo storico Golo Mann, figlio di Thomas,
il poeta Walter Hasenclever (che a Les Milles si toglierà la vita), lo
scienziato Tadeus Reichstein, inventore del cortisone, il premio Nobel per la
medicina Otto Meyerhof … Comunisti, anarchici, liberali o apolitici. Poco
importa: tutti dentro, quando la paura dello straniero tout court diventa
legge. A Les Milles tutto è rimasto come allora. In un’ala del grande
edificio si fabbricano ancora tegole e mattoni. La polvere rossa formicola
nell’aria e impasta la lingua. Nel campo, le condizioni di prigionia erano
dure (niente riscaldamenti e servizi igienici, cibo scarso) ma nemmeno
lontanamente paragonabili a quelle dei Lager hitleriani. Nel ’41, Paletta
evaderà addirittura in tram, sfruttando una licenzia temporanea: «Lasciare Les
Milles è una cosa talmente facile che ti toglie perfino un po’ del gusto che
hai riacquistando o, diciamo meglio, riprendendoti la libertà» scrive nell’autobiografia
Douce France. I prigionieri, comunque,
impegnano le lunghe ore vuote scrivendo, dipingendo affreschi sui muri dei forni
dove dormono ammucchiati, sulle pareti del refettorio riservato ai guardiani.
Oppure organizzando spettacoli teatrali, cabaret satirici alla maniera della
libera Berlino weimariana. All’entrata di una cella leggi ancora verniciata
l’insegna Die Catacombe. Era il nome, presago, di uno di quei locali
notturni. Ma per quanto possano industriarsi per dimenticare la tragedia che li
sovrasta, molti di loro si sentono uomini traditi per sempre, le loro utopie
sbriciolate dal patto tedesco-sovietico dell’agosto ’39. non hanno scelto la
Francia come un qualsiasi porto sicuro nella tormenta totalitaria: in quel Paese
riconoscevano, sentimentalmente, l’ultimo asilo dell’umanità nel continente
che affogava nella barbarie. Dovettero ricredersi. Liberté, egalité,
fraternité sarebbero rimaste parole inerti, stampate sui palazzi d’un
Paese prossimo allo sbando. Finita l’euforia operaia del Fronte popolare. Gli
scioperi e i balli in piazza con organetti e vino rustico. A destra c’è chi
strepita: «Meglio Hitler che i rossi al governo» ma anche la sinistra è
travolta dagli eventi: si blinda nel velleitarismo pacifista xenofobo. «A
quell’epoca, il continente europeo era arrivato al punto in cui si poteva
dire, senza ironia, a un uomo, che doveva considerarsi fortunato di venir
fucilato invece che strangolato, decapitato o pestato a morte» scriveva Arthur
Koestler in Schiuma della guerra, (Il Mulino, pp. 262, euro 15,49), a
tutt’oggi il documento più drammatico e toccante su quei giorni disperati.
Ebreo ungherese, agente del Komintern, propagandista itinerante, ma poi
formidabile demolitore della menzogna comunista, Koestler fu rinchiuso nel campo
del Fernet e passò molto vicino a quello di Les Milles. «La Francia aveva
divorziato con la libertà. L’internamento degli antifascisti provocò in
un’intera generazione uno choc epocale. Tutto un universo mentale sprofondava.
La Repubblica correva già verso Vichy» spiega lo storico Michel Laval, che ad
Arthur Koestler ha dedicato una splendida, monumentale biografia: L’homme
sans concessions. Arthur
Koestler et son siècle. (Calmann – Lévy, pp. 709,
euro 25) appena uscita in Francia. Maggio 1940: davanti al Blitzkrieg
hitleriano le divisioni francesi si squagliano come burro: «Mai» scrive Laval,
«nemmeno nei peggiori momenti della sua storia (…) neanche durante la Guerra
dei cent’anni, la ritirata delle armate napoleoniche del 1814 o la décâble
del 1870, la Francia aveva conosciuto un collasso simile. Era uno spettacolo
inaudito e patetico quello di una nazione vecchia di oltre mille anni che la
disfatta consumava lentamente, fino a ridurla allo stato d’un cadavere
calcinato». Forti di una buona rete di conoscenze internazionali e altolocate,
quasi tutti gli intellettuali reclusi a Les Milles riuscirono a salvarsi dalle
grinfie hitleriane. Ma, in breve, il campo sarà destinato a compiti ben più
atroci di quelli assolti in precedenza. Nel ’42, il governo filonazista di
Vichy si impegna a consegnare gli ebrei alle forze d’occupazione tedesche. A
luglio dello stesso anno accetta che vengano deportati anche i loro figli sotto
i sedici anni. In pochi mesi migliaia di persone transitano da Les Milles per
poi essere trasferite nei campi della morte via Drancy (Francia del Nord). Con
l’aiuto del pastore protestante Henri Manen e dell’ex guardiano Auguste
Boyer (insigniti del titolo di «giusti» dello Stato di Israele) alcuni
potranno scappare. La maggioranza non fece più ritorno. I bambini si chiamavano
Jean Krauss, età: un anno; Daniel Kaminsky, due anni; Jürgen Schild, due; Noëmie
Kaminsky, sette; Maria Kleinkopf, quattro; Rachel Rosner, cinque; Willy Zwirn,
sei; Isaac Strumer, nove … A Les Milles, su un binario morto, c’è ancora un
vagone a ricordarli. In un frinire di cicale che ubriaca. Sotto un sole che
stordisce. E che oggi, a ripensarci, inasprisce nel visitatore l’emozione e il
lutto.
Da Il Venerdì di Repubblica, 3 giugno 2005